ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nei giudizi di legittimita'  costituzionale  dell'art.  4-bis,  comma
 primo, lettera a), prima e seconda parte, della legge 26 luglio 1975,
 n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle
 misure  privative  e  limitative  della  liberta'),  come  modificato
 dall'art. 15, comma primo, del decreto-legge 8 giugno  1992,  n.  306
 (Modifiche   urgenti   al   nuovo   codice   di  procedura  penale  e
 provvedimenti di contrasto alla criminalita' mafiosa), degli artt. da
 1 a 10 e 15, comma secondo, del decreto-legge 8 giugno 1992,  n.  306
 convertito  in  legge  7  agosto 1992, n. 356, promossi con ordinanze
 emesse il 10 ed il 3 luglio 1992 dal  Tribunale  di  sorveglianza  di
 Sassari,  il  10  e  17  giugno 1992 dal Tribunale di sorveglianza di
 Firenze, il 2 luglio dal Tribunale di sorveglianza di Cagliari, il 10
 giugno 1992 dal Tribunale di sorveglianza di Milano, il 7 agosto 1992
 dal Tribunale di sorveglianza di Sassari, il 7 luglio 1992  dal  Pre-
 tore  di  Venezia, il 29 settembre 1992 dal Tribunale di sorveglianza
 di Palermo, il 15 ottobre 1992 dal Tribunale di sorveglianza di Bari,
 il 2 dicembre 1992 dal Tribunale di sorveglianza di Campobasso, il  7
 ottobre  1992 dal Tribunale di sorveglianza di Firenze, il 1› ottobre
 1992 dal Tribunale di sorveglianza di Perugia, il 21 ottobre 1992 dal
 Tribunale di  sorveglianza  di  Firenze,  il  12  novembre  1992  dal
 Tribunale  di  sorveglianza  di  Bari, il 6 ottobre ed il 24 novembre
 1992 dal Tribunale di sorveglianza di Brescia, il  26  novembre  1992
 dal  Tribunale  di  sorveglianza  di  Bari  ed il 1› ottobre 1992 dal
 Tribunale di sorveglianza di Perugia, rispettivamente iscritte ai nn.
 da 511 a 527, da 539 a 544, da 550 a 552, da 565 a 580, 583, da 766 a
 768, 774, 775 e 800 del registro ordinanze 1992 e ai nn. 12, 13,  54,
 64,  67,  72,  78,  96,  97,  102 e 108 del registro ordinanze 1993 e
 pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 40, 41, 42 e
 52, prima serie speciale, dell'anno 1992 e nn. 2, 5, 8, 9, 10,  11  e
 12, prima serie speciale, dell'anno 1993;
    Visti  gli  atti  di  intervento  del Presidente del Consiglio dei
 ministri;
    Udito nella camera di consiglio del  26  maggio  1993  il  Giudice
 relatore Ugo Spagnoli;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Il  decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, recante "Modifiche
 urgenti al nuovo  codice  di  procedura  penale  e  provvedimenti  di
 contrasto alla criminalita' mafiosa", dettando, nel titolo IV, "Norme
 in  materia  penitenziaria",  prevedendo, all'art. 15, il "divieto di
 concessione  di  benefici  per  gli  appartenenti  alla  criminalita'
 organizzata",  ha,  al  comma  1, lettera a), modificato l'art. 4-bis
 della legge 26  luglio  1975,  n.  354  (ordinamento  penitenziario),
 stabilendo tra l'altro - per quanto qui interessa - che:
       a)  " .. le misure alternative previste dal capo VI della legge
 26 luglio 1975, n. 354, possono essere concesse ai  detenuti  ..  per
 delitti  commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo
 416-bis del codice penale ovvero al  fine  di  agevolare  l'attivita'
 delle  associazioni  previste  dallo  stesso  articolo  nonche' per i
 delitti di cui agli articoli  416-bis  e  630  del  codice  penale  e
 all'art.  74  del  decreto  del Presidente della Repubblica 9 ottobre
 1990, n. 309, solo nel caso in cui tali detenuti ..  collaborano  con
 la  giustizia  a  norma  dell'art.  58-ter": collaborazione che, alla
 stregua di quest'ultima disposizione - introdotta con  l'art.  1  del
 decreto-legge  13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni,
 nella legge 12 luglio 1991, n. 203 -  si  riferisce  a  "coloro  che,
 anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l'attivita'
 delittuosa  sia  portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato
 concretamente l'autorita' di polizia o l'autorita' giudiziaria  nella
 raccolta  di  elementi  decisivi per la ricostruzione dei fatti e per
 l'individuazione o la cattura degli autori dei reati".
    Il comma 2 del medesimo art. 15, a sua volta, dispone tra  l'altro
 che:
       b)  "nei  confronti  delle  persone  detenute .. per taluno dei
 delitti indicati nel primo periodo del comma 1 (dell'art. 4-bis)  che
 fruiscano, alla data di entrata in vigore del presente decreto, delle
 misure  alternative alla detenzione .. l'autorita' di polizia, ove lo
 ritenga, comunica  al  giudice  di  sorveglianza  competente  che  le
 persone  medesime  non si trovano nella condizione per l'applicazione
 dell'articolo 58-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354. In tal  caso
 il  Tribunale  ..  di  sorveglianza  dispone  la  revoca della misura
 alternativa alla detenzione .. ".
    Il predetto decreto-legge n. 306 del 1992 e' stato convertito, con
 modificazioni, con la legge 7 agosto 1992, n. 356.
    Le modifiche al testo del primo comma del citato art. 4-bis  della
 legge  n.  354  del 1975 - cosi' come innovato dall'art. 15, comma 1,
 del decreto - sono le seguenti:
       c) nella prima parte, si  stabilisce  che  la  disposizione  si
 applica,   tra  l'altro,  alle  misure  alternative  alla  detenzione
 previste dal capo VI "fatta eccezione per la liberazione anticipata";
       d) viene aggiunta  una  seconda  parte,  del  seguente  tenore:
 "Quando  si  tratta  di  detenuti  o  internati  per uno dei predetti
 delitti,  ai  quali  sia  stata  applicata  una   delle   circostanze
 attenuanti  previste  dagli  articoli  62,  n.  6),  anche qualora il
 risarcimento del danno sia avvenuto dopo la sentenza di  condanna,  o
 114  del  codice  penale,  ovvero  la disposizione dell'articolo 116,
 secondo comma, dello  stesso  codice,  i  benefici  suddetti  possono
 essere  concessi anche se la collaborazione che viene offerta risulti
 oggettivamente irrilevante purche' siano acquisiti elementi  tali  da
 escludere  in  maniera  certa  l'attualita'  dei  collegamenti con la
 criminalita' organizzata".
    La legge di conversione ha apportato modificazioni anche al  comma
 2 dell'art. 15 del decreto-legge, stabilendo che:
       e)  al  primo  periodo,  le  parole:  ",  ove lo ritenga," sono
 soppresse; al secondo periodo, le parole: "In tal caso il tribunale o
 il magistrato di sorveglianza" sono sostituite  dalle  seguenti:  "In
 tal  caso,  accertata  l'insussistenza  della suddetta condizione, il
 tribunale di sorveglianza".
    2.   -  Nella  vigenza  del  predetto  decreto-legge  n.  306,  le
 disposizioni sub a) e b) hanno formato oggetto di varie questioni  di
 costituzionalita'.
    2.1.  -  La  disposizione  sub  a)  (art.  15,  comma  1) e' stata
 impugnata dal Tribunale di sorveglianza di Firenze con ordinanza  del
 10  giugno  1992  (r.o. n. 550/1992) emessa in un procedimento per la
 concessione della liberazione condizionale: e cio',  nel  presupposto
 che,  sebbene  il citato art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 - nel
 testo modificato con l'art. 15, comma 1, del  decreto  -  non  faccia
 diretto   riferimento   alla   liberazione   condizionale,  esso  sia
 applicabile anche  a  questa  in  virtu'  dell'art.  2  del  predetto
 decreto-legge  n.  152  del  1991,  convertito nella legge n. 203 del
 1991, il quale dispone: "I condannati  per  i  delitti  indicati  nel
 comma  I  dell'art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, possono
 essere ammessi alla liberazione  condizionale  solo  se  ricorrono  i
 relativi  presupposti  previsti dallo stesso comma per la concessione
 dei benefici ivi indicati".
    Nella  stessa  data,  poi,  il  medesimo  Tribunale  ha  sollevato
 un'identica   questione   di   costituzionalita'  nell'ambito  di  un
 procedimento concernente la concessione della liberazione anticipata,
 nel presupposto che la norma impugnata  si  riferisca  anche  a  tale
 misura (r.o. n. 552/1992).
    Lo stesso art. 15, comma 1 - nella parte, pero', in cui prevede la
 medesima  disciplina descritta sub a) per la concessione dei permessi
 premio (art. 30-ter dell'ordinamento penitenziario) -  e'  stato  poi
 impugnato  dal Tribunale di sorveglianza di Sassari con tre ordinanze
 identiche emesse il 7 agosto 1992 (r.o. nn. 766, 767 e 768/1992).
    2.2. - La disposizione sub b) (art.  15,  comma  2,  del  decreto-
 legge),  a  sua  volta, e' stata impugnata: dal medesimo Tribunale di
 sorveglianza di Firenze, con ordinanza del 17 giugno  1992  (r.o.  n.
 551/1992);  dal  Tribunale  di sorveglianza di Cagliari con ordinanza
 del  2  luglio  1992  (annotata  nel  registro  ordinanze  come   una
 pluralita'  di  ordinanze identiche: r.o. nn. da 565 a 580/1992); dal
 Tribunale di sorveglianza di  Sassari  con  sei  ordinanze  identiche
 emesse  il  3  luglio  1992 (r.o. nn. da 539 a 544/1992), nonche' con
 un'ulteriore ordinanza emessa il 10 luglio  1992  (peraltro  annotata
 come  una  pluralita'  di  ordinanze relative a ciascuno dei soggetti
 interessati: r.o. nn. da 511 a 527/1992).
    Tutte le ordinanze ora indicate sono state emesse  nell'ambito  di
 procedimenti  di  revoca  della  semiliberta'  instaurati  a  seguito
 dell'entrata in vigore del decreto-legge  n.  306  nei  confronti  di
 soggetti  condannati, tra l'altro, per il delitto di cui all'art. 630
 cod. pen. (sequestro di persona a scopo di estorsione).
    Tanto il Tribunale  di  sorveglianza  di  Firenze  che  quello  di
 Sassari riferiscono le censure alla norma sub a) agli artt. 27, terzo
 comma  e  25,  secondo comma, Cost.; il primo la impugna, inoltre, in
 riferimento all'art. 24, secondo comma ed il secondo all'art. 3 Cost.
    A sua volta, la norma sub b), nella parte in cui dispone la revoca
 delle misure alternative alla detenzione, e' impugnata: dai Tribunali
 di sorveglianza di Firenze e Cagliari in riferimento agli  artt.  27,
 terzo  comma,  24,  secondo  comma e 25, secondo comma, e dal secondo
 anche in riferimento all'art. 3 Cost.; dal Tribunale di  sorveglianza
 di  Sassari,  in  riferimento  al  primo,  secondo  e  quarto di tali
 parametri.
    2.3.  - La medesima norma sub b), nella parte in cui stabilisce la
 procedura  di  revoca,  e'  impugnata  dai  primi  due  Tribunali  di
 sorveglianza  in riferimento agli artt. 25, primo comma, 101, secondo
 comma e 111, primo comma, Cost., e da  quello  di  Firenze  anche  in
 riferimento   all'art.   109   Cost.  Le  censure  del  Tribunale  di
 sorveglianza di Sassari assumono invece a  parametro  gli  artt.  24,
 secondo comma e 111, primo comma, Cost.
    3.  -  Le  sopracitate disposizioni sono state oggetto di numerose
 impugnative anche nel testo risultante dalla legge di conversione  n.
 356 del 1992.
    3.1.  -  In particolare, l'art. 4-bis della legge n. 354 del 1975,
 nel testo risultante dall'art. 15, comma 1, del decreto-legge n.  306
 del 1992, come modificato dalla legge di conversione - e cioe' con le
 modifiche  sopra specificate alle lettere c) e d) (par. 1) - e' stato
 impugnato, in riferimento agli artt. 27,  terzo  comma,  24,  secondo
 comma  e  25,  secondo  comma, Cost. dal Tribunale di sorveglianza di
 Firenze con ordinanza del 7 ottobre 1992 (r.o. n. 64/1993) emessa nel
 corso di  un  procedimento  per  l'ammissione  alla  semiliberta',  o
 all'affidamento  in  prova  al  servizio  sociale  o alla liberazione
 condizionale.  Inoltre, in un procedimento relativo alla  concessione
 della  prima  di  tali  misure,  la medesima norma e' stata impugnata
 anche dal Tribunale di sorveglianza di Brescia con ordinanza  del  24
 novembre 1992 (r.o. n. 97/1993), che assume a parametri gli artt. 27,
 terzo  comma,  24,  secondo comma, 25, primo comma, Cost., nonche' il
 principio di ragionevolezza.
    3.2.  -  Numerose  ordinanze  hanno  poi  sollevato  questioni  di
 legittimita'  costituzionale  del  comma  2 dell'art. 15 del decreto-
 legge  n.  306  del  1992,  nel  testo  risultante  dalle   modifiche
 introdotte con la legge di conversione, specificate sub e) (cfr. par.
 1),  nel  corso  di  procedimenti  vertenti  tutti sulla revoca della
 semiliberta'.   Tali questioni  -  per  la  parte  in  cui  la  norma
 statuisce  la  revoca  delle  misure alternative gia' concesse - sono
 state  sollevate:  dal  Tribunale  di  sorveglianza  di  Firenze  con
 ordinanza  del  21 ottobre 1992 (r.o. n. 72/1993) in riferimento agli
 artt. 24, secondo comma, 25, secondo comma e 27, terzo comma,  Cost.;
 dal Tribunale di sorveglianza di Perugia, con due ordinanze identiche
 del 1› ottobre 1992 (r.o. nn. 67 e 108/1993), in riferimento ai primi
 due  di  detti  parametri; dal Tribunale di sorveglianza di Bari, con
 quattro ordinanze identiche emesse, le prime due il 15 ottobre  e  le
 altre il 12 ed il 26 novembre 1992 (r.o. nn. 12, 13, 78 e 102/1993) e
 dal  Tribunale  di  sorveglianza  di  Campobasso  con ordinanza del 2
 dicembre 1992 (r.o. n. 54/1993), in riferimento agli artt. 27,  terzo
 comma,  25, secondo comma e 3 Cost.; dal Tribunale di sorveglianza di
 Brescia con ordinanza del 6  ottobre  1992  (r.o.  n.  96/1993),  che
 coinvolge   anche   il   gia'  citato  art.  58-ter  dell'ordinamento
 penitenziario ed assume a  parametri,  oltre  che  i  tre  da  ultimo
 citati,  anche  l'art.    24, secondo comma, Cost. ed il principio di
 ragionevolezza.
