IL PRETORE Ha emesso la seguente ordinanza ex art. 23 della legge 11 marzo 1957, n. 87, proc. n. 9408/1992 ruolo generale, nel giudizio promosso da: Arena Salvatore, Tirelli Vergnano Giorgio, Clerici Maria, Nardone Vincenzo, Chierchia Ciro, Messina Antonio, Barbiroglio Giuseppe, Spennacchio Michele, Mannis Zumbo Anna, Bolognese Giuseppe, Capello Guido, Canazza Germano, Caminito Giuseppe, Ghirotti Silvano, Minniti Maria, Laurenzano Celestino, Sena Rocco, Motta Angelo, Gaglio Pietra, Pichierri Michele, Cappello Giuliana, Savian Pietro, Ignoto Caterina, Topazio Antonia, Sedaro Antonietta, Varlese Anna, Asara Domenicangela, Nigro Francesco, Damone Rocco, D'Errico Giovanni, Marzuillo Antonio, Giordano Saverio, Micheletti Umberto, Napoleone Ludovico, Pirillo Giuseppa, Caffi Augusto, Peres Eustachio, Gabbatore Settimo, La Penna Antonio, Riffero Mariuccia, Bedetti Giovanni, Ellena Domenica, Di Martino Teresina, Iberti Giuseppe, Rossi Lucina, Tamburrino Carmine, Colombero Oreste, Gillio Agostina, Busso Giovanna, Cappiello Francesca, Seio Francesco, Tortorici Giuseppe, Cuneo Giuseppe, Stevanon Livio Cottino Franco, Vergnano Luigi, Ghirardello Luciano, Capalbo Rosa, Bilancia Maria Carmela, Giulato Rino, Gilardi Attilio, Nocella Giovanni, Celestri Giovanni, De Rose Rosa; piu' n. 11045/1992 promosso da Lopez Luigi contro Whirlpool Italia S.r.l., divisione Aspera. Il pretore di Torino, sciogliendo la riserva formulata all'udienza del 20 maggio 1993, premesse le circostanze che seguono: 1. - Con ricorso depositato in data 6 ottobre 1992 i ricorrenti (Arena + 65) chiedevano al pretore di Torino di dichiarare l'illegittimita' dei licenziamenti impugnati, previa declaratoria dell'invalidita' dell'accordo 19 maggio 1992, sottoscritto tra la Whirlpool S.r.l. e le rappresentanze sindacali aziendali nella parte in cui esso prevede criteri di scelta dei lavoratori da licenziare alternativi e diversi rispetto a quelli individuati dall'art. 5, della legge n. 223, 23 luglio 1991, e comunque per violazione dell'art. 3 della Costituzione e dell'art. 9 disc. gen. parte prima C.C.N.L. dipendenti industria metalmeccanica privata 14 dicembre 1990, nonche' di condannare la societa' convenuta alla reintegrazione di tutti i ricorrenti con le conseguenze di cui all'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300. I ricorrenti chiedevano, altresi', che il pretore accertasse l'invalidita' di qualsiasi rinunzia o transazione sottoscritta in relazione all'intercorso rapporto di lavoro. 2. - Con ricorso depositato il 3 dicembre 1992 il sig. Lopez chiedeva al pretore di Torino di dichiarare illegittimo il proprio licenziamento e di condannare la societa' convenuta alla sua reintegrazione con le conseguenze di cui all'art. 18 dello Statuto dei lavoratori. 3. - Le ragioni poste a fondamento delle domande proposte possono riassumersi in alcune brevi considerazioni. La normativa dettata con la legge 23 luglio 1991, n. 223, in materia di "Cassa integrazione, mobilita', trattamenti di disoccupazione, attuazione delle direttive della Comunita' europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro, prevedendo all'art. 5 i: "Criteri di scelta dei lavoratori ed oneri a carico delle imprese", stabilisce che "L'individuazione dei lavoratori da collocare in mobilita' deve avvenire, in relazione alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale, nel rispetto dei criteri previsti da contratti collettivi stipulati con i sindacati di cui all'art. 4, secondo comma, ovvero, in mancanza di questi contratti, nel rispetto dei seguenti criteri in concorso fra loro: a) carichi di famiglia; b) anzianita'; c) esigenze tecnico-produttive ed organizzative. Con siffatta disposizione il legislatore avrebbe posto in essere un meccanismo in forza del quale la scelta dei lavoratori da licenziare