Ricorso per conflitto di attribuzione promosso dalla regione Emilia Romagna, in persona del presidente pro-tempore della giunta regionale Pier Luigi Bersani, debitamente autorizzato con delibera g.r. n. 3693 in data 27 luglio 1993 immediatamente esecutiva, rappresentata e difesa per mandato a margine dai professori avvocati Giandomenico Falcon e Franco Mastragostino ed elettivamente domiciliata presso l'avv. Luigi Manzi, con studio in Roma, via Confalonieri, 5, contro la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente del Consiglio dei Ministri pro-tempore per la risoluzione del conflitto di attribuzione determinato dal d.P.R. 24 dicembre 1992, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 153 del 2 luglio 1993, in materia di definizione dei livelli uniformi di assistenza sanitaria e per il conseguente annullamento dell'atto. F A T T O L'art. 6 del d.l. n. 384/1992 (convertito nella legge n. 438/1992) ha demandato al Governo, di intesa con la conferenza Stato- regioni, di definire: "livelli uniformi di assistenza sanitaria da garantire a tutti i cittadini a decorrere dal 1 gennaio 1993", essendo altresi' stabilito nel medesimo articolo che se l'intesa non intervenga entro il 15 dicembre 1992, il Governo provvede direttamente. In base a tale norma e' stato, quindi, emanato il d.P.R. 24 dicembre 1992, nel quale e' pero' contenuta una serie di disposizioni direttamente lesive sia del ruolo e delle prerogative riconosciute alle regioni in materia di assistenza e di programmazione sanitaria e specificamente rivolte ad una effettiva determinazione dei livelli di assistenza correlata alla quota capitaria, sia di profili procedimentali e sostanziali connessi con il principio di "leale collaborazione", sia lesive della possibilita' per le regioni di programmare la spesa sanitaria. Tale decreto, il quale da' atto immotivatamente che l'intesa con la Conferenza permanente Stato-regioni non e' intervenuta nel termine fissato, reca la data del 24 dicembre 1992, ma e' stato pubblicato soltanto il 2 luglio 1993. Inoltre non pare inutile rammentare che lo stesso provvedimento e' stato censurato dalla Corte dei conti che ha parzialmente negato il visto - ritenendole inadeguate - proprio in ordine alle indicazioni governative dei parametri capitari di finanziamento per i singoli settori di prestazione (essendo individuata soltanto la cifra capitaria globale lorda, ma determinata in base a ragioni diverse rispetto a quelle inerenti alla determinazione dei livelli delle prestazioni che devono essere comunque garantite). Ne' il Governo ha chiesto la registrazione con riserva. Sotto innumerevoli profili il d.P.R. 24 dicembre 1992 appare peraltro illegittimo per conflitto di attribuzione. E segnatamente per i seguenti motivi. D I R I T T O I. - Con evidenza emerge il contrasto Stato-regioni sul costo delle singole prestazioni sanitarie garantite. (Il mancato raggiungimento dell'intesa deriverebbe proprio dalla difformita' del computo governativo rispetto ai conteggi di parte regionale, su alcuni elementi del costo dei servizi). Lo Stato non ha indicato infatti i limiti minimi garantiti, ma ha effettuato solo una ricognizione degli obbiettivi e fissato il costo globale capitario lordo, con una operazione di mero frazionamento dello stanziamento disponibile per numero degli abitanti. Conseguentemente cio' che doveva consistere in una suddivisione della spesa sulla base di livelli di prestazioni garantiti, secondo lo spirito della legislazione di riforma, (livelli e non obiettivi, livelli di prestazione cui l'utente ha diritto, definiti in concreto e partitamente sulla base di classi di eta', di composizione demografica della popolazione, ecc., tenuto conto anche delle caratteristiche e dei dati epidemiologici riscontrabili nelle singole realta' regionali. Cosi', non e' ad esempio irrilevante che la regione Emilia-Romagna presenti cinque punti in percentuale in piu' di popolazione ultrasessantacinquenne rispetto alla Lombardia) e' divenuto una mera elencazione di tipi di prestazione accompagnata, ma senza alcun nesso di collegamento, dalla indicazione di una spesa massima globale per ciascun assistito che non rispecchia la struttura dei costi effettivi delle prestazioni, ma riflette esclusivamente i vincoli di bilancio. Sicche', la fissazione (e la conseguente garanzia) del livello minimo della prestazione non e' effettuata dallo Stato, ma risulta di fatto demandata alle singole regioni nell'ambito di un costo globale di riferimento e a scapito delle esigenze fondamentali di uniformita' che avevano originariamente giustificato la delega al Governo. Non contenendo alcuna determinazione dei livelli assistenziali - come avrebbe dovuto fare a seguito della delegificazione della materia riconosciuta legittima dalla recente sentenza della Corte cost. n. 355/1993 - ma limitandosi ad un riepilogo delle disposizioni gia' vigenti nel settore (la determinazione di cui all'art. 6 del d.l. n. 384/1992 era gia' stata prevista dall'art. 4, primo comma, della legge n. 412/1991 e successivamente negli artt. 1 e 12 del d.lgs. n. 502/1992) e non avendo accompagnato con determinazioni di tipo quantitativo gli indicatori di verifica laddove previsti, il decreto 24 dicembre 1992 non ha alcun effetto di predeterminazione della spesa e dei suoi fattori. In cio' esso abdica, quindi, alla funzione stabilita da legge delegata e legge delegante, risultando privo della legalita' sostanziale costantemente richiesta dalla Corte costituzionale per la legittimita' di questo tipo di atti governativi. Inoltre, a questa essenziale rinuncia e mancato esercizio del potere affidato, corrisponde la totale arbitrarieta' e illegalita' della determinazione del solo parametro capitario globale, in assenza dei parametri capitari di settore (censurati, lo si ricorda, dalla Corte dei conti per evidente inidoneita'). Cosicche' viene anche meno quel "presupposto della necessaria corrispondenza e coerenza effettiva fra quote capitarie e livelli uniformi delle prestazioni sanitarie" che e' stato individuato quale colonna portante del sistema di programmazione della spesa sanitaria ancora dalla sentenza n. 355/1993. Poiche' in base allo stesso meccanismo stabilito dal d.lgs. n. 502/1992 la determinazione dei livelli di assistenza e della correlativa quota capitaria costituisce - in un'ottica di voluta stretta e imprescindibile correlazione - modo di determinazione del quantum di finanziamento statale alle regioni, e' del tutto evidente quindi che il decreto in esame appare radicalmente inidoneo a garantire alle regioni la congruenza fra livelli di prestazione e quote capitarie di finanziamento, in assenza di predeterminazione quantitativa delle prestazioni dovute, tendendo a "scaricare" sulle regioni le eventuali differenze per i costi effettivi dovuti. II. - Occorre altresi' rilevare che lo Stato non ha affatto dimostrato che la prescritta intesa con la Conferenza permanente (art. 6 d.l. n. 384/1992) si e' resa impossibile, limitandosi ad acclararla e procedendo di conseguenza unilateralmente. Ora, se e' vero che l'intervento governativo in caso di non raggiungimento dell'intesa puo' ritenersi ammissibile quale risultato finale, e' altrettanto certo che tale soluzione deve essere supportata da un procedimento ragionevole. Pena la frustrazione di qualsivoglia garanzia del ruolo delle regioni in base ai principi della leale collaborazione, sulla cui necessita' - onde assicurare effettiva e concreta portata anche nell'ambito di meccanismi legislativi che prevedano, in caso di mancata intesa con le regioni, un potere di normazione unitalerale da parte dello Stato - non puo' sorgere dubbio alcuno. Se questi meccanismi sono stati riconosciuti legittimi dalla Corte costituzionale (355/1993), e' altrettanto vero infatti che la stessa Corte si e' piu' volte preoccupata di circondare la facolta' di intesa di adeguati requisiti sostanziali e procedurali, al fine di evitare cioe' "il declassamento dell'attivita' di codeterminazione ad una mera attivita' consultiva non vincolante" (Corte cost. n. 351/1991) e individuando quale dovere di leale cooperazione il preciso onere, sul piano procedurale, "a carico dell'organo procedente, di fare quanto e' possibile per tentare di superare le eventuali divergenze insorte in vista del migliore perseguimento dell'interesse pubblico in discussione" (Corte costituzionale n. 379/1992, punto 9 del testo pubblicato su Gazzetta Ufficiale, c.d. sentenza Martelli). Non par dubbio, quindi, che in assenza di qualsivoglia ragionevole perseguimento della "paritaria codeterminazione del contenuto dell'atto sottoposto ad intesa, da realizzare e ricercare laddove occorra attraverso reiterate trattative volte a superare le divergenze che ostacolino il raggiungimento di un accordo" (come correttamente argomenta Corte costituzionale n. 379/1992 cit.) debba ritenersi violato il principio di leale cooperazione di cui lo strumento dell'intesa rappresenta una delle possibili forme di attuazione. Ora, tale carenza e' presente nel caso in esame laddove, unitamente alla assoluta mancanza di menzione nel decreto governativo delle ragioni che avrebbero determinato il non raggiungimento dell'intesa nel termine fissato, deve aggiungersi la circostanza che il medesimo decreto 24 dicembre 1992 e' divenuto operativo sei mesi piu' tardi, senza che nulla sia