    3.3. - I Tribunali di sorveglianza di Firenze e Perugia  censurano
 anche  con le ordinanze dianzi citate, la medesima disposizione nella
 parte in cui disciplina la procedura di revoca, assumendo a parametri
 gli artt. 25, primo comma, 101, secondo comma  e  109  Cost.,  ed  il
 secondo anche l'art. 11, primo comma, Cost.
    4.  -  I  motivi  di  censura addotti dai giudici a quibus sono in
 larga  misura  comuni,  sicche'   nell'esposizione   che   segue   si
 assumeranno  come  base le ordinanze piu' diffusamente motivate ed il
 riferimento alle restanti ordinanze verra' fatto,  in  via  generale,
 solo per evidenziarne le peculiarita' e/o i tratti differenziali.
    4.1. - Censure alla norma sub a).
    4.1.1. - La censura mossa dal Tribunale di sorveglianza di Firenze
 (r.o.  nn.  550  e 552/1993) in riferimento all'art. 27, terzo comma,
 Cost. muove dal rilievo che, secondo la sentenza di questa  Corte  n.
 204  del  1974, da tale disposto costituzionale "sorge il diritto per
 il condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di
 diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione  della  pretesa
 punitiva  venga  riesaminato  al  fine  di accertare se in effetti la
 quantita' di pena espiata abbia o meno assolto positivamente  al  suo
 fine  rieducativo"; diritto questo - nota ancora la sentenza citata -
 che "deve trovare nella  legge  una  valida  e  ragionevole  garanzia
 giurisdizionale".    Rilevato che tali principi sono stati confermati
 nelle successive sentenze nn. 343 del 1987, 282 del 1989  e  125  del
 1992  (rispettivamente ai nn. 7, 8 e 4 della motivazione in diritto),
 il Tribunale  osserva  che,  in  virtu'  della  norma  impugnata,  la
 mancanza  di  "collaborazione  con la giustizia" rende irrilevante il
 percorso rieducativo -  risocializzativo  compiuto  dall'interessato,
 sicche'  il  diritto  del  condannato  a  vedere  riesaminato  se "la
 quantita' di pena espiata abbia o meno assolto positivamente  al  suo
 fine  rieducativo"  ne  risulta  frustrato,  e  con esso la finalita'
 assegnata alla pena dal precetto costituzionale.    Al  riguardo,  il
 giudice  rimettente  rileva, innanzitutto, che la "collaborazione" in
 questione ha la propria sede naturale ed e'  prestata  di  norma  nel
 processo,   prima   della   condanna   e  comunque  prima  che  inizi
 l'esecuzione  della  pena,  dato  che  resta  confinata  al   momento
 dell'accertamento dei reati e delle loro conseguenze, ed e' possibile
 ad  esecuzione  iniziata  solo  se  tale fase di cognizione non si e'
 ancora esaurita.  Il collegamento, poi, tra la "collaborazione" ed il
 cammino della rieducazione-riabilitazione che deve caratterizzare  il
 processo   di   esecuzione   della   pena   sarebbe   sostanzialmente
 mistificatorio, perche' la prima  e'  un'opzione  pratica  che  nasce
 dalla  valutazione  della  convenienza  processuale  ed e' fortemente
 condizionata dall'andamento delle indagini e del processo, mentre  il
 secondo corrisponde invece ad un percorso di rivisitazione dei propri
 valori,  delle  proprie  condizioni  di vita ed alla creazione, nella
 fase  riabilitativa,  di  valori  e  condizioni  che  favoriscano  un
 corretto reinserimento sociale.  Di conseguenza, per un verso si puo'
 collaborare  senza  interessarsi  a  compiere  tale  cammino  e,  per
 l'altro, questo puo' essere correttamente percorso pur se non si  sia
 in  condizione  di  collaborare.    Vi  sono infatti - esemplifica il
 giudice rimettente - una serie di situazioni in cui la collaborazione
 e'  addirittura  impossibile:  da  quella   in   cui   la   flagrante
 constatazione  o,  comunque,  la rapida ricostruzione dei fatti abbia
 gia' portato al completo chiarimento  delle  responsabilita'  che  vi
 sono  connesse  ed alla rimozione della loro conseguenza; a quella in
 cui la partecipazione di secondo piano al  delitto  non  consente  di
 conoscere  fatti  e  condotte  dei  partecipi di livello superiore; a
 quello, ancora, del soggetto il cui  ingresso  nel  processo  avvenga
 quando  cio'  che  poteva dire o su cui poteva incidere e' gia' stato
 detto o fatto; fino ad  arrivare  al  caso,  estremo  ma  pur  sempre
 possibile  (stante  la  previsione normativa dell'errore giudiziario:
 artt. 643 ss. cod. proc. pen.),  di  chi  non  sia  responsabile  del
 delitto  per  cui  e'  stato  condannato e non possa percio' prestare
 alcuna collaborazione.   Inoltre, quanto  piu'  ci  si  distacca  dal
 momento  dei  fatti,  tanto piu' la collaborazione puo' risultare non
 verificabile  o  non  praticabile:  sicche'   la   norma   impugnata,
 applicandosi indifferentemente a tutte le situazioni, comprese quelle
 in  cui  la  collaborazione  e'  impraticabile,  si  risolve  in  una
 inammissibilita'  pura  e   semplice   al   sistema   di   interventi
 penitenziari  alternativi  alla  detenzione.   D'altra parte, osserva
 ancora il giudice a quo, rispetto al  presupposto  su  cui  la  norma
 poggia  - e cioe' che i delitti in essa considerati siano commessi da
 soggetti strettamente inseriti  in  organizzazioni  criminali,  dalle
 quali  e' impossibile o improbabile il distacco - il metodo prescelto
 per l'individuazione di costoro, ossia la tipizzazione per titoli  di
 reato, e' inidoneo, dato che la casistica rivela che in molti casi il
 collegamento  con  organizzazioni  criminali non vi era all'epoca dei
 fatti e tantomeno in fase esecutiva. Cosi' e' a dire, ad esempio, dei
 sequestri di persona, talvolta frutto di aggregazioni estemporanee  e
 occasionali; o dell'associazione finalizzata allo spaccio di sostanze
 stupefacenti, a volte riconosciuta nei confronti di tossicodipendenti
 che  gestivano  in  comune l'approvvigionamento ma non erano inseriti
 nelle organizzazioni criminali fornitrici; od anche dell'associazione
 di cui all'art. 416-bis cod. pen., dato  che  la  dissociazione  puo'
 talvolta  verificarsi  per  varie ragioni, quali la partecipazione di
 secondo piano del soggetto, la dissoluzione del gruppo particolare in
 cui era inserito, il distacco da persone e ambienti.   Il  vulnus  al
 precetto   costituzionale   starebbe  quindi,  secondo  il  Tribunale
 rimettente, nella preclusione ad un esame nel merito di tali casi che
 consenta  di  distinguerli  da  quelli  che  siano   espressione   di
 permanente pericolosita'.
    4.1.2.  -  Ad  avviso  del  giudice  rimettente,  la  disposizione
 impugnata viola anche il diritto di difesa (art. 24,  secondo  comma,
 Cost.), che e' garantito anche nel procedimento di sorveglianza, dato
 che  esso ha sicuramente natura giurisdizionale e, per giurisprudenza
 ormai costante, contenuto decisorio in  quanto  si  conclude  con  un
 provvedimento  che produce il normale effetto del giudicato (sentenza
 n. 267 del 1979). Dal momento che tale  diritto  comporta,  in  primo
 luogo,   la   garanzia  di  contraddittorio,  ossia  la  possibilita'
 dell'interessato  di  partecipare   ad   una   effettiva   dialettica
 processuale  (sentenza n. 149 del 1983), la relativa garanzia include
 non soltanto la disponibilita' degli strumenti con cui la  difesa  si
 realizza,  ma  il  merito stesso della difesa, cioe' la scelta di una
 linea   difensiva   piuttosto   che   un'altra:   il   che   comporta
 l'impossibilita'  di  imposizione di una determinata linea di difesa.
 Donde il rilievo per cui la normativa in esame, condizionando un vero
 e proprio diritto del soggetto (il diritto  cioe'  al  riesame  degli
 effetti  rieducativi  prodotti dalla esecuzione della pena) alla c.d.
 collaborazione, vincola il soggetto stesso ad  una  linea  difensiva,
 negandogli  la liberta' di scelta garantita costituzionalmente. Tutto
 cio', in un quadro in cui la collaborazione e' cosa ben  diversa  dal
 percorso  rieducativo-riabilitativorichiesto  per  la concessione dei
 benefici penitenziari, ed e' talvolta impraticabile pur se questo  si
 sia  gia'  compiuto;  e nel quale il sacrificio del diritto di difesa
 che  essa comporta avviene in fase di cognizione ma puo' essere fatto
 valere solo nella  procedura  di  sorveglianza,  con  sacrificio,  in
 particolare,   delle  posizioni  di  coloro  che,  pur  volendo,  non
 avrebbero  potuto  collaborare,  cui  e'  preclusa  ogni   dialettica
 processuale nella fase esecutiva.
    4.1.3  -  Ad avviso del giudice rimettente, la norma impugnata, in
 quanto prevede la revoca dei benefici penitenziari gia' in  corso  da
 tempo  e  percio'  modifica  profondamente  il  regime della pena per
 coloro che vi sono gia'  sottoposti,  viola  anche  il  principio  di
 irretroattivita'  della legge penale, garantito dall'art. 25, secondo
 comma,  Cost.  rispetto  alla  previsione  legale  non   solo   della
 fattispecie di reato, ma anche della pena. La revoca comporta infatti
 che  diventi  irrilevante  il  gia'  compiuto  percorso  rieducativo-
 riabilitativo  ed  inammissibile  il  riesame   del   suo   sviluppo,
 finalizzato  alla  ricognizione che la pena abbia o meno raggiunto il
 fine che le e' proprio.
    4.1.4. - A tali censure il Tribunale di  sorveglianza  di  Sassari
 aggiunge   quella  riferita  all'art.  3  Cost.,  la  cui  violazione
 consisterebbe nell'avere accomunato alla situazione di chi assume  un
 atteggiamento  di non collaborazione o di perdurante solidarieta' con
 i correi quella di chi, per aver commesso da  solo  il  reato  a  lui
 ascritto  o  perche'  -  come nei casi di specie - ogni aspetto della
 vicenda  criminosa  che  lo  riguardi  sia  stato  chiarito,  nessuna
 collaborazione  puo'  piu'  prestare;  con la conseguenza che in tale
 modo  si  finisce,  paradossalmente,  per   favorire   proprio   quei
 condannati   che,  per  avere  agito  nell'ambito  di  una  struttura
 criminale piu' articolata e segreta, sono di solito  piu'  pericolosi
 ma  si trovano poi nella condizione di potere utilmente "spendere" la
 propria collaborazione.
    4.2. - Censure alla norma sub b).  Rispetto a tale disposizione, i
 giudici a quibus ripetono le censure ex artt. 27,  terzo  comma,  24,
 secondo  comma, 25, secondo comma e 3 Cost. di cui al precedente par.
 4.1.
    4.2.1. - Il Tribunale  di  sorveglianza  di  Firenze  osserva,  in
 particolare,  che  il contrasto della disposizione sulla revoca delle
 misure alternative alla detenzione con l'art. 27, terzo comma,  Cost.
 e'  ancor piu' stridente di quanto non lo sia per la norma che limita
 l'ammissibilita' ai benefici penitenziari,  dato  che  in  tal  caso,
 essendo  gia' stato compiuto (nella specie, ripetutamente) il riesame
 del percorso rieducativo-riabilitativo e  quindi  del  raggiungimento
 delle  finalita'  della  pena,  il  diritto  al  riesame  di cui alla
 sentenza n. 204 del 1974 e' stato gia'  riconosciuto  ed  esercitato:
 ond'e' che per effetto della norma impugnata "la pena cambia natura e
 finalita',   diventando  puramente  afflittiva".    Il  Tribunale  di
 sorveglianza di Sassari osserva, ancora che la collaborazione non  e'
 necessariamente  sintomo  di emenda, mentre la mancata collaborazione
 dovrebbe non ostare alla  prosecuzione  del  "convenuto"  trattamento
 penitenziario,   se  accompagnata  da  un'effettiva  rottura  con  la
 pregressa scala di valori.
    4.2.2. - In riferimento  all'art.  24,  secondo  comma,  Cost.  il
 Tribunale  di  sorveglianza  di  Cagliari integra i rilievi di cui al
 precedente punto 4.1.2. osservando che nel giudizio di  sorveglianza,
 ove  la collaborazione con la giustizia deve essere accertata e fatta
 valere, l'attivita' del difensore sarebbe  impossibile,  non  potendo
 egli  concretamente  svolgere  alcuna  utile funzione di critica e di
 illustrazione  del  caso,  posto  che  l'attivita'  del  giudice   si
 esaurisce in una presa d'atto della presenza o meno dell'attivita' di
 collaborazione, senza alcun potere valutativo.
    4.2.3.  -  In  riferimento  all'art.  25, secondo comma, Cost., il
 predetto  Tribunale,  premesso  che  l'irretroattivita'  della  legge
 penale  meno  favorevole  al  reo  concerne  anche le disposizioni di
 natura sostanziale relative alle misure alternative alla detenzione -
 che, in  quanto  incidono  sulla  quantita'  e  qualita'  della  pena
 inflitta,  rivestono  indubbiamente  natura  penale - osserva che nei
 casi sottoposti al suo esame le condanne concernevano fatti puniti ex
 art. 630 cod. pen. per i quali, al  momento  della  loro  commissione
 (anteriore all'entrata in vigore della legge n. 663 del 1986) non era
 consentita   l'ammissione   alla  semiliberta'.  Ma,  ad  avviso  del
 rimettente,  il  diritto  al  riesame  del  percorso  rieducativo  va
 valutato  in  riferimento  alla  norma  sostanziale che ha consentito
 l'ammissione al regime di semiliberta', con  la  conseguenza  che  il
 principio  di  irretroattivita' e' violato perche' la norma impugnata
 fa  dipendere  la  prosecuzione   della   misura   da   un   elemento
 (collaborazione  con  la  giustizia)  non  richiesto al momento della
 concessione di essa. A conferma di tale assunto,  il  giudice  a  quo
 richiama  la norma transitoria introdotta con l'art. 4 della legge 12
 luglio 1991, n. 203, di conversione del decreto-legge 13 maggio 1991,
 n. 152, che ha circoscritto l'applicabilita' della  norma  limitativa
 della  concessione  dei  benefici penitenziari per taluni delitti (di
 cui all'art. 58-quater, quarto comma, della legge n. 354 del 1975) ai
 condannati per delitti commessi dopo l'entrata in vigore del predetto
 decreto: norma con la quale, percio', il legislatore ha  riconosciuto
 la  valenza del principio di irretroattivita' della norma penale meno
 favorevole anche con riferimento al regime della pena, indicando  che
 il divieto di retroattivita' vale ogni qualvolta si voglia introdurre
 un  nuovo e piu' sfavorevole regime.  Il Tribunale di sorveglianza di
 Sassari, a sua volta premesso che il principio di irretroattivita' si
 estende a tutte le norme  che  descrivono  il  quadro  sanzionatorio,
 osserva  che  "se  e'  vero  che e' stata autorevolmente criticata la
 costruzione  teorica  di  chi  voglia  "fissare"  al  momento   della
 commissione  del  reato  non  solo l'entita' della pena che da questo
 puo' conseguire ma anche il tipo  di  trattamento  penitenziario,  si
 dovra'  pure  ammettere,  con  la  migliore  dottrina, che almeno dal
 momento del passaggio in giudicato della sentenza, si stabilisca  fra
 lo  Stato  e  il  condannato  un "patto" che atterra' alla estensione
 della pretesa del primo e -  per  converso  -  alle  aspettative  del
 secondo. Patto che non sembra, durante lo svolgimento del trattamento
 da  esso disciplinato, possa essere modificato, neppure con legge che
 stabilisce per il condannato condizioni deteriori e, pertanto aggravi
 la punizione alla quale lo ha esposto la sua condotta".
