IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA Emette la seguente ordinanza nel procedimento di sorveglianza relativo alla concessione di aff. in prova quarto comma all'udienza del 2 marzo 1993; Premesso che il detenuto Scagliari Giorgio nato il 4 ottobre 1934 a Padova, elett. domiciliato c/o avv. Durante, via Garibaldi n. 53 in espiazione pene anni quattro, mesi quattro, di reclusione inflittegli con sentenza 4 dicembre 1991 della corte di appello di Torino difeso dall'avv. di fiducia Durante del Foro di Torino; Visto il parere rinviarsi del P.G.; Visti gli atti del procedimento di sorveglianza sopra specificato; Verificata, preliminarmente, la regolarita' delle comunicazioni relative ai prescritti avvisi al rappresentante del p.m., all'interessato ed al difensore; Considerate le risultanze delle documentazioni acquisite, delle investigazioni e degli accertamenti svolti, della trattazione e della discussione di cui a separato processo verbale; SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Scagliari Giorgio veniva condannato ad anni cinque e mesi quattro di reclusione per i reati di cui agli articoli 81, 110, 519, 521 del c.p. con sentenza 28 febbraio 1991 del gip. di Torino. La sentenza, dichiarava condannati, ai sensi dell'art. 1 e segg. del d.P.R. n. 394/90, anni due di reclusione. In data 4 dicembre 1991 la corte di apello di Torino in parziale riforma della citata sentenza, assolveva lo Scagliari dal reato di cui all'art. 521 del c.p. e riduceva conseguentemente la pena ad anni quattro e mesi quattro di reclusione. Lo Scagliari presentava quindi istanza di affidamento in prova al servizio sociale e contestuale istanza di sospensione dell'ordine di esecuzione per la pena residua determinata, tenendo conto del condono e della custodia cautelare sofferta pari a mesi dieci e giorni 26, in anni uno, mesi cinque e giorni quattro di reclusione. Il presidente del tribunale di sorveglianza di Torino, valutata l'ammissibilita' dell'istanza e compiuta l'attivita' istruttoria, fissava per l'odierna udienza la discussione in camera di consiglio. All'ordierna udienza, presente il condannato, il p.g. e la difesa concludevano come da separato verbale. D I R I T T O Il caso che oggi viene all'esame del tribunale e' veramente sintomatico del quadro di inadeguatezza delle norme che attualmente regolano l'istituto dell'affidamento in prova al servizio sociale nella configurazione prevista al terzo e quarto comma dell'art. 47 ord. pen. Il profilo di incostituzionalita' dell'art. 47 dell'ordinamento penitenziario che il tribunale ritiene rilevante ai fini della decisione e che appare non manifestamente infondato e' quello relativo alla violazione dell'art. 3 della Costituzione da parte del legislatore che con l'art. 47 ord. pen., cosi' come modificato dall'art. 11 della legge 10 ottobre 1986 n. 633, ha introdotto la possibilita' di accedere al beneficio anche per colui che ha serbato in liberta' un comportamento tale da consentire un giudizio prognostico favorevole sul suo reinserimento ma ha omesso di dettare una disciplina organica e dettagliata dell'osservazione sul comportamento tenuto in liberta' dal condannato. E' opportuno qui richiamare, al fine di chiarire le peculiarita' dell'istituto nella configurazione che emerge dal terzo e quarto comma dell'art. 47 ord. pen., alcuni passi della sentenza della Corte costituzionale n. 569 del dicembre 1989 che costituiscono una preziosa traccia per ripercorrere la storia dell'affidamento in prova e per individuarne i caratteri salienti. Dice la Corte: "Guardando, infatti, alla delineazione dell'istituto cosi' come emergeva originariamente dalla legge 26 luglio 1975, n. 354, sembra evidente che il legislatore del tempo avesse inteso favorire ed accelerare il reinserimento sociale di chi, condannato a pena detentiva di un certo rilievo (fino a due anni e sei mesi o tre anni per gli infraventunenni od ultrasessantenni), avesse dimostrato durante l'osservazione della personalita', condotta da un collegio di esperti nell'istituto penitenziario per almeno tre mesi, di essere disponibile a