sia fatta o in virtu' dei criteri indicati dalla legge (e mutuati dalla tradizione quarantennale sui licenziamenti collettivi) o in virtu' di un contratto collettivo stipulato dalle associazioni interconfederali o di categoria. Solo cosi', intendendo il rinvio all'art. 4, secondo comma, della legge n. 223/1991, si salvaguarderebbe da un lato, il principio che rende indisponibile al datore di lavoro l'individuazione dei criteri per la scelta dai lavoratori da espellere, e dall'altro, la possibilita' di definire a priori, rispetto alla concreta vicenda del licenziamento, i criteri per la scelta dei licenziandi. D'altra parte neppure il contratto collettivo potrebbe prevedere criteri alternativi a quelli di legge, potendo, invece, solo ulteriormente specificarli. Cosi' andrebbe intesa, infatti, la sanzione di annullabilita' di cui al terzo comma, dell'art. 5 cit., laddove viene disciplinata la violazione dei criteri di cui al primo comma. Essendo, pertanto, l'accordo stato stipulato con le rappresentanze sindacali aziendali e prevedendo quale unico criterio di scelta quello dell'anzianita' e/o dell'eta' contributiva, dovrebbe pronunciarsene l'invalidita' con tutte le conseguenze del caso. 4. - Si costituiva la Whirlpool divisione Aspera nei due procedimenti, chiedendo la reiezione delle domande attoree e proponeva, inoltre, avverso il ricorso iscritto al n. 9408/1992 (Arena + 65), domanda riconvenzionale subordinata all'accoglimento del ricorso, per la condanna alla restituzione delle somme percepite da buona parte dei ricorrenti quale corrispettivo della rinuncia ad impugnare il licenziamento. 5. - I procedimenti, su istanza di parte ricorrente, venivano riuniti avanti a questo giudice ex artt. 274 del c.p.c. e 151 att. del c.p.c. 6. - All'udienza del 20 maggio 1992, terminata l'istruttoria, il pretore invitava le parti alla discussione sulla questione di legittimita' costituzionale del primo comma dell'art. 5, della legge 23 luglio 1991, n. 223, in relazione agli artt. 3 e 39 della Costituzione, ed al termine assumeva la causa a riserva che scioglie con la presente ordinanza, con cui: O S S E R V A 7. - Appare rilevante per la risoluzione del giudizio e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 5, primo comma, della legge n. 223/1991, nella parte in cui prevede che un accordo sindacale possa derogare alla legge in relazione ai criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, previsti alle lettere a), b) e c) della stessa disposizione. 8. - La questione e' sicuramente rilevante. La norma che si sottopone, in parte, al giudizio della Corte costituzionale, rappresenta, infatti, proprio la disciplina con cui l'ordinamento ha inteso regolare le ipotesi di licenziamento collettivo. E' indispensabile, dunque, in via preliminare, prima ancora di affrontare l'esame delle tesi proposte dalle parti intorno all'interpretazione del rinvio all'art. 4, secondo comma, della legge n. 223/1991, o all'imperativita' dei criteri di cui all'art. 5, lettere a), b) e c), della legge n. 223/1991, comprendere se un accordo sindacale possa, alla luce dei precetti costituzionali degli artt. 3, 39 e 41 primo comma, derogare a norme di legge in materia di risoluzione del contratto di lavoro senza violare i diritti dei singoli. Eliminata l'alternativita' fra criteri di legge e criteri individuati dall'accordo sindacale, non resterebbe che seguire, nella scelta dei lavoratori da licenziare, le disposizioni di cui alle lettere a), b) e c) di cui all'art. 5, della legge n. 223/1991. A cio' conseguirebbe, ovviamente, l'accoglimento dei ricorsi. Nessuna operazione esegetica, che non sia contraria alla lettera della legge puo', ovviamente, condurre ad una soluzione su questo punto, essendo prevista espressamente l'alternativita' fra l'accordo ed i criteri