    4.2.4.  -  In  riferimento  all'art.  3  Cost.,  il  Tribunale  di
 sorveglianza  di  Sassari  ripete  le censure esposte al par. 4.1.4.;
 mentre quello di Cagliari, sulla premessa  che  il  provvedimento  di
 ammissione al regime di semiliberta' trova la sua giustificazione nei
 progressi   compiuti   dal   condannato  nel  corso  del  trattamento
 penitenziario, reputa irragionevole una revoca  retroattiva  che  non
 sia   fondata   sulla   sopravvenienza   di  fatti  che  rivelino  la
 infondatezza  del  giudizio  prognostico   su   cui   si   fonda   il
 provvedimento  di concessione; e ravvisa una violazione del principio
 di uguaglianza  (art.  3  Cost.)  nella  sottoposizione  allo  stesso
 trattamento  (revoca  della  misura)  sia  dei  soggetti che si siano
 rivelati particolarmente meritevoli,  con  la  loro  condotta,  della
 misura  applicata,  sia  di  quelli  che abbiano serbato una condotta
 diversa e abbiano  commesso  fatti  risultati  incompatibili  con  la
 prosecuzione della misura alternativa.
    4.2.5.  -  Quanto alla disposizione che disciplina la procedura di
 revoca, il Tribunale di sorveglianza di Firenze, dopo  aver  rilevato
 che  il  riferimento all'art. 58-ter concerne solo le caratteristiche
 della  collaborazione  con  la  giustizia,   osserva   che   il   suo
 accertamento  non  avviene  nei  modi  previsti da tale norma, bensi'
 attribuendo  l'individuazione  dei  casi  di  non  collaborazione   e
 l'iniziativa  della  procedura  di  revoca  all'autorita' di polizia,
 rendendo  tale  iniziativa  discrezionale  ("ove  lo   ritenga")   ed
 assegnando  al  Tribunale  di  sorveglianza  una  funzione  meramente
 notarile. Di qui l'estensione dell'impugnativa agli artt.:  25, primo
 comma, Cost., perche' il momento decisionale e' sottratto al  giudice
 naturale  precostituito  per  legge,  che per la revoca di una misura
 alternativa e' il tribunale di sorveglianza: al  quale,  invece,  non
 resta che prendere atto di una scelta discrezionale dell'autorita' di
 polizia   nella   individuazione   dei  casi  da  segnalare  e  nella
 valutazione della sussistenza della collaborazione con la  giustizia;
 101, secondo comma, 109 e 111, primo comma, Cost., perche' l'adozione
 e  il  contenuto  del provvedimento di revoca dipendono da una scelta
 discrezionale  dell'autorita'  di  polizia,  cosi'   rovesciando   il
 rapporto  tra  questa  e l'autorita' giudiziaria e deferendo a quella
 scelta la motivazione del provvedimento medesimo.  A tali rilievi  il
 Tribunale  di sorveglianza di Sassari aggiunge quello - riferito agli
 artt. 111, primo comma e 24, secondo comma, Cost. - secondo cui,  una
 volta  pervenuta  la  comunicazione  dell'autorita'  di  polizia,  il
 giudice non puo' esprimere alcun apprezzamento circa  la  sussistenza
 del   presupposto   della   revoca   della  misura,  sicche'  il  suo
 provvedimento si risolve  in  una  mera  presa  d'atto  e  non  puo',
 percio',  essere  motivato; e che, di conseguenza, viene a mancare la
 possibilita' per il difensore di svolgere un'effettiva difesa.
    5. - Censure alle norme risultanti dalla legge di conversione.
    5.1.  -  In  ordine  alla  norma   sull'ammissione   ai   benefici
 penitenziari,  cosi'  come modificata dalla legge di conversione (sub
 a)),  con  le  variazioni  specificate  sub  c)),  il  Tribunale   di
 sorveglianza  di  Firenze  (r.o.  n. 64/1993) ripropone con identiche
 motivazioni le censure ex artt. 27, terzo comma, 24, secondo comma  e
 25,  secondo  comma,  Cost.  illustrate  ai  precedenti punti 4.1.1.,
 4.1.2. e 4.1.3.
    5.1.2. - Ad avviso del rimettente, la prima di tali censure  (art.
 27,  terzo  comma) non viene meno per effetto dell'innovazione di cui
 alla precedente lett. b). Essa, infatti, non fa  che  prevedere,  per
 casi  particolari  e  ristretti,  la necessita' di una collaborazione
 attenuata, compensata, pero', dalla dimostrazione "in maniera  certa"
 di un dato negativo quale e' la mancanza di attuali "collegamenti con
 la  criminalita'  organizzata';  e  percio'  persiste,  attraverso la
 tipizzazione  per  titoli  di   reato,   nell'accomunare   situazioni
 eterogenee,  impedendo  ogni distinzione a seconda del loro livello e
 della loro pericolosita'.  Inoltre, dato che la norma fa  pur  sempre
 riferimento  ad una collaborazione, pur se attenuata, restano fermi -
 ad  avviso  del  rimettente  -  i  rilievi  concernenti  i  casi   di
 impossibilita'   o  impraticabilita'  della  collaborazione,  cui  si
 aggiunge quello per cui la necessita' di provare "in  maniera  certa"
 la mancanza di attuali "collegamenti con la criminalita' organizzata"
 impone   l'onere   della  prova  di  un  dato  negativo,  tanto  piu'
 irraggiungibile  quanto  piu'  l'interessato  non  abbia  mai   avuto
 collegamenti  del  genere.   Per altro verso, le modifiche introdotte
 sono, secondo il giudice a quo, scarsamente razionali.  Innanzitutto,
 perche',  rispetto  alle  fattispecie  elencate  nell'art. 4-bis, gli
 artt. 62, n. 6 (risarcimento del  danno)  e  116  cod.  pen.  possono
 riguardare  solo  le  prime  due  ipotesi, legate all'art. 416-bis, e
 quella di cui all'art.  630 cod. pen., non le altre. Inoltre, perche'
 il riferimento all'art.   116 (reato  diverso  da  quello  voluto  da
 taluni  dei  concorrenti) introduce un regime di minore sfavore per i
 casi di maggiore gravita' ma non e' applicabile in quelli  di  minore
 gravita'  (ad  es.  gioca  in  caso di sequestro di persona aggravato
 dalla morte dell'ostaggio e non  anche  quando  tale  evento  non  si
 verifichi).  Quanto  poi all'attenuante di cui all'art. 114 cod. pen.
 (minima partecipazione), il Tribunale rileva che essa ricorre solo in
 casi eccezionali, anche se il ruolo del compartecipe sia  subalterno,
 e  che,  essendo  esclusa - in virtu' del secondo comma - ove ricorra
 l'aggravante di cui all'art. 112, n.  1 cod. pen. (concorso nel reato
 di cinque o piu'  persone),  risultera'  inapplicabile  nella  grande
 maggioranza  delle  fattispecie  considerate  nell'art.  4-bis.    In
 aggiunta a tali rilievi, il  Tribunale  di  sorveglianza  di  Brescia
 (r.o.  n.  97/1993)  osserva, innanzitutto, che nel caso di specie il
 condannato ha espiato oltre i  due  terzi  della  pena,  ha  compiuto
 evidenti  progressi nel trattamento serbando sempre ottima condotta e
 non e' socialmente pericoloso; tuttavia, non puo' collaborare con  la
 giustizia  perche'  ha sempre negato ogni responsabilita'. Posta tale
 premessa in fatto, assume che la norma  impugnata  stabilirebbe  "una
 specie  di  presunzione  iuris  et  de  iure,  senza  possibilita' di
 indagini sulla  effettiva,  attuale  appartenenza  alla  criminalita'
 organizzata, sulla effettiva pericolosita' sociale (intesa rettamente
 come  attuale  probabilita'  di  commissione  di  altri reati); sulla
 rilevanza del tempo trascorso dalla commissione del reato  (nel  caso
 di  specie,  10 anni) sulla impossibilita' - oggettiva o soggettiva -
 da parte  del  singolo  a  conformare  la  propria  attuale  condotta
 all'art.  58-ter Ord. Penit.; sulla possibilita' che molti condannati
 per  uno  dei  reati  suddetti  non   appartengano   all'area   della
 criminalita' mafiosa".
    5.1.3.  -  Secondo  lo  stesso Tribunale sarebbe violato, inoltre,
 l'art. 25, primo comma, Cost. perche' viene inibito al  tribunale  di
 sorveglianza,   giudice  naturale  in  tema  di  misure  alternative,
 l'esercizio del proprio  potere  discrezionale,  nonche'  l'art.  24,
 secondo  comma, perche', al di fuori della collaborazione, e' inibito
 al condannato di dimostrare alcunche'.   La  complessa  normativa  in
 questione   -  osserva  ancora  il  giudice  rimettente  -  e'  stata
 condizionata da un clima emergenziale segnato da eventi gravissimi ed
 e' frutto di inadeguata meditazione: come dimostrerebbe, tra l'altro,
 la brevita' della discussione e l'approvazione  in  base  a  voto  di
 fiducia  nei  due  rami del Parlamento, nonche' la circostanza che al
 Senato la relazione fu solo orale e che la discussione si  svolse  in
 assenza del Ministro competente.
    5.2.  -  In ordine alla norma (sub b)) che prevede la revoca delle
 misure alternative alla detenzione, nel testo risultante dalla  legge
 di  conversione  (e  cioe'  con  le  modifiche specificate sub e)), i
 giudici a quibus ripetono sostanzialmente, con argomentazioni piu'  o
 meno  ampie, le censure ex artt. 27, terzo comma, 24, secondo comma e
 25, secondo comma, Cost. gia' esposte nei  precedenti  punti  4.1.  e
 4.2.
    5.2.1.  -  A  tali  censure,  il Tribunale di sorveglianza di Bari
 aggiunge quella di violazione dell'art. 3 Cost.,  che  si  fonda  sul
 rilievo  che  la  norma  assoggetta  ad  identico  trattamento  sia i
 soggetti che si siano rivelati  particolarmente  meritevoli,  con  la
 loro condotta, della misura applicata, sia quelli che abbiano serbato
 una   condotta   diversa   ed   abbiano   commesso   fatti  risultati
 incompatibili con la prosecuzione della misura alternativa.   Secondo
 il  Tribunale  di  sorveglianza  di  Campobasso,  poi, l'art. 3 Cost.
 sarebbe violato perche' la norma accomuna i casi di chi non presta la
 collaborazione pur potendolo a quelli "in cui il condannato non  puo'
 prestare  alcuna  collaborazione:  a) - perche' i complici sono stati
 gia'  tutti  assicurati  alla  giustizia;  b)  -  perche'  l'episodio
 criminoso e' stato comunque chiarito; c) - perche' a distanza di anni
 i  collegamenti  con  le  strutture dei sodalizi criminosi son venuti
 meno e non sussistono piu' riferimenti di  fatto;  d)  -  perche'  in
 alcuni  tipi  di  organizzazioni  criminose a compartimento stagno il
 soggetto e' stato comunque posto ab initio  nella  impossibilita'  di
 fornire   un  contributo,  come  recita  l'art.  58-ter  della  legge
 penitenziaria,  nella  raccolta   di   elementi   decisivi   per   la
 ricostruzione  dei  fatti  e  per l'individuazione o la cattura degli
 autori dei reati".
    5.2.2.  -  Il  Tribunale  di  sorveglianza  di  Brescia  (r.o.  n.
 96/1993), dopo aver rilevato che nel caso sottoposto al suo esame non
 poteva  applicarsi  l'ipotesi di collaborazione attenuata "anche dopo
 la condanna" introdotta nell'art. 4-bis della legge  di  conversione,
 in  quanto  gli  autori  del  reato  erano stati tutti identificati e
 condannati e non erano state concesse le attenuanti di cui agli artt.
 114 e  116  cod.  pen.,  osserva  che  anche  se,  in  ipotesi,  tali
 attenuanti  fossero  state  concesse,  occorrerebbe  pur  sempre  una
 "collaborazione offerta anche se oggettivamente  irrilevante",  oltre
 alla  certezza  della  -  mancanza  di  attuali  collegamenti  con la
 criminalita' organizzata -; e peraltro, ad avviso del  Tribunale,  il
 riconoscimento  di  esse nella procedura di sorveglianza (cioe' "dopo
 la condanna")  non  sarebbe  possibile  "perche'  inesorabilmente  si
 stravolgerebbe  un  giudicato  ormai  sul  punto intoccabile". Ne' si
 potrebbe concedere l'attenuante di cui all'art. 62, n. 6  cod.  pen.,
 sia perche', non essendo stata riconosciuta in sede di cognizione, si
 urterebbe  contro  un  giudicato ormai intangibile, sia perche' nella
 specie, a distanza di anni dal fatto, il condannato non potrebbe piu'
 adoperarsi per evitare ulteriori  conseguenze  di  esso.  Infine,  la
 collaborazione  "dopo  la  condanna"  mediante  apporto  di "elementi
 decisivi per la ricostruzione dei fatti"  potrebbe  verificarsi  solo
 attraverso una procedura di revisione o l'apertura di un procedimento
 penale  contro soggetti non coinvolti in quello gia' definito; ond'e'
 che delle  ipotesi  di  cui  all'art.  58-ter  l'unica  concretamente
 possibile  dopo  la  condanna  sarebbe  quella  dell'individuazione e
 cattura  degli  autori dei reati.   Rispetto ai suesposti rilievi, il
 giudice  a  quo  riconosce  che  l'art.  58-ter,  al  secondo  comma,
 facoltizza il Tribunale di sorveglianza ad "accertare le condotte in-
 dicate  nel comma 1", ma oppone che "la norma, estremamente generica,
 urta contro il principio del giudice naturale garantito dall'art. 25,
 1› comma, Cost.; fa sorgere gravi pericoli di contrasti tra giudicati
 o conflitti di competenza; pone in serio pericolo  la  intangibilita'
 del  giudicato  penale".    In  ordine all'art. 58-ter, il rimettente
 osserva, ancora, che non e' chiaro se i  "fatti"  ed  i  "reati"  cui
 l'art.  58-ter  riferisce  la collaborazione siano solo quelli di cui
 alla sentenza di condanna in espiazione ovvero anche  reati  diversi:
 nel  qual caso ritiene che "la costituzionalita' della norma verrebbe
 definitivamente compromessa".    Sul  rilievo,  poi,  che  le  misure
 "emergenziali"  previste  dalla  norma in questione sono definitive e
 non temporanee, il giudice rimettente ricorda che questa  Corte,  con
 la  sentenza  n. 15 del 1982, ritenne che misure consimili (nel caso,
 relative  alla  durata   della   carcerazione   preventiva)   perdono
 legittimita'  se  si protraggono ingiustificatamente nel tempo fino a
 condurre  ad  una  "sostanziale  vanificazione  della  garanzia";  ed
 osserva  che  la  disposizione  impugnata,  fondando  il  giudizio di
 pericolosita' sul solo reato anziche' sulla personalita'  complessiva
 dell'autore,  desunta - attraverso un accertamento caso per caso - da
 tutti gli elementi di cui all'art. 133  cod.  pen.  (e  non  solo  da
 quelli  di  cui  ai nn. 1 e 2), snatura il sistema penitenziario.  Il
 giudice a quo ricorda anche che la  piu'  recente  giurisprudenza  di
 questa  Corte  (cfr.  sentenza  n. 313 del 1990) ha ritenuto superata
 quella precedente che limitava la rieducazione  alla  fase  esecutiva
 della  pena e ha confermato, invece, la polifunzionalita' di questa e
 l'essenzialita' - accanto alla difesa sociale ed alla  dissuasione  -
 della  finalita'  rieducativa.  E'  ben vero - soggiunge - che con la
 sentenza n. 107 del 1980 e ordinanza n.  10  del  1981  la  Corte  ha
 ritenuto  rientrante  nella discrezionalita' legislativa l'esclusione
 dall'affidamento in prova e dalla  semiliberta'  dei  condannati  per
 determinati  delitti, e legittimo il divieto di concessione di misure
 alternative   ai   condannati   per   determinati   reati    commessi
 anteriormente  all'entrata  in vigore della legge n. 354 del 1975: ma
 la liceita', da cio' desumibile, del  ritorno  al  regime  di  rigore
 anteriore  a  tale legge non toglie che cio' dovrebbe valere solo per
 il  futuro,  cioe'  senza  "pretese  di  revoca"  nei  confronti   di
 condannati per reati ormai lontani nel tempo (come e' avvenuto con il
 precedente  decreto-legge  n.  152 del 1991, che ha riguardato solo i
 reati commessi dopo la sua entrata in vigore).