collaborare con i preposti all'attuazione della finalita' rieducativa della pena. In tal caso, il condannato veniva ammesso ad espiare la residua pena in relativa liberta' e sotto il controllo del servizio sociale, ma sottoposto alle prescrizioni di cui agli artt. 5, 6 e 7 della legge, certamente limitative della sua facolta' di determinare la sua condotta in assoluta liberta'. Se la disponibilita' del condannato all'attivita' rieducativa del servizio sociale continuava per tutta la durata della residua pena, questa si estingueva assieme ad ogni altro effetto penale. Entro tali contorni la fisionomia dell'istituto risultava ben chiara: non si trattava di provvedimento premiale o di clemenza, ma di un esperimento penitenziario, condotto sotto altre modalita' di espiazione, per agevolare ed affrettare il reinserimento sociale del condannato, consentendogli di espiare la residua pena in condizioni di relativa liberta', e in affidamento al servizio sociale, favorendo la disponibilita' alla collaborazione rieducativa, di cui aveva dato prova durante l'osservazione degli esperti, nel corso dell'espiazione carceraria. Si trattava, dunque, di un istituto riservato ai condannati che si trovassero in espiazione carceraria della pena e che, come tali, potessero essere sottoposto in istituto alla speciale osservazione collegiale. Ma nel corso dei tempi l'istituto ha subito cosi' numerose ed importanti modificazioni, da doversi riconoscere l'attenuarsi di quei caratteri originari con la conseguente sostanziale trasformazione della sua stessa natura". Le principali modifiche sono state costituite dalla soppressione di alcune preclusioni in relazione a condanne per determinati reati, dalla diminuzione del periodo di osservazione da un mese a tre mesi e dall'introduzione dell'art. 47- bis che ha previsto una ipotesi speciale legata al reinserimento dei tossicodipendenti "ma .. fu poi l'art. 11 della legge 10 ottobre 1986, n. 633, che riformando ex novo l'intero testo dell'art. 47, fini' di compiere l'opera di progressiva demolizione attribuendo alla linea generale dell'istituto una natura ibrida e contraddittoria. A parte i limiti massimi che venivano unificati per tutti in anni tre, l'aspetto saliente e decisivo di quest'ultima riforma e' l'intima contraddizione nel carattere dell'istituto che veniva ad instaurarsi fra il primo e secondo comma del nuovo art. 47, da una parte, e il terzo e quarto comma dall'altra. I primi due commi, infatti, lasciavano sostanzialmente integro l'istituto originario, riservato ai detenuti in espiazione carceraria della pena, sia pure con la gia' vista riduzione ad un mese dell'oservazione collegiale della personalita'. Ma i due successivi commi introducevano una nuova specie di affidamento, che prescinde del tutto dall'osservazione collegiale in istituto spostandola invece sul comportamento che il condannato ha tenuto nel periodo di liberta' ..". Si tratta quindi di una deroga che fa dell'affidamento previsto nei commi terzo e quarto una specie diversa, in quanto esonera dalla previa situazione di espiazione carceraria colui che, in liberta', abbia tenuto un comportamento tale da consentire un giudizio prognostico favorevole in termine rieducativi. La Corte specifica testualmente: "la realta' e' che, come si verifica sostanzialmente nell'affidamento del tossicodipendente, cio' che conta veramente e' il giudizio sul comportamento tenuto in liberta'". La legittimita' dell'istituto non viene qui contestata, d'altra parte la Corte gia' si e' pronunciata sul punto dichiarando: " .. non sussiste la lamentata lesione del principio d'eguaglianza, in quanto la previsione di diversi presupposti per la concessione dell'affidamento in prova (valutazione del comportamento tenuto in liberta', da un lato, osservazione in istituto, dall'altro) assolve all'esigenza di disciplinare in modo differenziato le diverse situazioni (stato di liberta' o stato di detenzione) in cui puo' versare il condannato al momento della presentazione della domanda di affidamento in prova; .. non e' irrazionale che il comportamento del condannato ancora in