stato fatto da parte dello Stato per riprendere trattative eventualmente interrotte e senza che particolari motivi di urgenza e di opportunita' abbiano determinato il Governo a disporre la registrazione con riserva del decreto. Che la odierna opposizione della regione Emilia Romagna - e con essa di altre regioni - sia fondata e' dimostrato, infatti, in primo luogo dall'atteggiamento della Corte dei conti che ha bocciato le singole previsioni di costo capitario individuate dal Governo, ritenendole inadeguate ai livelli-obiettivo (e lasciando impregiudicato solo il costo capitario globale che pero' e' determinato per ragioni e secondo una logica diverse da quelle sottese alle prestazioni garantite) e, in secondo luogo, e' avvalorato proprio dalla mancata registrazione con riserva del decreto, che dimostra che la volonta' governativa si sostanziava essenzialmente nello stabilire il limite globale massimo e null'altro, al di la' degli scopi e delle finalita' avute di mira dalla legge di delega. III. - In sostanza, a fronte del d.P.R. 24 dicembre 1992, che si pone quale atto unilaterale dello Stato, le regioni perdono la garanzia reale ed effettiva del loro ruolo costituzionale, oltre che legislativo nella programmazione sanitaria. Ma non solo: esse perdono anche ogni effettiva possibilita' di programmare la poropria spesa (che e' l'obiettivo fondamentale di tutto il sistema legislativo del settore). E cio' in presenza di un atto che: a) non mette in correlazione il costo capitario con i livelli di prestazione; b) agisce retroattivamente fissando a meta' anno (2 luglio 1993) i livelli di spesa delle prestazioni che dovevano essere garantite - e non sono invece definite - gia' dal 1 gennaio 1993. Cio' e' in netto contrasto con i principi generali sulla non retroattivita' di misure amministrative, ma anche specificamente con lo stesso d.l. n. 384/92 che palesemente prevede la fissazione dei livelli e delle correlate risorse, per il futuro e non per il passato. Ne' si puo' obiettare che il carattere retroattivo non rileva, dato che il decreto ripete la normativa vigente: perche', a parte la lamentata illegittimita' sotto questo stesso profilo, la retroattivita' investe anche la determinazione della quota capitaria. Insomma, e' evidente che per il periodo gennaio-luglio 1993 le regioni dovevano comunque assicurare agli assistiti certi livelli di prestazioni, con la relativa copertura di spesa e che ne' le prestazioni, ne' le spese possono essere disciplinate retroattivamente per decreto, pena la lesione dell'autonomia amministrativa e finanziaria delle regioni. IV. - In conclusione. Il decreto nasce come atto unilaterale, per "carenza" dell'intesa fra le parti, non sugli obiettivi, ma sul costo relativo ai limiti uniformi di prestazioni garantite. Che le stime dello Stato fossero inadeguate e' dimostrato dal rifiuto di registrazione della Corte dei conti proprio in relazione alla inidoneita' delle singole previsioni di costo capitario individuate dal Governo. L'atto dello Stato, di conseguenza, anziche' indicare cio' che al cittadino deve essere ovunque garantito, quantificandone i costi, si limita ad elencare obiettivi generici, fissando un tetto capitario globale che non ha alcun fondamento se non nei vincoli di bilancio: l'atto percio', tradendo la sua funzione, e' privo di fondamento legislativo. Ne' si puo' giustificarlo in relazione alle esigenze di contenimento della spesa pubblica se solo si considera che da un lato la non fissazione dei livelli minimi di prestazioni garantite va ad incidere sulla garanzia del contenuto minimo della prestazione sanitaria che deve essere assicurato comunque ai cittadini in quanto non puo' essere compresso ulteriormente per esigenze di bilancio (cfr. sul contenuto minimo dell'art. 32 della Costituzione, non comprimibile per esigenze di bilancio, la sentenza n. 184/1993). In cio' vi e' dunque una evidente lesione del diritto alla salute, per provvedere al quale tutto il computo e il carico finanziario grava sulle regioni. Le quali, pero', (mentre lo Stato blocca, predeterminandola a priori, la propria spesa sanitaria di trasferimento) si trovano invece nella impossibilita', a meta' esercizio gia' trascorso, di far quadrare i propri conti. Alla fine, la falla della finanza pubblica che il Governo vorrebbe arrestare a livello centrale finisce con il riaprirsi a livello lo- cale, con conseguenze assai gravi anche sulla eguaglianza dei cittadini nel godimento del minimum essenziale del diritto alla sa- lute (sul divieto di discriminazioni nel godimento dei diritti moti- vate dalla mera localizzazione territoriale dei soggetti interessati cfr. altresi' sentenza n. 336/1989).