    5.2.3. - Rispetto, poi, alla parte della disposizione in esame che
 disciplina la procedura di revoca, il Tribunale  di  sorveglianza  di
 Firenze  (r.o.  n.  72/1993)  osserva  che,  anche  nel  nuovo  testo
 risultante dalle modifiche specificate sub c), la norma  prevede  che
 il procedimento di revoca non sorga senza l'iniziativa dell'autorita'
 di  polizia.  Mentre  nei  primi  tre  commi  del  citato  art. 4-bis
 introdotti con la legge 12 luglio 1991, n. 203  i  ruoli  dell'organo
 giudiziario,  con  funzione  procedente e decidente, e dell'organo di
 polizia, con esclusiva funzione informativa,  sono  rispettati  nella
 nuova  disposizione  - tanto nel comma 3-bis inserito nell'art. 4-bis
 che nel comma secondo,  inseriti  con  l'impugnato  art.  15  -  alla
 funzione  informativa dell'autorita' di polizia si aggiunge quella di
 iniziativa,  che ha carattere discrezionale e condiziona e limita gli
 spazi decisionali dell'organo di sorveglianza. Poiche',  infatti,  le
 comunicazioni  "presuppongono,  in  sostanza, un'attivita' di polizia
 che verifica o la specifica  pericolosita'  del  caso  o/e  anche  la
 inutilita'  della  gestione  dello  stesso  a fini informativi", esse
 potranno non esserci, a discrezione dell'organo di polizia, nei  casi
 che  possono  essere utili a fini informativi, con la conseguenza che
 non potra' giungersi alla revoca ove  la  comunicazione  sia  omessa:
 rilievi, questi, che, ad avviso del rimettente, non sono scalfiti dal
 fatto  che,  alla  stregua  del  nuovo testo, il tribunale decide non
 automaticamente, ma "accertata la insussistenza" della collaborazione
 e puo' previamente disporre  ulteriori  verifiche.    Sulla  base  di
 questi  rilievi,  il  giudice  a  quo  ritiene violato, innanzitutto,
 l'art. 25, primo  comma,  Cost.  perche'  l'iniziativa  discrezionale
 della autorita' di polizia e, quindi, la possibilita' della stessa di
 dare  o  meno  la "comunicazione", puo' sottrarre al giudice naturale
 precostituito per legge, che e'  il  tribunale  di  sorveglianza,  la
 revoca  di  una misura alternativa.   La circostanza, poi, che sia la
 scelta discrezionale della  autorita'  di  polizia  che  consente  di
 aprire la procedura di revoca e di pervenire alla pronuncia relativa,
 comporta  il rovesciamento del rapporto che dovrebbe intercorrere fra
 organo giudiziario decidente  e  organo  informativo  di  polizia,  e
 percio'  infirma  la  soggezione  del  giudice  "soltanto alla legge"
 garantita dall'art. 101, secondo comma, Cost.   Sarebbe violato,  in-
 fine, anche l'art. 109 Cost., che, pur "se e' scritto con riferimento
 ad   un   aspetto   organizzativo  del  procedimento  di  cognizione,
 presuppone ovviamente ed esprime chiaramente la relazione  necessaria
 che deve intercorrere fra funzione informativa e funzione decisionale
 e  fra  gli  organi  che, anche fuori del procedimento di cognizione,
 gestiscono  le  funzioni  stesse".  Analoghi  rilievi  svolge,   piu'
 sinteticamente, il Tribunale di sorveglianza di Perugia, che assume a
 parametro anche l'art. 111, primo comma, Cost.
    6.  -  Il  Presidente  del Consiglio dei ministri, rappresentato e
 difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, e' intervenuto, con atti
 distinti, in tutti i predetti giudizi.
    6.1. - Rispetto alle censure avanzate nei  confronti  delle  norme
 del  decreto-legge  (sub a) e b)), l'Avvocatura chiede, innanzitutto,
 la restituzione degli atti ai giudici  a  quibus  per  riesame  della
 rilevanza   alla  luce  delle  modifiche  apportate  dalla  legge  di
 conversione: cio', a motivo sia della  previsione  di  concedibilita'
 della  liberazione  anticipata,  sia  della  "copertura" del segmento
 ipotizzato  dai   remittenti   (impossibilita'   di   collaborazione)
 attraverso  la  previsione  del caso di chi - per posizione marginale
 rivestita nello svolgimento dei  fatti,  o  per  intervenuto  globale
 chiarimento  dei  fatti  stessi  in  sede  processuale  -  offra  una
 collaborazione "oggettivamente irrilevante".   La restituzione  degli
 atti  si  imporrebbe  anche  rispetto  alle  censure  concernenti  la
 procedura di revoca, dato che la legge di  conversione  chiarisce  in
 modo  inequivoco che la decisione del tribunale in ordine alla revoca
 della misura alternativa in precedenza disposta deve essere  adottata
 previo  accertamento  dell'insussistenza  delle  condizioni richieste
 dalla legge per la applicazione dei  benefici:  con  il  che  sarebbe
 lasciato  intatto  il  pieno  potere di accertamento giurisdizionale,
 senza alcun "automatismo" nella previsione sulla revoca e senza alcun
 indebito slittamento di competenze proprie dell'autorita' giudiziaria
 in   capo   a   quella   di   polizia.     Le  questioni,  ad  avviso
 dell'Avvocatura, sarebbero, comunque, inammissibili o infondate, dato
 che:
       a)  non  vi  e'  contrasto  neppure   formale   tra   principio
 costituzionale  della  finalita'  rieducativa della pena e fissazione
 (per legge, col che la riserva e' rispettata) di  tetti  e  gradi  di
 fruizione  di certi benefici, in relazione di proporzione diretta con
 la gravita' del reato per cui si e' condannati;
       b) collegare determinati  effetti  favorevoli  a  riscontrabili
 comportamenti  di  segno  positivo  ed  antagonistici  rispetto  alla
 pregressa optata illegalita' non solo non e' affatto irrazionale,  ma
 e' perfettamente coerente con larga parte della disciplina penale, in
 particolare proprio sotto il profilo della sanzione e dell'esecuzione
 correlativa, frequentemente "condizionati" da siffatti comportamenti,
 che  la legge penale valorizza in termini disparati (dalle attenuanti
 ex  art.  62  n.  6  cod.  pen.,  al  regime  di  comparazione  delle
 circostanze, all'entita' della pena ex art. 133 cod. pen., ecc.);
       c)  una  siffatta  valorizzazione non "coarta" in alcun modo il
 diritto di difesa, essendo il portato di opzione libera dell'imputato
 (e poi condannato) quello  dell'offerta  di  collaborazione  e  delle
 conseguenze che ne derivano;
       d) il tema della retroattivita' e', nelle ordinanze, incentrato
 sul  modo  del  trattamento  di  esecuzione, e cosi' sovrapposto alla
 nozione di pena di cui all'art. 25, secondo comma, Cost.:  mentre  la
 consistenza  ed  entita'  di  questa  rimane  intatta,  dato  che  le
 impugnative giocano solo sul piano  degli  istituti  attuativi  della
 pena.
    6.2.  -  Rispetto  alle questioni concernenti il testo delle norme
 impugnate risultante dalla legge di conversione,  l'Avvocatura  dello
 Stato,  dopo aver richiamato i suesposti rilievi, aggiunge che non vi
 e' conflitto tra la prima parte del primo comma dell'art. 4-bis e  la
 finalita'  rieducativa della pena perche', al contrario, il fatto che
 al detenuto sia richiesto un sincero  pentimento,  manifestato  dalla
 collaborazione  effettiva  ed attuale con gli organi della giustizia,
 esalta il ruolo emendativo della sanzione penale.   Ne'  vi  sarebbe,
 secondo   l'Avvocatura,   violazione  del  diritto  di  difesa,  "per
 l'assorbente ragione che la "collaborazione" con la giustizia non  e'
 solo  una  "particolare linea di difesa", lasciata quindi alla libera
 valutazione dell'interessato, bensi' il  percorso  riabilitativo  per
 eccellenza  del  condannato". E del resto, l'azione riparatrice "post
 delictum" o, almeno,  dopo  l'esecuzione  della  condotta  penalmente
 censurabile, e' contemplata da diverse norme del sistema penale (cfr.
 art.  56,  quarto  comma,  e  62,  n.  6, cod. pen.)   come motivo di
 attenuazione della pena, senza che sia stata mai rilevata una lesione
 alla liberta' di scelta delle condotte difensive  nel  fatto  che  la
 norma  pretendesse  specifici  comportamenti  del  soggetto, volti ad
 attenuare  le  conseguenze  del  reato.    Quanto  poi  alle  censure
 concernenti   la  procedura  di  revoca  (cfr.    r.o.  n.  72/1993),
 l'Avvocatura sostiene l'irrilevanza della questione, perche' nel caso
 di specie l'iniziativa dell'autorita' amministrativa vi  e'  stata  e
 quindi  non  mette  conto  di  discutere della sua eventuale inerzia.
 Circa la violazione dell'art. 3 Cost. dedotta dal Tribunale di  Bari,
 l'Avvocatura  osserva che appare tutt'altro che irrazionale collegare
 pari  effetti  negativi  a  due situazioni pur differenti fra loro ma
 valutate entrambe negativamente dal  legislatore:  l'una  (quella  in
 questione) di non collaborazione o comunque di pericolosita' attuale,
 l'altra  di  violazione  di  obblighi  di  comportamento.   Infondata
 sarebbe anche la censura ex art. 25, primo comma, Cost.   prospettata
 dal  Tribunale  di  Brescia,  posto  che  la norma costituzionale non
 impedisce  certo  al  legislatore  ordinario  di  porre   determinate
 condizioni  per  poter  godere di certi benefici nella fase esecutiva
 della pena; e che, comunque, al giudice e' rimessa,  dalla  norma  in
 questione,  la  valutazione  della  consistenza  della collaborazione
 offerta (che in certi casi puo'  essere  addirittura  "oggettivamente
 irrilevante").
    7. - Ulteriori questioni di legittimita' costituzionale sono state
 sollevate  nei confronti della seconda parte del comma 1 dell'art. 4-
 bis della legge n. 354 del 1975, cosi' come sostituito dall'art.  15,
 comma  1,  del  decreto-legge n. 306 del 1992, che recita: "Quando si
 tratta di detenuti o internati per delitti commessi per finalita'  di
 terrorismo  o  di  eversione dell'ordinamentocostituzionale ovvero di
 detenuti o internati per i delitti di  cui  agli  articoli  575,  628
 terzo  comma,  629 secondo comma del codice penale e all'articolo 73,
 limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell'articolo 80  comma
 2,  del  predetto  testo  unico  approvato con decreto del Presidente
 della Repubblica n. 309 del 1990, i benefici suddetti possono  essere
 concessi  solo  se  non  vi  sono  elementi  tali  da far ritenere la
 sussistenza  di  collegamenti  con  la  criminalita'  organizzata   o
 eversiva".   Tale disposizione e' rimasta testualmente inalterata con
 la legge di conversione, ma risente delle modifiche alla prima  parte
 dello stesso comma precisate sub c) e d) (v. par. 1).
    7.1. - Nel corso di una procedura concernente la concessione della
 liberazione  anticipata  ad  Adamoli  Roberto,  detenuto  per delitti
 commessi per finalita'  di  terrorismo  o  di  eversione  dell'ordine
 costituzionale,  il  Tribunale di sorveglianza di Milano esponeva che
 nella specie il diniego della misura era stato annullato dalla  Corte
 di  cassazione  perche'  non  erano  state  assunte  le  informazioni
 finalizzate  all'acquisizione  di   "elementi   tali   da   escludere
 l'attualita'  dei  collegamenti  con  la  criminalita'  organizzata o
 eversiva" prescritte in tali casi dall'art. 4-bis della legge n.  354
 del  1975  nel  testo  introdotto  con  l'art. 1 del decreto-legge 13
 maggio 1991, n. 152, convertito, con  modificazioni  nella  legge  12
 luglio   1991,   n.   203;  e  che,  peraltro,  nel  frattempo,  tale
 disposizione era stata modificata dall'art. 15  del  decreto-legge  8
 giugno 1992, n. 306, con la previsione che le misure alternative alla
 detenzione  previste  dal  capo VI della legge 26 luglio 1975, n. 354
 possono essere concesse "solo se non vi sono  elementi  tali  da  far
 ritenere   la   sussistenza   di  collegamenti  con  la  criminalita'
 eversiva".  Cio' premesso, il Tribunale ha sollevato,  con  ordinanza
 del  10 giugno 1992 (r.o. n. 583/1992), una questione di legittimita'
 costituzionale di quest'ultima disposizione, assumendone il contrasto
 con gli artt. 3, 24 e 27 della Costituzione.  In riferimento all'art.
