ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 6 del  decreto-
 legge  1› marzo 1991, n. 60 (Interpretazione autentica degli articoli
 297 e 304 del codice di procedura penale e modifiche di norme in tema
 di durata della custodia cautelare), convertito nella legge 22 aprile
 1991, n. 133 (Conversione in legge, con modificazioni,  del  decreto-
 legge  1›  marzo 1991, n. 60, recante interpretazione autentica degli
 articoli 297 e 304 del codice di  procedura  penale  e  modifiche  di
 norme  in tema di durata della custodia cautelare), che ha modificato
 l'art. 544,  secondo  comma,  del  codice  di  procedura  penale,  in
 rapporto  al  disposto  dell'art. 585, secondo comma, lett. c), dello
 stesso codice, promosso con ordinanza emessa il 7 dicembre 1992 dalla
 Corte di appello di Firenze nel procedimento penale a carico di  Anna
 Maria  Damigella,  iscritta  al n.   83 del registro ordinanze 1993 e
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  10,  prima
 serie speciale, dell'anno 1993;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 ministri;
    Udito nella camera di consiglio del  23  giugno  1993  il  Giudice
 relatore Enzo Cheli;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Nel procedimento d'appello contro la sentenza del Tribunale
 di Prato di condanna di Anna Maria Damigella per il  delitto  di  cui
 all'art.  315  del  codice penale, la Corte d'appello di Firenze, con
 ordinanza del 7 dicembre 1992 (R.O. n. 83 del  1993),  ha  dichiarato
 rilevante  e  non manifestamente infondata, in riferimento agli artt.
 3, 24, 72 e 77  della  Costituzione,  la  questione  di  legittimita'
 costituzionale  dell'art.  6  del decreto-legge 1› marzo 1991, n. 60,
 convertito nella legge 22 aprile 1991, n. 133  -  che  ha  modificato
 l'art.  544, secondo comma, del codice di procedura penale, riducendo
 da trenta a  quindici  giorni  il  termine  per  la  redazione  della
 sentenza  non  contestualmente  motivata  - in rapporto all'art. 585,
 secondo comma, lett. c), dello stesso codice - che  fa  decorrere  il
 termine  per  proporre  l'impugnazione  "dalla  data  di scadenza del
 termine stabilito dalla legge .... per il deposito della sentenza".
    Il giudice remittente premette che  la  sentenza  di  condanna  e'
 stata  pronunciata  il  19  settembre  1991 e depositata il 3 ottobre
 dello stesso anno mentre l'atto di appello e' stato depositato il  14
 novembre  del  1991  e  quindi  oltre il termine di trenta giorni per
 proporre l'impugnazione fissato dall'art. 585 del codice di procedura
 penale.  Nell'ordinanza  si   espone   inoltre   che   il   difensore
 dell'imputata  ha  sostenuto  la tempestivita' dell'appello ed ha, in
 subordine,  eccepito  l'illegittimita' costituzionale dell'art. 6 del
 decreto-legge 1› marzo 1991,  n.  60,  convertito  con  modificazioni
 nella  legge  22  aprile  1991,  n. 133, mettendo in rilievo come sia
 stata la riduzione a quindici giorni  del  termine  per  il  deposito
 della   sentenza   non   contestualmente   motivata   a   determinare
 l'intempestivita' del suo atto di appello.
    2. - Ad avviso del giudice a quo la questione di costituzionalita'
 prospettata  e'  rilevante  poiche'  e'  per  effetto   della   norma
 impugnata, modificativa del secondo comma dell'art. 544 del codice di
 procedura  penale,  che  l'impugnazione  proposta  dalla difesa della
 Damigella risulta inammissibile.
    Nel  merito  poi  la  questione  e'  ritenuta  non  manifestamente
 infondata.
    Il  punto di partenza dell'argomentazione svolta dal giudice a quo
 e' che lo  stretto  collegamento  istituito  dall'art.  585,  secondo
 comma,  lett.  c),  del  codice  di  procedura penale con il disposto
 dell'art. 544, secondo  comma,  dello  stesso  codice  "determina  la
 decorrenza  del termine per l'impugnazione di sentenza dibattimentale
 non contumaciale e non contestualmente  motivata  dallo  spirare  del
 termine   stabilito  dalla  legge  per  il  deposito  della  sentenza
 medesima, ove osservato, e dunque oggi, per effetto  dell'art  6  del
 decreto-legge  n.  60 del 1991, dal sedicesimo giorno successivo alla
 pronuncia della sentenza".
    Aggiunge il giudice remittente che - in base al disposto dell'art.