normativi. Ma la rilevanza di una pronuncia sulla costituzionalita' della norma, ai fini della decisione della lite, emerge con maggiore evidenza sotto un ulteriore profilo. Occorre, infatti, osservare che la dizione dell'art. 5 cit. non differenzia affatto fra lavoratori iscritti alle associazioni sindacali stipulanti ed i non iscritti o gli iscritti ad altri sindacati. Cio' corrisponde senz'altro ad un criterio di ragionevolezza. Va da se', invero, che il licenziamento collettivo debba essere regolato come una vicenda unitaria, non essendo neppure configurabile la possibilita' che fra i lavoratori da licenziare, alcuni siano scelti in forza dei criteri stabiliti da un accordo ed altri in forza dei criteri stabiliti dalla legge. Se cio' fosse possibile si creerebbe un'inaccettabile disparita' di trattamento fra i lavoratori. Che la volonta' del legislatore non sia in questo senso si ricava dalla semplice lettura della norma che, ponendo l'alternativa fra l'accordo e la legge, non prevede, in alcun modo, la loro eventuale concorrenza. Resta, nondimeno, da valutare, anche laddove si concluda che un accordo sindacale possa intervenire in materia di risoluzione del rapporto di lavoro, se ed in che modo la regolamentazione pattizia possa estendere i proprii effetti a soggetti non iscritti alle associazioni stipulanti. Ora, nell'ipotesi di specie, buona parte dei ricorrenti non e' iscritta ad alcuna associazione sindacale, ne' a quelle le cui rappresentanze aziendali hanno sottoscritto gli accordi, ne' ad altre. 9. - Ma la questione e' anche non manifestamente infondata. E' norma cardine dell'ordinamento che ciascuno sia titolare dei proprii diritti (salva, ovviamente l'ipotesi di rappresentanza legale). Privo di specifica enunciazione costituzionale il principio traspare da numerose disposizioni della Carta fondamentale. Prima fra tutte quella che provvede a "riconoscere e garantire i c.d. diritti inviolabili" (art. 2). E', a dir il vero, discusso se la posta dall'art. 2 possa estendersi fino a comprendere i diritti di autonomia privata dei singoli ed in particolare quelli relativi all'esercizio dell'autonomia contrattuale. Non importa, nondimeno, qui, cercare soluzioni essendo sufficiente, invece, sottolineare, che al di la' del carattere di inviolabilita', esiste una norma di rango costituzionale che riconosce a ciascun privato la "liberta' di iniziativa economica" (art. 41 della Costituzione). Il precetto pone in luce il carattere funzionale dell'attivita' economica privata e conduce a configurarla in termini di discrezionalita'. Per essere tale essa deve cioe' "consentire al suo titolare margini di autodecisione, affinche' possa operare delle scelte che offrano un minimo di appagamento dell'interesse che le alimenta". Unico limite posto all'autonomia privata ed all'iniziativa economica e' il "contrasto con l'utilita' sociale", solo in questo caso la legge potra' comprimerla funzionalmente, ponendovi dei limiti. E' appena il caso di sottolineare che se il principio, di cui all'art. 41, primo comma, regola l'attivita' dell'imprenditore e la destinazione, da parte di questi, di capitali al processo produttivo, esso disciplina anche la liberta' di ciascun singolo di stipulare un contratto di lavoro subordinato con l'imprenditore, nonche' di risolverlo secondo le norme vigenti. Rientra, inoltre, nell'autonomia contrattuale di ciascuno la facolta' di trasferire ad altro soggetto frazioni della propria autonomia, delegando a questi il potere di compiere, in nome proprio, atti e negozi giuridici. E cio' che accade, naturalmente, nel caso dei lavoratori subordinati che attraverso il mandato sindacale conferiscono all'associazone sindacale di appartenenza il potere di stipulare contratti con le corrispondenti associazioni di imprenditori, al fine di dare