 3, il Tribunale rimettente osserva che, al di la' della sua impropria
 collocazione nel capo VI della legge  penitenziaria,  la  liberazione
 anticipata  realizza  una  riduzione  di  parte della pena detentiva,
 abbreviandone la durata, quale premio  in  favore  dei  detenuti  che
 abbiano  dato  prova  di  partecipazione all'opera rieducativa, ed ha
 percio'  contenuto ed effetti diversi dalle vere e proprie misure al-
 ternative alla detenzione, che sono invece sostitutive  di  un  altro
 trattamento  penale.    Quanto agli altri parametri, il giudice a quo
 sostiene  che  l'obbligatorieta'   (e   non   facoltativita')   degli
 accertamenti   imposti  dalla  norma  impugnata  comporta  una  grave
 alterazione della valenza  incentivante  e  pedagogica  dell'istituto
 della  liberazione  anticipata  e  quindi  un  grave svilimento della
 finalizzazione rieducativa della pena.  Il remittente  sostiene,  in-
 fine,  che,  per  le  stesse  ragioni, l'illegittimita'costituzionale
 dovrebbe essere estesa, ex art. 27 della legge n. 87 del  1953,  alla
 prima  parte  del  citato  art.  4-bis, comma primo, nel punto in cui
 richiede  obbligatoriamente,  ai  fini   della   stessa   liberazione
 anticipata,   accertamenti  in  ordine  alla  collaborazione  con  la
 giustizia a norma dell'art. 58-ter della stessa legge.
    7.1.1. - In ordine a tale questione il  Presidente  del  Consiglio
 dei  ministri,  rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello
 Stato, ha chiesto la restituzione degli atti al  giudice  a  quo  per
 riesame  della rilevanza, dato che la legge di conversione ha escluso
 la liberazione anticipata dal novero dei benefici cui si applicano le
 disposizioni restrittive introdotte con la prima parte  dello  stesso
 comma.
    7.2.  -  Dovendo  decidere  sull'istanza di liberazione anticipata
 avanzata da Tripi  Paolino,  condannato  per  il  delitto  di  rapina
 aggravata  (art.  628,  terzo  comma,  cod.  pen.),  il  Tribunale di
 sorveglianza di Palermo ha sollevato, con ordinanza del 29  settembre
 1992 (r.o. n. 800/1992), una questione di legittimita' costituzionale
 dell'art.  4-bis,  primo  comma, seconda parte, della legge 26 luglio
 1975, n. 354, cosi' come modificato dall'art. 15,  primo  comma,  del
 decreto-legge  8  giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni,
 dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, nella parte in cui non consente la
 concessione di liberazione anticipata per i condannati per i  delitti
 ivi  indicati  -  tra  i  quali  quello  sopracitato - assumendone il
 contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo  comma,  Cost.    Il  Tribunale
 premette, sul piano interpretativo, che l'inciso "fatta eccezione per
 la  liberazione  anticipata",  introdotto con la legge di conversione
 nella prima parte dell'art. 15, va inteso nel senso che per i delitti
 in questa indicati i benefici penitenziari  possano  essere  concessi
 solo a chi collabora con la giustizia, ma che per costoro sia esclusa
 la  concedibilita'  della liberazione anticipata. Cio' si ricaverebbe
 "non solo dall'evidente tenore letterale della norma, ma anche  dalla
 lettura  sistematica  di  tutta  la  normativa contenuta nella stessa
 legge concernente la c.d. protezione dei collaboratori, per i  quali,
 se  e'  possibile  accedere  ai  benefici indicati nell'art. 13 della
 legge 356/1992 anche in deroga alle disposizioni 'relative ai  limiti
 di  pena', non esiste alcuna ragione trattamentale che giustifichi la
 concessione soltanto di una riduzione di 45 giorni di pena  per  ogni
 semestre".  La  dizione  "i  benefici suddetti" usata nella seconda e
 terza parte della lettera a) dell'art.  4-bis  significherebbe,  poi,
 che  la  liberazione  anticipata  sarebbe  da  escludere anche per le
 categorie in essa indicate. Cio' si  ricaverebbe,  per  altro  verso,
 "dalla  constatazione  che nella quarta categoria di condannati presa
 in esame dall'art. 15, legge n.  356/1992 ('detenuti e internati  per
 delitti  dolosi' per i quali 'il Procuratore Nazionale Antimafia o il
 Procuratore Distrettuale comunica .. l'attualita' di collegamenti con
 la  criminalita'  organizzata')  si  torna  a  fare  riferimento alle
 'misure alternative alla detenzione previste dal capo  VI'":  sicche'
 "se   il   legislatore   avesse  inteso  comprendere  la  liberazione
 anticipata fra i benefici concedibili alla categoria di condannati in
 esame (artt. 575, 628 cpv., 629 cpv., cod. pen., 73  e  80  cpv.  del
 d.P.R.  n.  309 del 1990), non avrebbe dovuto usare il riferimento ai
 "benefici suddetti", ma avrebbe dovuto parlare di "misure alternative
 alla detenzione".  Tanto premesso, il giudice a quo  osserva  che  il
 divieto di liberazione anticipata per coloro che risultino condannati
 "per  delitti  commessi  per  finalita'  di terrorismo o di eversione
 dell'ordinamento costituzionale", per omicidio volontario, per rapina
 e estorsione  aggravata,  per  detenzione  di  ingenti  quantita'  di
 sostanze stupefacenti, introduce nel nostro ordinamento penitenziario
 una discriminazione assolutamente ingiustificata e priva di qualsiasi
 ragionevolezza. Non ha infatti alcun senso, a suo avviso, che tutti i
 benefici  penitenziari  siano  esclusi  qualora siano stati acquisiti
 "elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con  la
 criminalita'  organizzata o eversiva", mentre ove questi elementi non
 vi siano il detenuto puo' accedere a tutti i  benefici  ma  non  alla
 liberazione  anticipata.    In  riferimento,  poi, all'art. 27, terzo
 comma, Cost., il Tribunale  rimettente  sostiene  che  con  la  norma
 impugnata  non si e' fatto buon uso del c.d. "sinallagma carcerario",
 che  consente  di  modulare  la  pena  detentiva  in  funzione  della
 personalita'  del condannato, della sua attuale pericolosita' e delle
 possibilita' di reinserimento sociale; essendo paradossale che chi ha
 dato prova di  fattiva  e  consapevole  partecipazione  all'opera  di
 rieducazione   possa   accedere  -  sussistendone  le  condizioni  di
 ammissibilita' - all'affidamento in prova al servizio sociale ed alla
 semiliberta' ma non anche alla liberazione anticipata.
    7.2.1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
 difeso dall'Avvocatura  Generale  dello  Stato,  ha  chiesto  che  la
 predetta  questione  sia  dichiarata infondata in quanto basata su un
 erroneo presupposto interpretativo. L'innovazione apportata  in  sede
 di conversione andrebbe, infatti, intesa nel senso che la liberazione
 anticipata  non  e' soggetta ad alcuna delle restrizioni e dei limiti
 indicati nell'intero comma 1 dell'articolo 4-bis: il che comporta che
 tale istituto, che non ha  natura  premiale  ma  consegue  alla  sola
 corretta  partecipazione  all'opera di rieducazione in carcere, sara'
 applicato per tutti i reati indicati nell'articolo 4-bis seguendo  le
 regole  generali previste dall'articolo 54 in riferimento a qualunque
 reato.
    8. - Con due ordinanze di identico tenore emesse il 7 luglio 1992,
 (r.o. nn. 774  e  775/1992),  il  Pretore  di  Venezia  ha  sollevato
 questioni  di  legittimita'  costituzionale  degli  artt.  da  1 a 10
 (titolo I) del citato decreto-legge n. 306 del 1992,  assumendone  il
 contrasto  con l'art. 77, secondo comma, Cost.  Premesso, in punto di
 rilevanza, di dover applicare nei  giudizi  -  di  cui  peraltro  non
 indica  l'oggetto  -  quantomeno  l'art.  238  cod.    proc. pen., il
 remittente contesta la sussistenza  dei  requisiti  di  necessita'  e
 urgenza  per  introdurre  con  decreto-legge  modifiche  al codice di
 procedura penale: sia  perche'  avrebbe  dovuto  essere  adottata  la
 procedura  di  cui  all'art. 7 della legge delega n. 81 del 1987, sia
 perche' la sussistenza di tali requisiti  non  potrebbe  riconoscersi
 nell'esigenza  di  contrasto  della  criminalita'  mafiosa.   Questa,
 infatti, e' fenomeno diffuso da decenni, e d'altra parte le modifiche
 apportate  dalle  norme impugnate si applicano a tutti i procedimenti
 penali e non solo a quelli di criminalita' organizzata.
    8.1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri,  rappresentato  e
 difeso  dall'Avvocatura  Generale  dello  Stato,  ha  chiesto  che la
 predetta questione sia dichiarata inammissibile, per  una  pluralita'
 di   motivi,  e  cioe':  a)  perche'  investe  un  intero  gruppo  di
 disposizioni  del  decreto-legge  n.  306  del  1992,  di   contenuto
 disparato e non collegate necessariamente tra di loro; b) perche' non
 indica quali norme entrano in gioco, e di quali istituti il giudice a
 quo possa o debba fare applicazione: con la conseguenza, fra l'altro,
 che  non  puo'  controllarsi se le modifiche apportate dalla legge di
 conversione non ne abbiano fatto venir meno la rilevanza; c)  perche'
 la  rilevanza  di  questioni  ex  art.  77 Cost. viene meno quando il
 decreto-legge sia stato convertito (cfr. ordinanza n. 810 del  1988);
 d)  per  l'inapplicabilita'  della  procedura  ex  art. 7 della legge
 delega, essendo incompatibili con  questa  talune  delle  innovazioni
 introdotte  col  decreto;  e)  per la singolarita' dell'assunto della
 non-urgenza della lotta al fenomeno della criminalita'  mafiosa,  che
 e'  il  substrato di fondo che sorregge i singoli, specifici articoli
 del complesso provvedimento.
                        Considerato in diritto
    1. - Le ordinanze di rimessione sollevano  questioni  identiche  o
 analoghe,   o  comunque  coinvolgenti  lo  stesso  articolo  o  altre
 disposizioni del medesimo testo legislativo.  E' percio' opportuna la
 riunione dei relativi giudizi.
    2. - Il Pretore di Venezia,  con  le  due  ordinanze  di  identico
 tenore  indicate  in epigrafe, dubita che gli artt. da 1 a 10 (titolo
 I) del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 contrastino con l'art. 77,
 secondo  comma,  della  Costituzione,  dato  che  a  suo  avviso  non
 ricorrono  i  requisiti  di  necessita' ed urgenza per introdurre con
 tale strumento modifiche al codice di procedura penale.  La questione
 e' pero' manifestamente  inammissibile  perche'  il  giudice  a  quo,
 omettendo   qualsivoglia   indicazione   in  ordine  al  procedimento
 principale, non ha posto la Corte  in  condizione  di  verificare  la
 rilevanza  rispetto  ad  esso di tutte, o anche di una soltanto delle
 disposizioni impugnate, che nell'ordinanza  e'  solo  apoditticamente
 affermata.
   3. - Il Tribunale di sorveglianza di Milano dubita, con l'ordinanza
 indicata  in  epigrafe, che l'art. 4-bis, primo comma, seconda parte,
 della legge 26 luglio 1975, n. 354, nel testo modificato  con  l'art.
 15, primo comma, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, nella parte
 in  cui  prevede che ai condannati per delitti commessi per finalita'
 di  terrorismo  o  di  eversione   dell'ordine   costituzionale,   la
 liberazione  anticipata  -  cosi'  come  le  misure  alternative alla
 detenzione - puo' essere concessa "solo se non vi sono elementi  tali
 da  far  ritenere  la sussistenza di collegamenti con la criminalita'
 eversiva", contrasti:  - con l'art. 3 Cost., dato che la  liberazione
 anticipata  ha  contenuto  ed  effetti  diversi  dalle vere e proprie
 misure  alternative,  in  quanto  non  e'  sostitutiva  di  un  altro
 trattamento  penale  ma  realizza  una  riduzione di parte della pena
 detentiva; - con gli artt. 24 e 27,  terzo  comma,  Cost.,  dato  che
 l'obbligatorieta'   dei  predetti  accertamenti  comporta  una  grave
 alterazione della valenza  incentivante  e  pedagogica  dell'istituto
 della  liberazione  anticipata  e  quindi  un  grave svilimento della
 finalizzazione rieducativa della pena.
    3.1. - Con la legge di conversione n. 356 del 1992, la prima parte
 del primo comma del predetto art. 4- bis  e'  stata  modificata,  nel
 senso  che  si  e'  stabilito che la limitazione alla concessione dei
 benefici penitenziari ai soli collaboratori con la giustizia vale per
 le misure alternative alla  detenzione  di  cui  al  capo  VI  "fatta
 eccezione  per  la liberazione anticipata".   Poiche' tale locuzione,
 come si dira' meglio in seguito, va intesa nel senso che la  predetta
 limitazione  non opera per tale istituto, ne consegue che esso non e'
 ricompreso tra i "benefici suddetti" cui  si  applica  la  condizione
 posta  dalla  seconda parte del primo comma.  Percio' la questione in
 esame deve essere dichiarata inammissibile.
    4. - Muovendo dal presupposto interpretativo che  l'inciso  "fatta
 eccezione  per  la  liberazione anticipata" introdotto dalla legge di
 conversione n. 356 del 1992 nel testo del citato  art.  4-bis,  primo
 comma,  prima  parte,  sia  da intendere nel senso che la liberazione
 anticipata non possa essere concessa neanche a coloro che collaborano
 con la giustizia, e che percio' essa sia da  escludere  anche  per  i
 condannati  per  i  delitti indicati nella seconda parte del medesimo
 primo comma, il Tribunale di  sorveglianza  di  Palermo  dubita,  con
 l'ordinanza  indicata  in  epigrafe, che tale preclusione, per questi
 ultimi, contrasti:  - col principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.),
 posto che sarebbe privo  di  giustificazione  che  tutti  i  benefici
 penitenziari  siano  esclusi  qualora siano stati acquisiti "elementi
 tali  da  far  ritenere  la  sussistenza  di  collegamenti   con   la
 criminalita'  organizzata o eversiva", mentre ove questi elementi non
 vi siano il detenuto puo' accedere a tutti i  benefici  ma  non  alla
 liberazione  anticipata; - con l'art. 27, terzo comma, Cost., essendo
 in contrasto con la funzione rieducativa della pena che chi  ha  dato
 prova   di   fattiva   e   consapevole  partecipazione  all'opera  di
 rieducazione  possa  accedere  -  sussistendone  le   condizioni   di
 ammissibilita' - all'affidamento in prova al servizio sociale ed alla
 semiliberta' ma non anche alla liberazione anticipata.