stato di liberta' sia valutato sulla base dei comportamenti tenuti in liberta'" (Corte costituzionale ord. n. 482/1990). Cio' che in questa sede si rileva come costituzionalmente illegittima e' la totale assenza di disciplina nel commisurare la valutazione circa la concedibilita' del beneficio al comportamento tenuto in liberta'. Il "nuovo" e diverso istituto dell'affidamento in prova capovolge completamente la struttura della misura alternativa prevista dalla legge n. 354/1975. Come si e' dianzi evidenziato il fulcro dell'istituto nella sua configurazione originaria e' rappresentato dal trattamento penitenziario e dall'osservazione svolta in istituto mentre nel caso dell'affidamento in prova introdotto ai commi terzo e quarto dell'art. 47 con la legge n. 633/1986 l'elemento centrale, sia ai fini dell'osservazione sia ai fini del trattamento rieducativo, e' costituito "dal comportamento tenuto in liberta'". Questa differenza di presupposti di fatto si riflette in una fondamentale differenza di disciplina. Invero la legge del 1975 accanto alla previsione normativa dell'istituto disciplina in modo organico il trattamento penitenziario nonche' l'osservazione agli artt. 13 e 15 e agli artt. 26, 28 e 29 del regolamento. In dette norme sono indicati: a) gli elementi trattamentali; b) gli strumenti dell'analisi del detenuto; c) i soggetti qualificati per esaminare tutto il materiale dell'attivita' trattamentale; d) il tribunale di sorveglianza che decide su questa documentazione. Per l'affidamento in prova previsto al terzo e quarto comma l'unico riferimento normativo e' rappresentato dalle espressioni "l'affidamento in prova puo' essere disposto senza procedere all'osservazione in istituto quando il condannato .. ha goduto di un periodo di liberta' serbando un comportamento tale da consentire il giudizio di cui al precedente comma". E' vero che lo stato di liberta', essendo situazione oggettivamente diversa, legittima un diverso trattamento, tuttavia non legittima una totale assenza di disciplina dell'osservazione del comportamento del condannato libero. Nelle due configurazioni dell'istituto diverse sono le situazioni di base, identiche sono le finalita', uguali sono i canoni di giudizio, i parametri di valutazione: in entrambi i casi il giudice deve formulare un giudizio prognostico riguardo alla rieducabilita' e al rischio di recidiva, ma, nell'ipotesi del terzo e quarto comma, non e' disciplinata in alcun modo l'analisi, l'osservazione del comportamento tenuto in liberta'. Per l'art. 47, primo e secondo comma, vi e' una precisa disciplina, il giudice decide in merito all'istanza dopo aver acquisito e valutato i dati di una penetrante indagine svolta da un collegio di esperti che per almeno un mese ha osservato la personalita' del detenuto ed ha indagato sul contesto sociofamiliare di provenienza e di futuro inserimento. Nella disciplina introdotta con la legge n. 354 l'istituto assolve ad una funzione eminentemente rieducativa della pena (art. 27 della Costituzione) attraverso idonei strumenti quali: a) il trattamento penitenziario del detenuto affidato ad un gruppo di osservatori professionalmente preparati (educatori, psicologi, assistenti sociali, direttore dell'istituto), b) il giudizio formulato sul conto del detenuto dal predetto gruppo di osservazione, c) il giudizio del tribunale fondato su elementi significativi che riguardano la personalita' del detenuto e le risposte che costui ha dato nel corso dell'espiazione della pena alle offerte trattamentali. Al contrario per l'affidamento in prova previsto al terzo e quarto comma la decisione in merito all'istanza ha come presupposto "l'osservazione imprescindibile della personalita' del soggetto mentre e' libero". L'oggetto del giudizio che deve essere formulato dal tribunale di sorveglianza si sposta su elementi acquisiti del tutto al di fuori del circuito penitenziario. Il giudizio sul comportamento tenuto in liberta' dal condannato e' il presupposto logico per accedere alla seconda fase del giudizio: la formulazione di una prognosi favorevole al reinserimento sociale e alla mancata