 548,  secondo  comma,  del  codice  di  procedura   penale   -   solo
 l'inosservanza,  da  parte  del  giudice,  del  piu' ampio termine di
 trenta giorni dalla  pronuncia  impone  la  notifica  dell'avviso  di
 deposito  della  sentenza  all'imputato presente ed al suo difensore;
 con la conseguenza che il  termine  per  l'impugnazione  iniziera'  a
 decorrere  dalla  scadenza  del  quindicesimo giorno anche in tutti i
 casi di  sentenza  depositata  oltre  il  quindicesimo  ma  entro  il
 trentesimo giorno dalla pronuncia.
    Per  effetto  di  tali  norme  il  contumace  si troverebbe in una
 situazione  piu'  vantaggiosa  dell'imputato  presente  e   diligente
 poiche',  "oltre  a  fruire  dei  giorni  in  piu'  per  la  notifica
 dell'estratto, si giovera' del disposto dell'art. 548, commi  secondo
 e  terzo, del codice di procedura penale, la cui lettura coordinata -
 in mancanza di qualsivoglia modificazione seguita a quella  dell'art.
 544,  secondo  comma,  del  codice  - determina nel trentesimo giorno
 dalla pronuncia il momento della notifica dell'estratto (anche quando
 il deposito della motivazione avvenga entro il  termine  di  quindici
 giorni oggi prescritto)".
    Di qui - secondo il giudice remittente - la violazione dell'art. 3
 della  Costituzione  che  vuole  siano  informate a ragionevolezza le
 differenziazioni di trattamento  soprattutto  quando  esse  attengano
 all'esplicazione  di  un  diritto  fondamentale  come  il  diritto di
 difesa.
    Inoltre la norma denunciata sarebbe in contrasto anche con  l'art.
 24  della  Costituzione.  E  cio'  sia perche' la normativa impugnata
 determinerebbe una consistente contrazione "del  termine  complessivo
 per   impugnare"   sia   perche'   essa   costituirebbe  "momento  di
 disorientamento per l'interprete e per il fruitore  (qui  imputato  e
 suo difensore) del sistema processuale delle impugnazioni".
    Dopo  aver  ricordato che la riduzione da trenta a quindici giorni
 del termine di  cui  all'art.  548,  secondo  comma,  del  codice  di
 procedura penale e' stata prima introdotta dall'art. 5, quinto comma,
 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, e successivamente soppressa
 nella  legge  di conversione 12 luglio 1991, n. 203, il giudice a quo
 sostiene che la  mancata  approvazione  della  modifica  in  sede  di
 conversione  del  decreto-legge n. 152 del 1991 ha testimoniato della
 volonta' del legislatore  di  tener  fermo  l'originario  termine  di
 trenta giorni.
    Da questa vicenda legislativa scaturirebbe percio', sempre secondo
 la  Corte remittente, la conferma del sospetto che la norma impugnata
 abbia prodotto una ingiustificata compressione del diritto di difesa,
 violando l'art. 24 della Costituzione.
    3. - L'ultimo profilo di illegittimita' costituzionale della norma
 impugnata evidenziato dal giudice remittente  riguarda  il  "processo
 formativo" e le "modalita' di emanazione" del decreto-legge n. 60 del
 1991  che  sarebbero  in  contrasto  con  gli  artt.  72  e  77 della
 Costituzione in relazione agli artt. 7 della legge delega 16 febbraio
 1987, n. 81, e 15 della legge 23 agosto 1988, n. 400.
    Ad avviso della Corte d'appello di Firenze, infatti,  non  sarebbe
 consentita  l'emanazione di un decreto-legge contenente modifiche del
 codice di procedura penale in presenza della  delega  al  Governo  ad
 emanare,  entro  un  triennio  dall'entrata  in  vigore del codice di
 procedura penale, disposizioni integrative e correttive  su  conforme
 parere  di  una  Commissione bicamerale (art. 7 e 8 della legge n. 81
 del 1987).
    4.  -  Nel  giudizio  dinanzi  alla  Corte  si  e'  costituito  il
 Presidente   del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso
 dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione  sia
 dichiarata infondata.
                        Considerato in diritto
    1.   -   La  Corte  d'appello  di  Firenze  solleva  questione  di
 legittimita' costituzionale nei confronti dell'art.  6  del  decreto-
 legge 1› marzo 1991, n. 60, convertito nella legge 22 aprile 1991, n.
 133,  che  ha  modificato  l'art.  544,  secondo comma, del codice di
 procedura penale, riducendo da trenta a quindici  giorni  il  termine
 per   la   redazione   dei   motivi   della   sentenza  non  motivata
 contestualmente alla redazione del dispositivo.