    4.1.  -  L'interpretazione  dell'inciso  "fatta  eccezione  per la
 liberazione anticipata" che il  giudice  a  quo  pone  a  base  della
 questione  sollevata  -  e cioe' che in virtu' di essa tale beneficio
 non sarebbe mai concedibile ai condannati per i  delitti  specificati
 nella  stessa  norma, neanche se essi "collaborano con la giustizia a
 norma dell'articolo 58- ter" - e'  contraddetta  da  quella  adottata
 dalla  Corte  di cassazione, da gran parte dei giudici di merito e da
 questa stessa Corte (cfr. ordinanze nn. 413 e 483 del  1992,  83  del
 1993).   In effetti, che l'inciso in questione sia volto ad escludere
 l'applicabilita'  alla  liberazione  anticipata  della   disposizione
 limitativa  in  cui  esso  e' inserito lo si deduce non solo dal dato
 letterale,  ma  soprattutto  dai  lavori  preparatori,   univocamente
 contrassegnati   dall'intento  di  mitigare  il  rigore  della  norma
 originaria  del  decreto-legge  (come  dimostrano  anche   le   altre
 modifiche  inserite  in sede di conversione nei commi primo e secondo
 dello stesso art. 15). Sarebbe stato ben strano, del resto, che in un
 testo legislativo in cui ad accentuate restrizioni nei confronti  dei
 condannati  per  reati  di  criminalita'  organizzata si accompagnano
 misure di marcato  favore  (come  quelle  di  cui  al  secondo  comma
 dell'art.  13)  nei confronti di quanti collaborano con la giustizia,
 venisse   introdotta  per  costoro  una  limitazione  incisiva  quale
 l'esclusione dalla liberazione anticipata.  La questione in esame  va
 quindi   dichiarata   infondata  perche'  poggia  su  un  presupposto
 interpretativo erroneo.
    5.  -  Le  restanti  questioni,   sollevate   dai   Tribunali   di
 sorveglianza  di Firenze, Cagliari, Sassari, Perugia, Bari, Brescia e
 Campobasso, investono le disposizioni restrittive che in  materia  di
 misure  alternative alla detenzione (ed in un caso, anche di permessi
 premio) sono state dettate con l'art. 15 del decreto-legge n. 306 del
 1992 - nel testo originario, ovvero in quello modificato con la legge
 di conversione n. 356 del 1992  -  nei  confronti  dei  detenuti  per
 taluni delitti c.d. di criminalita' organizzata, e cioe' "per delitti
 commessi  avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis
 del codice penale ovvero  al  fine  di  agevolare  l'attivita'  delle
 associazioni  previste dallo stesso articolo nonche' per i delitti di
 cui agli articoli 416-bis e 630 del codice penale e  all'articolo  74
 del  decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309".
 In particolare, le questioni investono:
       a) la norma che dispone che per i suddetti  delitti  le  misure
 alternative alla detenzione (o i permessi premio: r.o. nn. 766, 767 e
 768/1992) possono essere concesse "solo nei casi in cui tali detenuti
 ..  collaborano  con  la  giustizia a norma dell'articolo 58- ter", e
 cioe' solo "a coloro che, anche dopo la condanna, si  sono  adoperati
 per  evitare  che  l'attivita'  delittuosa  sia portata a conseguenze
 ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l'autorita' di polizia o
 l'autorita' giudiziaria nella raccolta di elementi  decisivi  per  la
 ricostruzione  dei  fatti  e  per l'individuazione o la cattura degli
 autori dei reati": art. 4-bis, lettera a), primo comma,  prima  parte
 della  legge  n.  354  del 1975, nel testo modificato col primo comma
 dell'art. 15 del decreto;
       b) la medesima norma sub a), cosi' come integrata  dalla  legge
 di  conversione,  la  quale  ha  previsto  che  "Quando  si tratta di
 detenuti o internati per uno dei predetti delitti, ai quali sia stata
 applicata una delle circostanze attenuanti  previste  dagli  articoli
 62,  numero  6), anche qualora il risarcimento del danno sia avvenuto
 dopo la sentenza di condanna, o 114  del  codice  penale,  ovvero  la
 disposizione dell'articolo 116, secondo comma, dello stesso codice, i
 benefici  suddetti possono essere concessi anche se la collaborazione
 che viene offerta risulti oggettivamente  irrilevante  purche'  siano
 stati   acquisiti   elementi  tali  da  escludere  in  maniera  certa
 l'attualita' dei collegamenti con la criminalita' organizzata";
       c) la norma (art. 15, secondo comma) che prevede che le  misure
 alternative  alla detenzione di cui i detenuti per i predetti delitti
 fruiscano alla data di entrata in vigore del  decreto  sono  revocate
 dal   tribunale   di   sorveglianza   a   seguito   di  comunicazione
 dell'autorita' di polizia  che  i  medesimi  "non  si  trovano  nelle
 condizioni per l'applicazione dell'articolo 58-ter";
       d)  la  norma  originaria del decreto che dispone che la revoca
 avvenga  in  base  a   comunicazione   fatta,   "ove   lo   ritenga",
 dall'autorita'  di  polizia  che  i  medesimi  non  si  trovano nelle
 condizioni  (collaborazione  con  la  giustizia)  per  l'applicazione
 dell'art. 58-ter;
       e)  la  medesima  norma,  nel  testo  modificato dalla legge di
 conversione, la quale prevede che la  revoca  avvenga  in  base  alla
 predetta   comunicazione,   ma   non   piu'  discrezionale  e  previo
 accertamento    da    parte    del    tribunale    di    sorveglianza
 dell'insussistenza della predetta condizione.
    6. - Rispetto alla norma sub c), e' da precisare che, in quanto e'
 impugnata  nel testo risultante dalla legge di conversione, essa deve
 ritenersi integrata da quella specificata sub b), pur  se  di  questa
 manca  un  esplicito richiamo per un chiaro difetto di coordinamento.
 E' infatti evidente che se le condizioni considerate  in  tale  norma
 legittimano  l'ammissione  ai benefici in discorso, a maggior ragione
 esse debbono valere a precludere la revoca di quelli  gia'  concessi.
 In  ragione di tale modifica, di quella alla norma sub d) specificata
 sub e) e di quella  alla  norma  sub  a)  indicata  sub  b),  nonche'
 dell'esclusione  della liberazione anticipata dal novero delle misure
 considerate in tali disposizioni (cfr. par. 4.1.), per  le  questioni
 sollevate  nei  confronti delle norme originarie del decreto-legge n.
 306 dai Tribunali di sorveglianza di Firenze (r.o.    nn.  550,  551,
 552/1992),  Cagliari (r.o. nn. da 565 a 580/1992) e Sassari (r.o. nn.
 da 539 a 544, da 511 a 527, da  766  a  768/1992)  deve  disporsi  la
 restituzione  degli  atti  ai giudici a quibus perche' riesaminino la
 rilevanza delle questioni sollevate alla stregua delle  modificazioni
 sopravvenute.
    7.  -  La norma che disciplina la procedura di revoca delle misure
 alternative alla detenzione (sub e)) e' stata impugnata dai Tribunali
 di sorveglianza di Firenze (r.o. n. 72/1993) e Perugia (r.o. nn. 67 e
 108/1993)  nonostante  che  nel  testo  risultante  dalla  legge   di
 conversione  l'iniziativa  al  riguardo dell'autorita' di polizia non
 risulti piu' discrezionale (essendo stato soppresso l'inciso "ove  lo
 ritenga")  e  si  preveda che, a seguito della comunicazione di detta
 autorita' circa la mancanza della  condizione  della  "collaborazione
 con  la  giustizia",  il  tribunale di sorveglianza dispone la revoca
 "accertata l'insussistenza della suddetta condizione".  Si  sostiene,
 al  riguardo,  che l'iniziativa dell'autorita' di polizia e' comunque
 indispensabile  perche'  sorga  il  procedimento  di  revoca,   resta
 discrezionale  quanto alla verifica della specifica pericolosita' del
 caso e puo' essere omessa in quelli che possono essere utili ai  fini
 informativi.  Di  conseguenza, sarebbero violati:  - l'art. 25, primo
 comma,  Cost.  perche'  tale  facolta'  comporterebbe  la   possibile
 sottrazione  del  potere  di revoca al giudice naturale precostituito
 per legge, che e' il tribunale di  sorveglianza;  -  gli  artt.  101,
 secondo   comma   e   109   Cost.,   perche'   tale  discrezionalita'
 comporterebbe il rovesciamento del rapporto  tra  organo  giudiziario
 decidente,  soggetto  "soltanto  alla legge", e organo informativo di
 polizia; - l'art. 111, primo comma, Cost., perche' la motivazione del
 provvedimento sarebbe rimessa alla scelta dell'autorita' di polizia.
    7.1. - La questione non e' fondata.  Le predette censure,  invero,
 muovono  dal  presupposto  che  la norma attribuisca all'autorita' di
 polizia la facolta' discrezionale di segnalare o meno i casi  di  non
 collaborazione all'autorita' giudiziaria. Ma cio' non risulta affatto
 dal   testo  della  disposizione,  la  quale,  stabilendo  che  detta
 autorita'  "comunica"  tali  casi,  prevede  la  comunicazione   come
 obbligatoria:  il che e' reso evidente dalla soppressione dell'inciso
 "ove lo ritenga" contenuto nel testo originario del decreto.  Che poi
 l'iniziativa della  comunicazione  sia  attribuita  all'autorita'  di
 polizia  e'  coerente sia con le funzioni informative a questa deman-
 date, sia con l'attribuzione ad  essa  del  potere  di  avere  con  i
 detenuti  "colloqui"  "al fine di acquisire informazioni utili per la
 prevenzione e repressione dei delitti  di  criminalita'  organizzata"
 prevista  dal successivo art. 16. Il che non toglie, per altro verso,
 che la magistratura di sorveglianza, ove abbia in altro modo  notizia
 di  casi  di non collaborazione, abbia il potere-dovere di promuovere
 essa stessa la procedura di revoca.  Ne' puo' dirsi che i poteri  del
 tribunale  di sorveglianza siano in qualche modo menomati, perche' ad
 esso  spetta  di  accertare  la  condizione  di  non  collaborazione,
 svolgendo al riguardo tutte le opportune verifiche.
    8.  -  Tanto  la norma (sub a)) che condiziona alla collaborazione
 con  la  giustizia  l'ammissione   alle   misure   alternative   alla
 detenzione,  quanto  quella  (sub  c))  che prevede la revoca di tali
 misure in caso di non collaborazione - entrambe,  con  l'integrazione
 specificata  sub  b) - sono variamente censurate dai giudici a quibus
 in riferimento agli artt. 27, terzo comma,  24,  secondo  comma,  25,
 secondo comma, 3 Cost. ed al principio di ragionevolezza.  Le censure
 ex art. 27, terzo comma, poggiano sul presupposto che esso garantisca
 al  condannato  il  diritto  a vedere riesaminato se "la quantita' di
 pena  espiata  abbia  o  meno  assolto  positivamente  al  suo   fine
 rieducativo"  (sentenze nn. 204 del 1974, 343 del 1987, 282 del 1989,
 125 del 1992): e la violazione consisterebbe in cio', che in mancanza
 di collaborazione con la  giustizia  -  che  peraltro  nasce  da  una
 valutazione  di  convenienza  processuale  ed  e'  possibile  in fase
 esecutiva solo se quella di cognizione non si e'  ancora  esaurita  -
 viene  reso  irrilevante  il  percorso rieducativo-riabilitativo gia'
 compiuto,  dal  quale  la  collaborazione  e',   per   altro   verso,
 scollegata.    Tali motivi di censura varrebbero a maggior ragione in
 caso di revoca di benefici gia' concessi, dato che in essi  e'  stato
 gia'  riconosciuto  il  raggiungimento  della finalita' rieducativa -
 sicche' la pena diventa puramente afflittiva - e che, in  assenza  di
 motivi  di  demerito del condannato e di possibilita' del medesimo di
 collaborare, viene stabilita una presunzione di  non  rieducabilita'.
 Ancora  all'art.  27,  terzo  comma,  ma  anche  all'art.  3 Cost. e'
 riferito il motivo di censura fondato sulla considerazione  dei  casi
 in  cui  la  collaborazione  con  la  giustizia e' impossibile, quali
 quelli: di flagrante constatazione o rapida ricostruzione  dei  fatti
 o,  comunque,  di  completo  accertamento  delle  responsabilita'; di
 partecipazione  di  secondo  piano  al   delitto   (ad   es.,   nelle
 organizzazioni  criminali strutturate a compartimenti stagni) che non
 consente di conoscere fatti  e  condotte  dei  partecipi  di  livello
 superiore;  di  cessazione,  a distanza di anni, dei collegamenti con
 l'organizzazione criminale; di innocenti che siano vittime di  errore
 giudiziario. Rispetto a tali casi, il requisito della collaborazione,
 da  un lato si tradurrebbe - rispetto alla norma sub a) - in una pura
 e semplice inammissibilita' ai benefici  penitenziari,  contraria  al
 principio   rieducativo   (Tribunale  di  sorveglianza  di  Firenze);
 dall'altra  comporterebbe  -  ai  fini  della  revoca  (sub   e))   -
 un'ingiustificabile  assimilazione  nel trattamento penitenziario tra
 chi non puo' prestare alcuna collaborazione e chi assume, invece,  un
 atteggiamento  di non collaborazione o di perdurante solidarieta' con
 i correi (Tribunale di sorveglianza di Campobasso).   Incoerente  col
 principio  rieducativo  sarebbe,  inoltre,  l'adozione  del metodo di
 tipizzazione  per titoli di reato, perche' il presupposto - su cui la
 norma   poggia   -   dell'inserimento   del   soggetto   in   stabili
 organizzazioni  criminali,  da  cui  e'  impossibile o improbabile il
 distacco, e' suscettibile  di  non  verificarsi,  come  nei  casi  di
 aggregazioni   estemporanee  ed  occasionali  per  il  compimento  di
 sequestri di persona, o di dissoluzione  del  gruppo  marginale,  non
 inserito   nell'organizzazione   mafiosa  o  dedita  al  traffico  di
 stupefacenti. Con la conseguenza che, nei casi suddetti, e'  precluso
 un  esame  di merito che consenta di distinguerli da quelli in cui la
 pericolosita' permanga.  I suesposti rilievi incentrati sui  casi  di
 impossibilita'   di   collaborazione   e   sulle   conseguenze  della
 tipizzazione  per  titoli  di  reato,  ad  avviso  del  Tribunale  di
 sorveglianza  di  Firenze,  investono  la  norma (sub a)) concernente
 l'ammissibilita' ai benefici penitenziari, anche in quanto  integrata
 dalla  previsione  (sub  b))  di  casi  di  collaborazione attenuata,
 peraltro compensata dall'onere di provare un dato negativo, quale  la
 mancanza di attuali collegamenti con la criminalita' organizzata.  Al
 riguardo,  il  giudice  rimettente sottolinea la ristrettezza di tali
 casi, osservando che le attenuanti di cui agli artt. 62, n. 6  e  116
 cod.  pen.  sarebbero inapplicabili al delitto di cui all'art. 74 del
 d.P.R. n. 309 del 1990, la seconda sarebbe applicabile ai  casi  piu'
 gravi  (ad  es., sequestro di persona seguito da morte dell'ostaggio)
 ma non a quelli meno gravi (mancanza di tale evento), e  l'attenuante
 di  cui  all'art.  114  cod.  pen. sarebbe inapplicabile nella grande
 maggioranza della fattispecie di cui all'art. 4-bis, essendo  esclusa
 ove  ricorra  l'aggravante  di  cui  all'art.  112,  n.  1, cod. pen.