reiterazione di comportamenti criminosi. Proprio sulla prima fase del giudizio si fonda la sperequazione tra i due casi di affidamento in prova. E' evidente che la situazione di liberta' determina la necessita' di apprestare mezzi diversi per procedere all'osservanza del comportamento del condannato ma ad un attento esame del quadro normativo non emergono norme che disciplinino detta osservazione ed in particolare il tempo, le modalita', gli strumenti, i soggetti che devono effettuare l'osservazione del comportamento tenuto in liberta'. Il legislatore non ha stabilito: quale e' il periodo di tempo da prendere in esame e da sottoporre ad osservazioni (questo problema si riscontra soprattutto nel caso in cui non vi sia stato un periodo di custodia cautelare); quali sono le modalita' di tale osservazione: se ci si deve limitare a sottolineare l'assenza di rilievi negativi, se vanno cercati indici positivi di reinserimento sociale o se devono essere richiesti atteggiamenti attivi volti per esempio a risarcire il danno; quali sono gli strumenti a disposizione per l'indagine, dal momento che risulta particolarmente problematico controllare su tutto il territorio nazionale il comportamento del soggetto condannato; quali sono i soggetti preposti all'osservazione? Solitamente si tratta di agenti di p.g. della zona di residenza dell'interessato e talvolta assistenti sociali del C.S.S.A. Tali lacune del sistema normativo nel prevedere l'affidamento in prova direttamente dalla liberta' appaiono particolarmente evidenti in casi come quello che oggi e' all'esame del tribunale. Nei casi in cui il tipo di reato richiede una piu' approfondita indagine psicologica ed un piu' approfondito accertamento circa l'abbandono di scelte devianti, l'istituto dell'affidamento direttamente dalla liberta' manifesta le maggiori lacune. In tale casi i maggiori approfondimenti istruttori si hanno con la lettura della sentenza che peraltro attesta una situazione storica passata mentre non affronta, chiaramente, un problema prognostico relativo alla personalita' del soggetto. Le carenze istruttorie si evidenziano nel momento, in cui si tratta di valutare l'evoluzione della personalita' del soggetto in relazione alla condotta serbata in liberta'. Non vi e' dubbio che l'eventuale periodo di liberta' costituisce un valido "banco di prova" per il condannato che intenda reinserirsi fattivamente nel tessuto sociale. Peraltro difficilmente l'indagine del Tribunale riesce a spingersi oltre al semplice dato di fatto costituito dall'assenza di reiterazione di condotte criminose. Il tribunale si chiede se di fronte a reati cosi' gravi come la violenza carnale sui minori il giudizio possa fondarsi sulla semplice assenza di rilievi negativi o se debbano invece emergere documentati indici positivi di reinserimento e di abbandono di scelte devianti. Non si possono non evidenziare, quindi, i limiti e le carenze dell'osservazione sul comportamento tenuto in liberta' dal condannato. In particolare con riferimento alle informazioni acquisite dagli organi di polizia risulta assai difficile delineare un quadro sufficientemente certo sullo stile di vita condotto dal soggetto successivamente alla commissione del reato ed alla eventuale scarcerazione dalla custodia cautelare. Nell'esperienza si e' avuto modo di rilevare l'insufficienza delle informazioni fornite dai predetti organi di polizia, informazioni che spesso si riducono a mere formule di stile all'incirca di questo tenore: "Dagli atti di questo ufficio risulta che il soggetto successivamente al commesso reato abbia serbato regolare condotta non incorrendo ulteriormente nei rigori della legge". D'altra parte non si puo' fondatamente muovere alcun addebito agli organi di polizia chiamati a riferire elementi significativi sul conto di persone che dopo la scarcerazione conducono una esistenza al di fuori di qualsiasi controllo. Del pari l'indagine socio familiare, pur offrendo un quadro di massima sul contesto familiare e ambientale, non consente, da un lato di approfondire un profilo psicologico del soggetto dall'altro, per i limiti