regolamentazione al contratto di lavoro individuale. Che, nondimeno, il potere di conferire il mandato per la regolamentazione di proprii interessi nell'ambito del contratto di lavoro costituisca una facolta' e non un obbligo per i singoli e' confermato dal primo comma dell'art. 39 della Carta fondamentale, che sancisce il principio della liberta' dell'organizzazione sindacale. E' pacifico, infatti, che la norma, in antitesi con l'ideologia corporativa, abbia opposto non solo il pluralismo sindacale all'unicita' del sindacato, ma anche la piena autonomia di determinazione in ordine all'iscrizione o alla non iscrizione alle associazioni sindacali, all'obbligo di appartenenza al sindacato. Solo nell'ipotesi di attuazione del terzo e del quarto comma, dell'art. 39 della Costituzione, il legislatore costituente ha disposto il superamento dello schema del mandato, subordinando l'autonomia negoziale ai risultati della contrattazione collettiva, anche al di fuori di qualunque negozio di rappresentanza fra singolo e sindacato stipulante. La validita' erga omnes della contrattazione collettiva viene fatta discendere da due requisiti fondamentali: la costituzione di una rappresentanza unitaria in proporzione dei soggetti iscritti e la registrazione dei sindacati condizionata alla formazione di un ordinamento interno a base democratica. Fatte queste precisazioni ovvie ma necessarie, sorgono due quesiti ai quali occorre dare risposta. Il primo riguarda i limiti della contrattazione collettiva. Bisogna cioe' chiedersi se il complesso delle norme costituzionali dettate in materia di autonomia negoziale e di liberta' sindacale autorizzi a ritenere che attraverso il conferimento del mandato sindacale il lavoratore attribusca all'associazione sindacale di appartenenza tutti i poteri e le facolta' inerenti il contratto di lavoro. Va detto subito che la risposta deve essere di segno almeno parzialmente negativo. Non vi e' dubbio, infatti, che il potere di stipulare il contratto di lavoro, cosi' come quello di risolverlo con le dimissioni, o di impugnare l'eventuale licenziamento non rientrino nell'ambito dei poteri esercitabili dal sindacato, in forza del mandato che lo autorizza a contrattare collettivamente. Si tratta di liberta' che appartengono al singolo e che non sono astrattamente e preventivamente trasferibili ad un soggetto che le eserciti in luogo del titolare. D'altra parte, le associazioni sindacali, nei limiti di cui al quarto comma dell'art. 39, sono chiamate dalla Costituzione, a stipulare collettivamente contratti di lavoro e, quindi, esula strutturalmente e funzionalmente dai loro compiti qualsiasi negozio destinato a produrre effetti nei confronti di un singolo rapporto di lavoro. L'ambito nel quale la norma costituzionale attribuisce alle associazioni sindacali il potere di contrattazione dei diritti dei singoli riguarda, quindi, esclusivamente la regolamentazione dei contratti di lavoro. Cio' significa, in altre parole, che la contrattazione collettiva potra' involgere clausole relative alla misura della prestazione lavorativa, alle sue caratteristiche, alla controprestazione retributiva, ad altre eventuali controprestazioni e, se posto in contrattazione al potere disciplinare dell'imprenditore, nonche' a tutto quant'altro attenga al contenuto del contratto di lavoro ed alla sua esecuzione. Non e', ovviamente, impossibile per le associazioni sindacali (cosi' come per qualunque terzo mandatario) stipulare patti su oggetti differenti, tuttavia, perche' accordi in materie diverse da quelle relative alla regolamentazione del contratto di lavoro possano esplicare efficacia nei confronti dei soggetti cui sono rivolte occorre un mandato ad hoc da parte di questi o una loro valida ratifica successiva. Esclusa, pertanto, la possibilita' di regolamentazione