 (concorso nel reato di cinque o  piu'  persone).    Il  Tribunale  di
 sorveglianza  di  Brescia aggiunge che le predette attenuanti, se non
 applicate in sede di cognizione, non potrebbero  essere  riconosciute
 nella   procedura  di  sorveglianza,  ostandovi  un  giudicato  ormai
 intangibile e - in riferimento a quella di cui all'art. 62,  n.  6  -
 che'  non  sarebbe  possibile,  a  distanza  di  anni dalla condanna,
 adoperarsi per  evitare  ulteriori  conseguenze  del  reato.  Rileva,
 inoltre,  che delle ipotesi di collaborazione di cui all'art. 58-ter,
 l'unica concretamente  possibile  dopo  la  condanna  sarebbe  quella
 dell'individuazione   e   cattura   degli  autori  del  reato.     In
 riferimento, poi, all'art. 24,  secondo  comma,  Cost.  i  giudici  a
 quibus   sostengono   che  il  diritto  di  difesa  -  garantito  nel
 procedimento   di   sorveglianza   in   quanto   questo   ha   natura
 giurisdizionale  e  contenuto  decisorio - sarebbe violato in ragione
 del  fatto  che  la  norma   impugnata,   condizionando   alla   c.d.
 collaborazione  il  diritto  al  riesame  degli  effetti rieducativi,
 costringerebbe alla scelta  di  una  determinata  linea  difensiva  e
 precluderebbe  ogni  dialettica  processuale  a chi, pur volendo, non
 avrebbe potuto collaborare: ed aggiungono  che,  al  di  fuori  della
 collaborazione,  e'  inibito  al  condannato di dimostrare alcunche'.
 Tra le ordinanze qui in esame, la  censura  di  violazione  dell'art.
 25,  secondo  comma, Cost. e' svolta dal Tribunale di sorveglianza di
 Firenze anche in quella (r.o. n. 64/1993) che, in quanto emessa in un
 procedimento relativo  alla  concessione  di  benefici  penitenziari,
 investe  solo  la  norma  sull'ammissibilita'  di questi. In realta',
 pero', la motivazione sul punto concerne solo la retroattivita' della
 revoca di essi: ond'e' che tale censura  puo'  essere  considerata  -
 unitamente a quelle analoghe dello stesso Tribunale (r.o. n. 72/1993)
 e  di  quelli  di  Bari  e  di  Brescia  (r.o.  n. 96/1993) - solo in
 riferimento alla disposizione di cui al secondo comma  dell'art.  15.
 Le censure a quest'ultima disposizione muovono dal presupposto che il
 principio  di  irretroattivita' della legge penale meno favorevole al
 reo riguardi non solo  la  previsione  della  fattispecie  legale  di
 reato,  ma  anche le disposizioni di natura sostanziale (quali quelle
 relative alle misure alternative alla detenzione) che incidono  sulla
 qualita'  e  quantita'  della  pena.  Cio' stante, i giudici a quibus
 osservano che la revoca delle misure gia' in godimento  comporta  che
 il  regime  della  pena  venga  retroattivamente modificato in peius,
 rendendo con cio' irrilevante il gia' compiuto percorso  rieducativo-
 riabilitativo  (r.o.  n.  72/1993);  ed aggiungono (r.o. n.  96/1993)
 che, se e' vero che e' stata riconosciuta (sentenza n. 107 del 1980 e
 ordinanza  n.   10   del   1981)   la   legittimita'   costituzionale
 dell'esclusione  dall'affidamento  in  prova e dalla semiliberta' dei
 condannati per determinati delitti - e percio' lecito  il  ripristino
 di un precedente regime piu' rigoroso - cio' dovrebbe valere solo per
 il  futuro,  ma  non dovrebbe autorizzare la revoca dei benefici gia'
 concessi ai condannati per reati ormai lontani nel tempo.   La  norma
 sulla   revoca,  infine,  e'  censurata  dal  Tribunale  di  Bari  in
 riferimento  all'art.  3  Cost.  in  quanto  assoggetta  ad  identico
 trattamento  sia  i  detenuti  che  si siano rivelati particolarmente
 meritevoli, con la loro condotta, della misura applicata, sia  quelli
 che  abbiano  serbato  una condotta diversa ed abbiano commesso fatti
 risultati incompatibili con la prosecuzione della misura alternativa.
    9. - La normativa  in  esame  e'  frutto  di  scelte  di  politica
 criminale  che  si muovono in una triplice direzione, l'analisi delle
 quali e' utile premessa allo scrutinio delle  censure  dianzi  illus-
 trate.    La  prima  di tali scelte consiste nell'enucleazione di una
 serie di figure delittuose che, per se  stesse  o  per  le  modalita'
 della  condotta, sono espressive del fenomeno della c.d. criminalita'
 organizzata e nella statuizione, in via generale, che  ai  condannati
 per  tali  reati  non  sono  concedibili  - e se gia' concessi, vanno
 revocati - i benefici che comportano un sia pur temporaneo  distacco,
 totale  o  parziale,  dal  carcere (c.d. misure extramurali): scelta,
 questa, che nel testo originario del  decreto-legge  si  estendeva  a
 tutti  i  benefici  penitenziari,  e  che  e'  stata  poi, in sede di
 conversione, ridimensionata mantenendo la concedibilita'  a  tutti  i
 detenuti  della  liberazione anticipata.  A fronte, cioe', dell'acuto
 allarme sociale creatosi nella  contingenza  in  cui  il  decreto  fu
 emanato  -  ampiamente  testimoniato  dai  lavori  parlamentari  - il
 legislatore ha ritenuto di adottare una misura  drastica,  nettamente
 ispirata  a  finalita'  di  prevenzione  generale  e  di tutela della
 sicurezza collettiva, nella convinzione che per il  contenimento  del
 crimine   organizzato  fosse  necessaria  una  decisa  inversione  di
 tendenza rispetto agli indirizzi  della  legge  n.    663  del  1986:
 inversione  che  si era gia' in parte manifestata con la legge n. 203
 del 1991, di conversione del decreto-legge n. 152 dello stesso  anno,
 (nonche'   con   i  decreti-legge  non  convertiti  che  precedettero
 quest'ultimo: nn. 324 del 1990, 5 e 76 del 1991).  La seconda  scelta
 legislativa  e'  consistita  nello  stabilire  che,  invece,  tutti i
 benefici penitenziari sono concedibili ai  detenuti  per  delitti  di
 criminalita'  organizzata  che  si  inducano  a  collaborare  con  la
 giustizia. Tale indirizzo di favore per i collaboratori si  era  gia'
 concretizzato, nella legislazione piu' recente, con l'introduzione di
 specifiche attenuanti (art. 8 legge n. 203 del 1991); v. anche l'art.
 630, comma settimo, cod. pen. ), l'ammissione a speciali programmi di
 protezione  (capo  II  della legge n. 82 del 1991, di conversione del
 decreto-legge n. 8 del 1991) e l'esenzione dagli  inasprimenti  della
 quota   di   pena  necessaria  per  l'ammissione  a  taluni  benefici
 penitenziari (art. 58-ter, introdotto con l'art. 1 della citata legge
 n. 203). Ma con il decreto-legge n. 306 del 1992 l'indirizzo e' stato
 significativamente  rafforzato,  eccettuando  i  collaboratori  dalla
 generalizzata  esclusione  dai benefici penitenziari prevista per gli
 altri detenuti per gli stessi  reati  (art.  15)  e  stabilendo,  tra
 l'altro,  che  per coloro che sono stati ammessi a speciale programma
 di protezione i benefici penitenziari  siano  concedibili  "anche  in
 deroga  alle vigenti disposizioni" (art.  13).  Tale differenziazione
 - che certo rappresenta un forte incentivo alla collaborazione  -  e'
 essenzialmente espressione di una scelta di politica criminale, e non
 penitenziaria: come si evince dalla stessa dichiarazione del Ministro
 Guardasigilli  proponente  (Assemblea del Senato, seduta del 6 agosto
 1992, resoconto stenografico, p.  61)  che  l'ha  rappresentata  come
 "l'arma   piu'   efficace   ..   per   contrastare   la  criminalita'
 organizzata", dato che  "praticamente  tutti  i  processi  che  hanno
 ottenuto   qualche   risultato   ..   sono  stati  fondati  ..  sulla
 collaborazione  di  ex  appartenenti  alle  associazioni  di   stampo
 mafioso".    Va  peraltro  rilevato  che  lo  stesso Ministro ha pure
 sostenuto, nella relazione alla legge  di  conversione  del  decreto-
 legge  n.  306  del  1992  (p.  11),  che  il  fulcro dell'intervento
 legislativo  non  sta  solo  nel  contributo  alle  indagini  che  la
 collaborazione comporta, ma che la scelta collaborativa e' la sola ad
 esprimere  con  certezza  la volonta' di emenda, onde essa assume una
 valenza anche penitenziaria.  Ma sotto questo profilo, non  puo'  non
 convenirsi  con  i giudici a quibus quando sostengono che la condotta
 di  collaborazione  ben  puo'  essere  frutto  di  mere   valutazioni
 utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non
 anche  segno  di  effettiva  risocializzazione.    Con  la  legge  di
 conversione, infine, si e' in  parte  temperato  il  rigore  dei  due
 predetti  indirizzi,  ammettendo  ai  benefici penitenziari anche chi
 offra una collaborazione oggettivamente  irrilevante  nei  risultati,
 alla  condizione che vi sia la prova dell'inesistenza di collegamenti
 attuali con la  criminalita'  organizzata.  Tale  condizione  -  gia'
 introdotta  come  requisito  di  ammissione  ai benefici penitenziari
 dall'art. 1 della citata legge n.  203 del 1991 (e prima  ancora,  di
 concessione  dei permessi premio:  art. 13 legge n. 55 del 1990) - e'
 stata peraltro assunta nella sua accezione piu' rigorosa (e quindi di
 piu' difficile dimostrazione), richiedendosi non  gia'  che  non  sia
 provata  l'esistenza  dei  predetti  collegamenti ma che sia certa la
 loro  insussistenza;  e  soprattutto  ne  e'  stata  riconosciuta  la
 rilevanza   solo  per  i  condannati  cui  siano  state  concesse  le
 circostanze attenuanti di cui agli artt. 114 o 116 cod. pen.,  o  che
 abbiano   provveduto,   anche   dopo  la  sentenza  di  condanna,  al
 risarcimento del danno.  Si deve qui rilevare, peraltro, che, pur nei
 detti limiti, si e' adottato, con  la  condizione  in  questione,  un
 criterio  pertinente all'area della prevenzione speciale, deducendosi
 dalla commissione di determinati delitti di criminalita'  organizzata
 una presunzione di persistenza dei collegamenti con questa - e quindi
 di  pericolosita'  specifica - e richiedendosi la dimostrazione della
 loro rottura come requisito da aggiungere a quelli gia'  vigenti  per
 l'ammissione alle misure alternative alla detenzione.
    10.  -  Alla  luce  delle  suesposte  premesse,  le  censure  alla
 disposizione sull'ammissione ai benefici  penitenziari  (art.  4-bis,
 lettera  a),  prima parte, primo e secondo periodo) riferite all'art.
 27,  terzo  comma,  Cost.  non  possono  ritenersi   fondate.      Va
 innanzitutto  ribadito,  al  riguardo,  che  tra  le finalita' che la
 Costituzione assegna alla pena - da un lato,  quella  di  prevenzione
 generale  e difesa sociale, con i connessi caratteri di afflittivita'
 e retributivita', e, dall'altro, quelle di prevenzione speciale e  di
 rieducazione,  che tendenzialmente comportano una certa flessibilita'
 della pena in funzione dell'obiettivo di risocializzazione del reo  -
 non  puo'  stabilirsi  a priori una gerarchia statica ed assoluta che
 valga una volta per tutte ed in ogni condizione (cfr. sentenza n. 282
 del  1989).  Il  legislatore  puo'   cioe'   -   nei   limiti   della
 ragionevolezza  -  far  tendenzialmente prevalere, di volta in volta,
 l'una o l'altra finalita' dellapena, ma a patto che nessuna  di  esse
 ne  risulti obliterata. Per un verso, infatti, il perseguimento della
 finalita' rieducativa -  che  la  norma  costituzionale  addita  come
 tendenziale  sol  perche'  prende atto "della divaricazione che nella
 prassi puo' verificarsi tra quella finalita' e  l'adesione  di  fatto
 del  destinatario  al  processo di rieducazione" (sentenza n. 313 del
 1990) - non puo' condurre a superare  "la  durata  dell'afflittivita'
 insita  nella  pena detentiva determinata nella sentenza di condanna"
 (sentenza n. 282 cit.). Per altro verso, il privilegio  di  obiettivi
 di  prevenzione  generale e di difesa sociale non puo' spingersi fino
 al punto da "autorizzare il pregiudizio della  finalita'  rieducativa
 espressamente    consacrata    dalla    Costituzione   nel   contesto
 dell'istituto della pena" (sentenza n. 313 del  1990  cit.):  tant'e'
 che  questa  Corte ha dedotto dal precetto dell'art. 27, terzo comma,
 Cost.  che  l'incentivo  ad  un'attiva  partecipazione  all'opera  di
 rieducazione   costituito   dalla  concedibilita'  della  liberazione
 anticipata  non  puo'  essere  precluso  neanche  nei  confronti  dei
 condannati all'ergastolo (sentenza n. 274 del 1983).
    11. - In questo quadro appare certamente rispondente alla esigenza
 di  contrastare una criminalita' organizzata aggressiva e diffusa, la
 scelta del  legislatore  di  privilegiare  finalita'  di  prevenzione
 generale  e di sicurezza della collettivita', attribuendo determinati
 vantaggi ai detenuti che collaborano con la giustizia.   Non si  puo'
 tuttavia   non  rilevare  come  la  soluzione  adottata,  di  inibire
 l'accesso alle misure alternative alla detenzione ai  condannati  per
 determinati  gravi reati, abbia comportato una rilevante compressione
 della finalita' rieducativa della pena. Ed  infatti  la  tipizzazione
 per  titoli  di reato non appare consona ai principi di proporzione e
 di individualizzazione della pena che caratterizzano  il  trattamento
 penitenziario,   mentre   appare   preoccupante   la   tendenza  alla
 configurazione  normativa  di  "tipi  di  autore",  per  i  quali  la
 rieducazione  non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita.