    Secondo il giudice remittente la  riduzione  del  termine  per  la
 redazione   dei   motivi   della   sentenza  -  considerata  nel  suo
 collegamento con le disposizioni dettate dall'art.  548  e  dall'art.
 585,  secondo  comma,  lett.  c),  del  codice  di procedura penale -
 darebbe vita ad una disciplina del termine per impugnare contrastante
 con  l'art.  3  della  Costituzione  perche'   irrazionalmente   piu'
 vantaggiosa  per l'imputato contumace rispetto all'imputato "presente
 e diligente". E cio' perche' - sulla base  dell'attuale  formulazione
 dell'art.  548 del codice - l'avviso di deposito con l'estratto della
 sentenza dovrebbe essere notificato al contumace dopo  trenta  giorni
 dalla  pronuncia anche in caso di deposito della motivazione entro il
 termine di quindici giorni oggi prescritto dalla norma impugnata.
    Inoltre, la norma denunciata determinerebbe, sempre per l'imputato
 presente,  una  notevole  contrazione  del  termine  complessivo  per
 impugnare in violazione del diritto di difesa sanzionato nell'art. 24
 della  Costituzione e si porrebbe altresi' in contrasto con gli artt.
 72 e 77 della stessa Costituzione, non essendo consentito, nel  primo
 triennio  di  vigenza del codice di procedura penale, modificare tale
 codice senza osservare la  speciale  procedura  per  l'emanazione  di
 disposizioni  integrative  e  correttive  regolata  dagli artt. 7 e 8
 della legge delega 16 febbraio 1987, n. 81.
    2. - La questione non e' fondata.
    Nella sua originaria formulazione l'art. 544, secondo  comma,  del
 codice  di procedura penale stabiliva che - in caso di impossibilita'
 di provvedere alla redazione immediata in  camera  di  consiglio  dei
 motivi  della sentenza - il giudice dovesse provvedervi "non oltre il
 trentesimo giorno da quello della pronuncia".
    In coerenza con tale statuizione, l'art. 548, secondo comma, dello
 stesso codice prevedeva poi la comunicazione dell'avviso di  deposito
 della  sentenza  al pubblico ministero e la notificazione dell'avviso
 stesso alle parti private  nell'ipotesi  di  mancato  deposito  della
 sentenza "entro il trentesimo giorno" dalla data della pronuncia.
    Infine,  l'art.  585,  secondo  comma,  lett.  c),  del  codice di
 procedura fa decorrere il termine per  proporre  impugnazione  "dalla
 scadenza  del termine stabilito dalla legge ... per il deposito della
 sentenza ovvero, nel caso previsto dall'art. 548, secondo comma,  dal
 giorno  in  cui e' stata eseguita la notificazione o la comunicazione
 dell'avviso di deposito".
    In questa ordinata sequenza di norme  (dirette  a  disciplinare  i
 tempi  di  redazione e di deposito della sentenza non contestualmente
 motivata, le  modalita'  di  informazione  alle  parti  del  deposito
 avvenuto  oltre  il  termine di legge e la decorrenza dei termini per
 l'impugnazione) si e' inserita la norma denunciata che ha ridotto  da
 trenta  a quindici giorni il termine per la redazione della sentenza,
 senza darsi carico del coordinamento formale di tale innovazione  con
 la  disciplina  dettata  dall'art.  548, secondo comma, del codice in
 ordine alla comunicazione e  notificazione  dell'avviso  di  deposito
 delle decisioni depositate oltre il termine ordinario.
    La  conseguenza  del mancato coordinamento e' stata che, mentre il
 nuovo testo dell'art. 544 del codice di rito prescrive al giudice  di
 redigere  i  motivi della sentenza non contestualmente motivata entro
 il quindicesimo giorno dalla data  della  pronuncia,  nell'art.  548,
 secondo  comma,  e'  sopravvissuta  l'originaria  dizione secondo cui
 l'avviso di deposito e' comunicato e notificato alle parti "quando la
 sentenza non e' depositata entro il trentesimo giorno".
    Nel diritto vivente, peraltro, questa incongruenza  formale  e  le
 incertezze   che  potevano  derivarne  (soprattutto  in  ordine  alla
 necessita'  dell'avviso  di  deposito  alle  parti  per  le  sentenze
 depositate  oltre  il quindicesimo, ma non oltre il trentesimo giorno
 dalla  pronuncia)  sono   state   superate   dall'univoco   indirizzo
 interpretativo adottato in merito dalla Corte di cassazione.