contrattuale a livello collettivo delle vicende di formazione e di risoluzione del contratto individuale, va valutata la possibilita' per la contrattazione collettiva di creare regole in materia di risoluzione del contratto di lavoro, come sono quelle relative agli accordi sui licenziamenti collettivi, idonee ad incidere su posizioni soggettive dei singoli al di la' dell'esistenza di un mandato ad hoc. Vanno introdotte, a questo punto, alcune precisazioni. Il potere di risolvere il contratto di lavoro da parte dell'imprenditore rientra fra le liberta' di iniziativa economica garantite dall'art. 41 primo comma della Costituzione. In relazione ad esso, tuttavia, ed in considerazione degli interessi su cui tale potere e' destinato ad operare, il legislatore ha posto dei limiti di utilita' sociale, imponendo all'imprenditore di condizionare l'esercizio del proprio diritto alla risoluzione del rapporto alla sussistenza di particolari presupposti sia in condizioni di normalita' (giusta causa giustificato motivo), che in condizioni di crisi dell'impresa. In particolare, in questo secondo caso, ha previsto con la legge n. 223/1991 l'onere di attivare una particolare procedura al fine di esercitare il recesso collettivo ed ha stabilito dei limiti entro i quali il potere di recesso dell'imprenditore e' legittimo ed oltre i quali il suo esercizio puo' venire sanzionato con la comminatoria dell'invalidita' degli atti di licenziamento e con la reintegrazione dei lavoratori. Detti limiti riguardano, com'e' noto, i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare. La norma di cui all'art. 5, della legge n. 223/1991 stabilisce che tali criteri possono essere stabiliti dai contratti collettivi. Qualora siffatti accordi dovessero mancare interverebbero a condizionare il potere di recesso dell'imprenditore i criteri previsti dalle lettere a), b) e c) della stessa norma. Il meccanismo in questo modo predisposto dal legislatore consente, dunque, che un soggetto sostituisca pattiziamente il limite posto dalla legge all'esercizio di un suo diritto, con un altro e diverso limite. Il diritto di recesso, compresso, anziche' nel senso indicato dalla legge, nel senso indicato dal contratto, verra' cosi' esercitato nei confronti dei soggetti da licenziare (anche, ed anzi probabilmente, diversi da quelli che avrebbero sopportato il licenziamento secondo i criteri normativi). Ora, cio' che occorre chiedersi e' proprio se una simile pattuizione rientri fra le attivita' di contrattazione collettiva nel senso voluto dall'art. 39 della Costituzione e nei limiti di cui all'art. 41, primo comma. Al di la' della mancata attuazione del terzo e del quarto comma dell'art. 39, condizione indispensabile all'estensione erga omnes degli effetti della contrattazione collettiva, su cui si tornera' piu' tardi, deve ritenersi che siffatto tipo di pattuizione esuli del tutto dalle materie che possono formare oggetto della stessa contrattazione collettiva. Ci si potrebbe fermare alla semplicistica considerazione che un accordo, avente ad oggetto la definizione dei criteri di recesso dai singoli rapporti di lavoro, non puo' essere considerato "contratto collettivo di lavoro" ai sensi del quarto comma cit., riguardando la risoluzione e non la regolamentazione dei rapporti di lavoro, sostenendo che la contrattazione collettiva puo' avere ad oggetto solo il come del contratto di lavoro e non anche il se. Ma e' bene andare oltre. Per ammettere che le associazioni sindacali possano stipulare accordi modificativi delle condizioni di esercizio del potere di recesso dell'imprenditore occorrerebbero due condizioni. Da un lato, sarebbe necessario immaginare che, attraverso l'iscrizione all'associazione sindacale, ogni singolo conferisca ad essa non solo il potere di stipulare accordi per la regolamentazione