Ricorso   per   il   Presidente   del   Consiglio   dei  Ministri,
 rappresentato dall'avvocatura  generale  dello  Stato  nei  confronti
 della  regione  Piemonte,  in  persona  del  presidente  della giunta
 regionale in carica, avverso la delibera legislativa riapprovata  dal
 consiglio  regionale  il 6 luglio 1993, comunicata al commissario del
 Governo il 12 luglio 1993, e recante "ricerca,  uso  e  tutela  delle
 acque sotterranee".
    Con  telegramma 30 ottobre 1992 il Governo ha rinviato la delibera
 legislativa 29 settembre 1992, poi  riapprovata  con  adeguamento  di
 talune disposizioni ai rilievi formulati.
    Gli  articoli  4  e 7 del d.P.R. 24 maggio 1988, n. 236 prevedono,
 tra l'altro, "zone di protezione" delle risorse idriche,  zone  nelle
 quali  possono essere adottate "misure relative alla destinazione del
 territorio interessato" e "limitazioni per  gli  insediamenti  civili
 produttivi   turistici  agroforestali  e  zootecnici".  I  successivi
 articoli 8 e 9 del  medesimo  decreto  attribuiscono  rispettivamente
 allo  Stato  ed alle Regioni specifiche funzioni; in particolare alle
 Regioni  e'  assegnata  la  funzione di "individuazione delle aree di
 salvaguardia   e   disciplina   delle   attivita'   e    destinazioni
 ammissibili".
    L'art.  13,  secondo  comma,  della  delibera legislativa in esame
 prevede che "i vincoli e le limitazioni d'uso del territorio a norma"
 del teste' citato art. 7  siano  "definiti"  dalla  giunta  regionale
 mediante  atto  amministrativo,  "sentiti  gli enti locali". Il primo
 periodo del secondo comma non precisa  esplicitamente  se  tale  atto
 amministrativo  debba  avere contenuto generale (di "disciplina" come
 recita l'art. 9 citato) o possa anche avere  contenuti  concreti,  ed
 eventualmente  vari e molteplici, in relazione a ciascuna zona e sub-
 zona di territorio. Il secondo periodo del  medesimo  secondo  comma,
 pero',  parrebbe  condurre  a  questa  seconda lettura quando prevede
 "tali vincoli e limitazioni costituiscono ad ogni  effetto  viariante
 agli  strumenti  urbanistici  locali".  Tulle  le  "destinazioni" del
 territorio (non  solo  quelle  riguardanti  trasformazioni  edilizie)
 previste  dagli  strumenti  anzidetti  sarebbero  quindi modificabili
 dalla giunta regionale (non  occorre  dunque  una  deliberazione  del
 consiglio  regionale, come invece per i piani territoriali), senza il
 concorso  nel  procedimento   di   deliberazioni   (denominabili   di
 "adozione" o altrimenti) dei consigli comunali interessati (cfr. art.
 32, secondo comma, lett. b) della legge 8 giugno 1990, n. 142).
    Il  secondo  comma  in  esame appare contrastante con gli artt. 5,
 114, 117 (per inosservanza di "principi" stabiliti dalle leggi  dello
 Stato)  e  128  della  Costituzione, e con norme interposte contenute
 nell'art. 2 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, negli artt. 3, 5,  12,
 14,  17  e  18  della  legge  18 maggio 1989, n. 183, e nella legge 8
 giugno 1990, n. 142, come integrati  dagli  insegnamenti  forniti  da
 codesta Corte costituzionale.
    Nelle  sentenze  4  aprile  1990,  n.  157 (concernente proprio la
 regione Piemonte)  e  24  maggio  1991,  n.  212,  codesta  Corte  ha
 ravvisato    "compressione   illegittima   dell'autonomia   comunale"
 ogniqualvolta poteri decisionali attribuiti agli organi  comunali  da
 leggi  statali  recanti principi sono "trasformati in semplici poteri
 consultivi e di proposta" mentre la regione "assume  in  proprio  una
 competenza   di   natura   provvedimentale".   Importante   anche  la
 precisazione contenuta nella sentenza  n.  212  citata,  secondo  cui
 dall'art.   3   della   legge  n.  142  del  1990  "non  puo'  trarsi
 l'attribuzione alla regione del potere di disporre  del  contenuto  e
 dell'estensione  delle  funzioni dei comuni, per di piu' senza tenere
 conto del modo in cui esse si atteggiano nella  legislazione  statale
 gia' vigente".
    La chiarezza degli insegnamenti dati con le due ricordate sentenze
 rende superfluo aggiungere che analoghi orientamenti sono indicati in
 altre sentenze, quali (ad esempio) la n. 87 del 27 marzo 1987 e la n.
 73 dell'11 febbraio 1991.
    Del   resto,   la   diretta   rigida   e  totale  incidenza  delle
 deliberazioni della giunta provinciale sugli strumenti urbanistici in
 vigore  ("costituiscono  ad  ogni  effetto  variante")  e'  modalita'
 eccessiva  persino  rispetto  ad  esigenze  "di  coordinamento",  che
 possono e devono trovare risposte piu' articolate e  piu'  rispettose
 delle   autonomie   locali,   ad   esempio   nell'ambito  di  normali
 procedimenti di variante agli strumenti anzidetti.
    Occorre aggiungere che la razionale utilizzazione delle acque (tra
 l'altro)  "per  le esigenze della alimentazione", ed anche attraverso
 la definizione di "provvedimenti  per  la  trasformazione  dei  cicli
 produttivi industriali ed il razionale impiego di concimi e pesticidi
 in  agricoltura"  costituisce  finalita' perseguita nell'ambito delle
 attivita' per la  difesa  del  suolo.  Il  bacino  del  fiume  Po  e'
 qualificato   (ovviamente)   "di  rilievo  nazionale",  con  le  note
 conseguenze sul piano  del  riparto  delle  competenze  che  da  tale
 qualificazione discendono.
    Deve  percio'  porsi  pure la questione se la configurazione di un
 separato potere "a valenza territoriale  ed  urbanistica"  (quale  e'
 quello  di  imporre  vincoli  e limitazioni riferiti al territorio) e
 l'attribuzione di tale potere mediante legge regionale alla giunta di
 una  delle   piu'   regioni   interessate   siano   compatibili   con
 l'ordinamento  coordinato  delle molteplici funzioni finalizzate alla
 difesa del suolo e riferite non soltanto al territorio (cfr. art  17,
 primo  comma,  della  legge  n.  183 del 1989). Appare poco razionale
 impostare essenzialmente in termini urbanistico-territoriali problemi
 complessi di uso e gestione di risorse naturali.