    Analizzando  la  vicenda legislativa da cui sono derivati la nuova
 formulazione dell'art. 544, secondo comma, del codice di procedura ed
 il mancato coordinamento di tale  disposizione  con  l'art.  548,  ed
 operando  una ricostruzione sistematica della normativa in questione,
 la Corte di Cassazione e' giunta, infatti, alla conclusione che  "per
 effetto   dell'art.  6  del  decreto-legge  1›  marzo  1991,  n.  60,
 convertito, con modificazioni, nella legge 22  marzo  1991,  n.  133,
 anche  l'art.  548,  secondo  comma,  deve  ritenersi  modificato  in
 conformita',  nel  senso  che  l'avviso  di  deposito   deve   essere
 effettuato   quando   la   sentenza   non   e'  depositata  entro  il
 'quindicesimo  giorno',  invece dell'originario 'trentesimo giorno'".
 (Cass., Sez. V, 8 febbraio 1993; nello stesso senso, Cass., Sez. I, 4
 dicembre 1992, nella quale si afferma che l'obbligo  posto  dall'art.
 548, secondo comma, del codice di procedura penale di provvedere alla
 comunicazione  ed  alla  notificazione  dell'avviso di deposito della
 sentenza non depositata nel  termine  previsto  dalla  legge  non  e'
 escluso  se la sentenza sia stata depositata prima della scadenza del
 termine del trentesimo giorno ma dopo i quindici giorni  fissati  per
 il deposito dall'art. 6 del decreto-legge 1› marzo 1991, n. 60).
    3.  - Sulla base di questa interpretazione la normativa denunciata
 non ha l'effetto di ridurre il termine di trenta giorni per impugnare
 assegnato alle parti dall'art. 585, primo comma, lett. b), del codice
 di procedura poiche' -  nel  caso  di  sentenza  non  contestualmente
 motivata  e depositata oltre il quindicesimo giorno dalla pronuncia -
 va comunque notificato alle parti stesse (e  comunicato  al  pubblico
 ministero) l'avviso di deposito, mentre il termine per l'impugnazione
 decorre  dal  giorno  in cui e' stata eseguita la notificazione (o la
 comunicazione) dell'avviso stesso.
    Non  si  verifica,  pertanto,  la  contrazione  del  termine   per
 impugnare  ipotizzata  dal  giudice  a  quo  e, conseguentemente, non
 risulta  leso  il  diritto  di  difesa  sancito  dall'art.  24  della
 Costituzione.
    Non  vi  e'  poi  arbitraria  disparita'  di trattamento, sotto il
 profilo dei termini per impugnare,  tra  il  contumace  e  l'imputato
 presente,   ma   solo  una  disciplina  differenziata  di  situazioni
 obiettivamente diverse. Infatti, mentre per il  contumace  -  che  di
 regola  non e' informato dello svolgimento del processo - e' prevista
 "in  ogni  caso"  la  notificazione  dell'avviso  di  deposito  della
 sentenza (art. 548, terzo comma, del codice di procedura penale), per
 l'imputato  presente  la  notificazione dell'avviso di deposito della
 sentenza e' prevista limitatamente alle ipotesi  di  redazione  della
 motivazione oltre la scadenza del termine di legge di quindici giorni
 e  cioe'  solo quando egli non e' piu' concretamente in condizione di
 conoscere e di prevedere i tempi  del  deposito.  Ma,  tanto  per  il
 contumace  quanto  per  l'imputato  ignaro della data del deposito il
 termine per impugnare comincia a decorrere dallo stesso momento ossia
 dal giorno in cui e' stata eseguita la notificazione  dell'avviso  di
 deposito.
    Infondata  si presenta, infine, anche l'ultima censura prospettata
 dal  giudice  a  quo  con  riferimento  agli  artt.  72  e  77  della
 Costituzione.
    Questa   Corte   ha  gia'  affermato  che  "la  legge  delega  per
 l'emanazione  del  codice  di  procedura  penale  non  occupa,  nella
 gerarchia  delle fonti, una posizione diversa da quella di ogni altra
 legge" con la conseguenza che essa, ricorrendo i presupposti  di  cui
 all'art.  77  della  Costituzione,  "puo' essere modificata anche con
 decreto-legge, salva, ovviamente, la successiva conversione" (ord. n.
 225 del 1992). La speciale procedura prevista dagli artt. 7 e 8 della
 legge  delega  n.  81  del  1987  per  l'emanazione  di  disposizioni
 integrative  e  correttive  del  codice di procedura penale nel primo
 triennio di vigenza dello stesso codice  non  esclude,  pertanto,  la
 possibilita' che innovazioni o modificazioni alla disciplina espressa
 in  detto codice possano essere introdotte anche attraverso i diversi
 canali di produzione normativa primaria previsti in Costituzione.