del proprio contratto di lavoro, ma anche il potere astratto di sacrificare in futuro la propria posizione soggettiva in favore, della posizione soggettiva altrui, fino all'estrema conseguenza della risoluzione del proprio contratto di lavoro in luogo di quello di altro soggetto, sulla base di una semplice valutazione compiuta dal mandatario, o nel migliore dei casi da un'assemblea di altri iscritti al sindacato con interessi confliggenti rispetto al soggetto il cui diritto viene sacrificato. L'associazione sindacale, in tal modo, diverrebbe titolare anche dei diritti del singolo inerenti la risoluzione del rapporto di lavoro, potendo addirittura rinunciare al diritto alla prosecuzione del rapporto in luogo del lavoratore. Benche', infatti, sia l'imprenditore ad operare concretamente il recesso, e' il sindacato a poter offrire, in sede di accordi, come controprestazione quella particolare posizione soggettiva (o quel tipo di posizioni), in cambio di un'altra che appaia allo stesso sindacato piu' degna di tutela. D'altro lato, per rendere operativo un simile meccanismo in cui le associazioni sindacali (pur rimanendo associazioni non riconosciute) pattuiscano liberamente il sacrificio di posizioni soggettive singole o, nel migliore dei casi, di tipi di posizioni soggettive, occorrerebbe anche una piena disponibilita' dei diritti inerenti al rapporto di lavoro quantomeno in capo ai singoli lavoratori. Ma e' dubbio che l'ordinamento permetta al lavoratore di rinunciare aprioristicamente, e cioe' al momento del conferimento del mandato sindacale, al suo diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro, consentendo un futuro sacrificio della propria posizione soggettiva in favore di altro soggetto-lavoratore, cosi' come non gli e' consentito rinunciare, a priori, al momento della stipulazione del contratto di lavoro individuale, ed a favore del datore di lavoro, al futuro esercizio del diritto alle dimissioni o all'impugnazione dell'eventuale licenziamento. Se cosi' stanno le cose, tuttavia, solo difficilmente si puo' immaginare che l'associazione sindacale possa abdicare in ordine a diritti cui neanche al titolare e' consentito di disporre liberamente. Ora, non solo un simile mandato non e' di fatto attribuito attraverso la delega sindacale, ma neppure in regime di completa attuazione dell'art. 39 della Costituzione (qualora i sindacati avessero provveduto alla registrazione, ottenendola in forza del loro ordinamento democratico, e avessero, altresi' formato delle rappresentanze unitarie) cio' sembrerebbe possibile. D'altra parte, un siffatto assetto del rapporto fra associazioni sindacali e lavoratori iscritti sembra del tutto incompatibile anche con una lettura dell'art. 41 della Costituzione come quella cui si e' fatto riferimento piu' sopra. Nessun margine di autodecisione (e quindi di autonomia), al fine di ottenere l'appagamento dei proprii interessi, puo' riconoscersi in capo al lavoratore il quale, laddove scelga di essere tutelato dal sindacato nella contrattazione delle clausole del proprio contratto di lavoro, sia costretto a delegare al sindacato anche le eventuali decisioni in ordine alla rinuncia alla prosecuzione del rapporto di lavoro, con sacrificio della propria posizione soggettiva in favore di quella altrui. Questo ordine di idee, tuttavia, rappresenta il presupposto logico in forza del quale il legislatore deve aver dettato la norma di cui all'art. 5, primo comma, della legge n. 223/1991. Ma, quando anche si ritenesse compatibile con i precetti costituzionali la possibilita' per le associazioni sindacali di stipulare accordi con effetto sostanzialmente dismissivo di diritti dei lavoratori iscritti, occorrerebbe poi spiegare, alla luce della lettera dell'art. 39 della Costituzione, in quale modo accordi di siffatto