 Inoltre,  non  puo'  non  destare  serie  perplessita',  pur  in  una
 strategia  di  incentivazione  della collaborazione, la vanificazione
 dei programmi e percorsi rieducativi (in atto magari da lungo  tempo)
 che  sarebbe conseguita alla drastica impostazione del decreto-legge,
 particolarmente nei confronti di soggetti la cui  collaborazione  sia
 incolpevolmente  impossibile  o priva di risultati utili e, comunque,
 per i soggetti per i quali la rottura con le organizzazioni criminali
 sia adeguatamente dimostrata.  Il Parlamento, peraltro,  ha  corretto
 tale  impostazione, smentendo la tesi affacciata nella relazione alla
 legge di conversione del predetto decreto -  legge,  secondo  cui  si
 dovrebbe   presumere  pericoloso  chi  non  collabora  con  risultati
 rilevanti.  Detta  presunzione  infatti,  non  e'  coerente  con   la
 possibilita'  -  recepita  nella  legge  di conversione - per tutti i
 soggetti, collaboranti o meno, qualunque sia stato il reato  da  essi
 commesso,  di  usufruire  della liberazione anticipata.  Quest'ultima
 disposizione ha certamente mantenuto aperta la possibilita' per tutti
 i detenuti che perseguono un programma di rieducazione  di  avvalersi
 di  uno  degli  istituti volti a tale scopo: e cio' esclude che possa
 ritenersi vanificato, per  i  condannati  di  cui  e'  questione,  il
 perseguimento  in  concreto  della finalita' rieducativa della pena e
 percio'  che  sia  violato  l'art.  27,  terzo  comma,  Cost.    Tale
 finalita',  tuttavia,  rimane  compressa  in  misura rilevante per la
 preclusione assoluta di tutte le misure extramurarie, delle quali  il
 legislatore   ha   riconosciuto   l'utilita'  per  il  raggiungimento
 dell'obiettivo di risocializzazione: ed  al  proposito  i  giudici  a
 quibus  lamentano,  piu' specificamente, che il principio rieducativo
 sarebbe violato in una serie di casi  in  cui  la  condotta  positiva
 richiesta  -  e  cioe'  la  collaborazione  -  sarebbe oggettivamente
 impossibile.  Tra quelli che essi elencano,  pero',  non  puo'  certo
 farsi  rientrare  quello  del  condannato  che  assume  di  non poter
 collaborare perche' si protesta innocente, giacche' dopo il giudicato
 una simile evenienza puo' assumere giuridica rilevanza solo a seguito
 dell'apposita procedura di revisione.   Quanto  agli  ulteriori  casi
 menzionati, ad essi ben puo' essere estesa, in via interpretativa, la
 disposizione  aggiuntiva  introdotta  con  la  legge  di conversione.
 All'ipotesi in cui vi sia offerta  di  collaborazione  oggettivamente
 irrilevante  nei  risultati puo' infatti agevolmente assimilarsi, per
 identita' di ratio, quella in cui  un'utile  collaborazione  non  sia
 possibile   perche'   fatti   e   responsabilita'   sono  gia'  stati
 completamente   acclarati   o   perche'   la   posizione    marginale
 nell'organizzazione  non  consente  di conoscere fatti e compartecipi
 pertinenti al livello superiore.  Per entrambe le ipotesi,  peraltro,
 la   concessione   dei   benefici  e'  subordinata  alla  assenza  di
 collegamenti con la criminalita' organizzata: ed  inoltre,  al  fatto
 che  anche  dopo  l'accertamento  giudiziale  si  sia  provveduto  al
 risarcimento del danno, ovvero che la sentenza di condanna sia  stata
 pronunziata  riconoscendo  o l'attenuante di cui all'art. 62, n. 6, o
 le diminuzioni di pena di cui agli artt. 114 e 116, cod. pen.    Ora,
 e'  ben  vero che queste ultime - come osservano i giudici a quibus -
 sono fattispecie normativamente assai ristrette, e che possono  darsi
 ipotesi  ad  esse  cosi'  prossime  sul  piano  fattuale,  da poterne
 sostenere ragionevolmente l'assimilazione. Ma nessuna delle ordinanze
 in esame ha mosso specifiche censure in questa prospettiva,  ne'  ha,
 soprattutto,  dato  conto, ai fini della rilevanza, di aver accertato
 l'ulteriore requisito posto dalla norma in  esame,  costituito  dalla
 prova    certa,   nel   caso   oggetto   del   giudizio   principale,
 dell'inesistenza di collegamenti  con  la  criminalita'  organizzata.
 Esclusa,  pertanto,  la  violazione  dell'art.  27,  terzo  comma, va
 altresi' respinta la censura di lesione dell'art. 24, secondo  comma,
 della  Costituzione,  incentrata sul rilievo che nel procedimento per
 l'ammissione alle misure alternative il detenuto non sarebbe  ammesso
 a provare altro che la collaborazione e sarebbe costretto alla scelta
 di  una  determinata  linea difensiva. Per costante giurisprudenza di
 questa Corte, infatti, il diritto di difesa opera  nei  limiti  della
 norma  sostanziale che disciplina il diritto fatto valere, sicche' se
 essa vi appone limiti o condizioni e'  giocoforza  che  sia  solo  in
 quest'ambito che le ragioni difensive abbiano modo di esplicarsi.
    12. - Le censure alla norma che prevede la revoca delle misure al-
 ternative  alla  detenzione  per chi non collabori con la giustizia o
 non rientri nella condizione descritta nell'art. 4-bis,  lettera  a),
 prima  parte,  secondo  periodo  (cfr.  par.  6)  sono principalmente
 incentrate sulla dedotta violazione del principio di irretroattivita'
 della legge penale sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost.   Circa
 il  presupposto  da cui i giudici a quibus muovono, e cioe' che detto
 principio  sia  dettato,  oltre  che  per  la  pena,  anche  per   le
 disposizioni   che   ne  regolano  l'esecuzione,  puo'  astrattamente
 ipotizzarsi - nel caso che tale assunto, che  potrebbe  meritare  una
 seria  riflessione,  fosse  riconosciuto  valido  - che il divieto di
 introdurre siffatte innovazioni sia fatto risalire, alternativamente:
 o al momento della commissione del reato; o al momento del  passaggio
 in  giudicato  della  sentenza  di condanna; o al momento dell'inizio
 dell'esecuzione;  o,  ancora,  al  momento  della   maturazione   dei
 presupposti   ovvero   a   quello   della  concessione  della  misura
 alternativa.  In relazione a cio', si deve rilevare che  i  sei  casi
 descritti  nelle  ordinanze  concernono  la revoca della semiliberta'
 (cui si accede dopo l'espiazione di meta' della pena)  nei  confronti
 dei  condannati  per  i delitti di cui all'art. 630 cod. pen. (cinque
 casi) o all'art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990, per i quali sono previsti
 livelli di pena assai elevati; che la disciplina  della  semiliberta'
 ha  subito  nel  tempo modificazioni in tema di preclusioni oggettive
 alla sua concessione; che, infine, le  ordinanze  di  rimessione  non
 contengono  i  riferimenti in fatto idonei a precisare quale fosse la
 legge applicabile in ciascuno dei predetti momenti.  Di  conseguenza,
 al di fuori dell'ipotesi in cui debba farsi riferimento all'ultimo di
 questi,  l'indagine  sul  quesito  principale  circa l'applicabilita'
 dell'art. 25, secondo comma, Cost. nella materia  in  esame,  dovendo
 necessariamente muovere dalla premessa della sua sicura rilevanza nei
 giudizi a quibus, non puo' essere compiuta perche' rischia di restare
 astratta.
    13.  -  Cio' non significa, pero', che la revoca di una misura che
 ha comportato una sostanziale modificazione nel grado  di  privazione
 della liberta' personale possa considerarsi fenomeno privo di rilievo
 sotto  il  profilo  costituzionale. Questa Corte ha invero piu' volte
 riconosciuto,  anche  in  materie  -   quale   quella   dei   diritti
 patrimoniali  -  non  soggette al principio di irretroattivita' della
 legge, che la  vanificazione  con  legge  successiva  di  un  diritto
 positivamente riconosciuto da una legge precedente non puo' sottrarsi
 al  necessario  scrutinio  di  ragionevolezza  (cfr.,  ad esempio, la
 sentenza  n.  822  del  1988  e  le  altre  ivi  citate);   e   cio',
 evidentemente,  vale a maggior ragione nella materia in esame.  Sotto
 questo profilo, occorre considerare che,  con  la  concessione  della
 semiliberta',  l'aspettativa  del  condannato  a  veder  riconosciuto
 l'esito positivo del percorso di risocializzazione gia'  compiuto  si
 e'  trasformata nel diritto ad espiare la pena con modalita' idonee a
 favorire  il  completamento  di  tale  processo;  e  che  alla   base
 dell'ammissione  alla  misura sta il riconoscimento giudiziale che la
 pericolosita' sociale del reo e' talmente scemata  da  consentire  un
 parziale  riacquisto  della  liberta'  personale  senza  apprezzabile
 pericolo per la sicurezza collettiva.    Ora,  se  si  considerano  i
 principi  costituzionali  vigenti  in  materia penitenziaria, si deve
 constatare che tra di essi va innanzitutto annoverato il principio di
 colpevolezza di cui all'art.  27, primo comma, Cost. che e' "criterio
 garantistico (non solo)  dell'irrogazione(ma  anche)  dell'esecuzione
 della pena" (sentenza n.  282 del 1989). A tale principio, del resto,
 la  legislazione  ordinaria in materia di benefici penitenziari si e'
 costantemente attenuta, dato che la revoca di essi  e'  stata  sempre
 ancorata  ad  una condotta addebitabile al condannato (cfr. artt. 47,
 comma undicesimo, 47-ter, comma sesto, 51, 51-ter, 53-bis, 54, Vcomma
 terzo, della legge sull'ordinamento penitenziario); ed esso e'  stato
 osservato  -  proprio  per i condannati per i delitti di cui all'art.
 4-bis - nello stesso testo legislativo  qui  in  esame,  che  prevede
 (art.  14)  che  la  revoca  dei benefici in corso di fruizione debba
 essere disposta in caso di commissione di un  delitto  doloso  punito
 con  pena  non  inferiore  nel  massimo a tre anni di reclusione.  In
 materia di benefici penitenziari, questa Corte ha  inoltre  stabilito
 il   principio  che  l'effetto  della  revoca  di  essi  deve  essere
 proporzionato (oltre che al quantum di afflittivita' che da  essi  e'
 derivato)  alla gravita' oggettiva e soggettiva del comportamento che
 ha determinato la revoca (cfr. sentenze nn. 343 del 1987  e  282  del
 1989):   principio  che  consegue  a  quelli  di  proporzionalita'  e
 individualizzazione  della  pena,  cui   l'esecuzione   deve   essere
 improntata,  i  quali a loro volta discendono dagli artt. 27, primo e
 terzo comma (cfr. sentenze nn. 50 del 1980 e 203 del 1991) e 3  della
 Costituzione.  L'uguaglianza  di  fronte  alla pena significa infatti
 "'proporzione' della pena rispetto alle  'personali'  responsabilita'
 ed  alle esigenze di risposta che ne conseguono" (sentenza n. 299 del
 1992).  Esaminando la fattispecie in discorso alla stregua di  questi
 principi,  si deve innanzitutto rilevare che essa si caratterizza per
 l'assenza  di  motivi  di  demerito  da  parte  del   condannato   in
 semiliberta'  ed anzi - come alcuni dei giudici a quibus sottolineano
 - per l'avanzato  stadio  del  processo  di  risocializzazione.    Il
 requisito della collaborazione con la giustizia non e' d'altra parte,
 coerente  con  i  suddetti  principi, perche' nell'ottica della norma
 esso e' strumento di politica criminale (cfr. par. 9) e non indice di
 colpevolezza o criterio di individualizzazione del trattamento.    E'
 ben  vero  che  la  collaborazione  consente  di presumere che chi la
 presta si sia dissociato dalla criminalita' e che ne sia percio' piu'
 agevole il reinserimento sociale. Ma dalla mancata collaborazione non
 puo' trarsi una valida presunzione di segno contrario,  e  cioe'  che
 essa  sia  indice  univoco di mantenimento dei legami di solidarieta'
 con l'organizzazione criminale: tanto  piu',  quando  l'esistenza  di
 collegamenti  con quest'ultima sia stata altrimenti esclusa.  In caso
 di  revoca  della  semiliberta'  per  condannati  per  i  delitti  in
 questione,   giocano   infatti   in  senso  contrario  -  oltre  alle
 considerazioni generali svolte dianzi in tema di  revoca  -  il  piu'
 specifico  dato  costituito dal lungo tempo normalmente trascorso dal
 momento del fatto, quale si desume  dall'elevatezza  delle  pene  per
 essi  comminate  e  dalla  concedibilita'  del  beneficio  solo  dopo
 l'espiazione di meta'  di  quelle  irrogate.    I  casi  dedotti  nel
 presente  giudizio  sono, inoltre, quasi tutti riferiti ad un reato -
 il sequestro di persona a scopo di estorsione - che puo'  bensi'  far
 capo ad organizzazioni criminali stabili, ma non di rado e' frutto di
 aggregazioni   occasionali   o   comunque   di   strutture  criminali
 circoscritte,  che  tendono  a  dissolversi  con   la   cattura   dei
 compartecipi.   In siffatte condizioni, la mancata collaborazione non
 puo' essere assunta  come  indice  di  pericolosita'  specifica,  ben
 potendo  essere  frutto - come i giudici rimettenti sottolineano - di
 incolpevole impossibilita' di prestarla, ovvero essere conseguenza di
 valutazioni che non sarebbero ragionevolmente rimproverabili,  quale,
 ad  esempio,  l'esposizione  a  gravi pericoli per se' o per i propri
 familiari che la collaborazione del  condannato  possa  eventualmente
 comportare.    La  norma  in  esame  (che come gia' detto ricomprende
 necessariamente l'ipotesi della collaborazione con esiti  rilevanti),
 offre  peraltro  un  criterio  che  -  come gia' si e' osservato - e'
 coerente coi canoni di colpevolezza ed  individualizzazione  cui  una
 previsione  di  revoca  deve  conformarsi,  e  che  e'  nel  contempo
 sufficiente  a  soddisfare  i  bisogni  di  tutela  della   sicurezza
 collettiva   perseguiti   dal   legislatore.     La  persistenza  dei
 collegamenti con la criminalita' organizzata e', in effetti,  un  in-
 dice di pericolosita' sociale che puo' ragionevolmente autorizzare la
 revoca   della  misura  alternativa  in  quanto  e'  addebitabile  al
 condannato  e  testimonia  un'effettiva  carenza  del   processo   di
 risocializzazione.  Ma poiche' in sede di concessione della misura la
 pericolosita' sociale del condannato e' gia'  stata  valutata  ed  in
 tale valutazione ben puo' essere stato considerato - pur se all'epoca
 non  espressamente prescritto - l'elemento concernente la persistenza
 di  collegamenti  con  la   criminalita'   organizzata,   e'   logica
 conseguenza  dei  suesposti  principi  -  considerati  anche nel loro
 raccordo con quello di cui all'art. 25, secondo comma, Cost. - che la
 revoca non possa essere legittimamente disposta  se  non  quando  sia
 stata  accertata  l'attuale  esistenza  di siffatti collegamenti. Nel
 contesto di tale verifica, la mancata collaborazione con la giustizia
 puo'  certo  assumere  valore  indiziante.  Ma  quando  il   predetto
 accertamento  dia esito negativo, stabilire che la misura alternativa
 gia' concessa debba essere revocata sulla  sola  base  della  mancata
 collaborazione   trasmoda  in  regolamentazione  irragionevole  della
 materia.     L'art.  15,  secondo   comma,   va   quindi   dichiarato
 costituzionalmente  illegittimo  nella  parte  in  cui prevede che la
 revoca delle misure alternative alla detenzione sia disposta,  per  i
 condannati  per  i  delitti di cui al primo comma che non collaborano
 con la giustizia a norma dell'art. 58-ter, anche quando non sia stata
 accertata la sussistenza di collegamenti attuali dei medesimi con  la
 criminalita' organizzata.