contenuto possano spiegare effetti anche nei confronti di soggetti non iscritti all'associazione sindacale stipulante, o peggio ancora, di soggetti iscritti ad altra associazione sindacale. Ed e' questo il secondo quesito. Vale la pena di ripetere che il licenziamento collettivo, nell'ottica del legislatore, ed anche in quella della ragionevolezza, e' una vicenda sostanzialmente unitaria. Va da se', allora, che la disposizione di cui all'art. 5 della legge n. 223/1991 ha inteso estendere a tutti i lavoratori interessati gli effetti del contratto, indipendentemente da ogni valutazione circa l'esistenza di un mandato fra loro ed il sindacato con cui e' perfezionato l'accordo. Accade, tuttavia, in questo modo, curiosamente, che un patto fra due soggetti esplichi i suoi effetti non soltanto nei confronti dei mandanti dei soggetti stipulanti, ma anche nei confronti di terzi che nessun rapporto giuridico lega a coloro che hanno perfezionato il contratto. Si tratta di situazione del tutto anomala e che non puo' non de- stare perplessita' ove si consideri anche che i terzi subiscono (in quanto rientrino fra i licenziandi secondo i criteri del contratto), dall'accordo stipulato fra altri soggetti, solo effetti nocivi. Cio' in piena contraddizione con il principio della relativita' contrattuale e dell'intangibilita' della sfera giuridica individuale, che non puo' essere modificata da atti negoziali altrui siano essi vantaggiosi o svantaggiosi. E, dunque, in aperta violazione non solo dell'art. 39 della Costituzione, ma altresi' dell'art. 41 primo comma e dell'art. 3 della Costituzione. Non puo' sfuggire, infatti, da un lato la violazione della liberta' di iniziativa economica del singolo costretto a subire gli effetti di un negozio altrui e, dall'altro, la diseguaglianza insita in una norma che imponga ad un soggetto di sopportare una siffatta compressione dei proprii diritti a tutto vantaggio del soggetto che stipula l'accordo, o meglio, del suo mandante. Ma le perplessita' possono diventare inquietudini nelle ipotesi in cui a subire gli effetti di un accordo stipulato con una certa organizzazione sindacale sia il soggetto che ha conferito ad altra associazione il proprio mandato sindacale. Non si vede proprio in che modo, in un caso simile, divenga possibile estendere al lavoratore che ha conferito mandato ad un soggetto per la regolazione dei proprii interessi, gli effetti di un contratto stipulato dal mandatario di un terzo. Occorre, inoltre, sottolineare che fino ad oggi la giurisprudenza di legittimita', e' andata in senso opposto a quello voluto dal legislatore della legge n. 223/1991, escludendo espressamente che i contratti collettivi si applichino a soggetti non iscritti alle organizzazioni stipulanti, in particolare in tema di licenziamenti collettivi (sotto il regime previgente: Cass. sez. lav. 2 febbraio 1983, n. 885; Cass. sez. lav. 12 gennaio 1983 n. 211; Cass. sez. lav. 3 maggio 1984, n. 2710; Cass. sez. lav. 11 agosto 1977, n. 3724; Cass. sez. lav. 15 giugno 1977, n. 2492). Le sole ipotesi di pacifica estensione giurisprudenziale, del contenuto di contratti collettivi a soggetti non iscritti alle organizzazioni stipulanti, riguardano, infatti, i casi determinazione quantitativa delle retribuzioni ed avvengono in forza della immediata precettivita' dell'art. 36 della Costituzione, sulla base di una presunzione di sufficienza ed adeguatezza della previsione collettiva. D'altro canto, la mancata attuazione dell'art. 39 della Costituzione non lascia spazio ad operazioni esegetiche di diverso contenuto. Occorre, allora, definitivamente concludere per la necessita' di sollevare d'ufficio la questione di legittimita' costituzionale, in relazione agli artt. 3, 39 e 41 della Costituzione dell'art. 5, primo comma, della legge 23 luglio 1991, n. 223.