connessi alla figura e alla funzione dell'assistente sociale incaricato di acquistare elementi significativi in punto pericolosita' sociale e rischio di recidiva. Alla luce della scarsa significativita' degli elementi cosi' acquisiti al termine dell'istruttoria e' difficile se non addirittura impossibile formulare un giudizio prognostico. E' opportuno evidenziare a questo proposito il diverso ruolo che svolge il tribunale di sorveglianza nei due casi di affidamento in prova e il diverso fondamento che puo' avere il giudizio sulla meritevolezza del beneficio. Invero il tribunale chiamato a giudicare su elementi spesso scarsamente significativi e su informazioni talvolta superficiali risulta del tutto delegittimato nella sua delicata funzione. Se si pone a confronto la disciplina precisa e rigorosa, fondata su basi scientifiche che prelude alla concessione dell'affidamento in prova secondo la normativa stabilita dalla legge del 1975 con la disciplina prevista per l'ipotesi di cui al terzo e quarto comma non si puo' non evidenziare la profonda differenza nella posizione che viene ad assumere il tribunale di fronte alla decisione. Orbene l'avere previsto che un organo giudicante composto da due magistrati ordinari e da due esperti in psicologia e criminologia debbano formulare un giudizio su di una persona condannata per violenza carnale ad anni quattro e mesi sei di reclusione, sulla base di una certificazione di nuona condotta rilasciata da un assistente sociale o da una agente di P.S. significa delegittimare il tribunale di sorveglianza nelle sue funzioni di organo giudicante. Il tribunale non ha modo di conoscere il condannato se non attraverso la scarna documentazione precedentemente descritta, e spesso, come nel caso in esame, il condannato non si presenta in udienza rendendo impossibile in tal modo anche una valutazione diretta da parte degli esperti e del tribunale nel suo complesso. Il legislatore con la riforma dell'anno 1975 ha ritenuto necessario ed opportuno che una parte delle pene detentive messe in esecuzione fossero espiate in carcere, ed una parte in liberta' ed ha cosi' istituito le misure alternative della semiliberta' e dell'affidamente in prova al servizio sociale. Il compito di stabilire se il soggetto sia meritevole o meno di detti benefici e' affidato ad un organo collegiale di cui fanno parte, a ragion veduta, una psicologo ed un criminologo. Il tribunale cosi' composto esercita le sue funzioni di organo giudicante in modo appropriato e consono alla sua natura in quanto analizza una serie di elementi: a) una relazione psicologica del condannato; b) una relazione comportamentale con riferimento al periodo prima, durante e dopo il delitto; c) le sue risposte alle attivita' trattamentali realizzate durante la detenzione; d) la condotta durante la fruizione di permessi premiali; e) la relazione socio-familiare. I quattro giudici possono pertanto esprimere al massimo grado la loro professionalita' nella disamina, nel confronto nell'analisi di questo significativo materiale probatorio. Per conto questo quadro normativo si e' notevolmente modificato con l'introduzione dell'affidamento in prova al servizio sociale senza osservazione in istituto. Invero il tribunale, di fronte a casi di notevole gravita' e di rilevante allarme sociale, si trova del tutto sprovvisto di elementi per valutare da un lato il percorso risocializzante gia' compiuto in liberta' dal condannato e dall'altro lato per formulare una prognosi di non recidivita'. Le lacune sopra evidenziate paiono ancora piu' evidenti sol che si ponga a confronto l'istituto previsto al terzo e quarto comma dell'art. 47 ord. pen. con altri casi in cui il legislatore si e' posto il problema di valutare il comportamento tenuto in liberta' da parte di una persona condannata, casi in cui sono state dettate regole ben precise. Si consideri per esempio la dettagliata disciplina della riabilitazione la dove il legislatore all'art. 179 C.P., la cui rubrica recita "condizioni per la riabilitazione", ha dettato una disciplina precisa sul termine, sulla sua decorrenza, sul requisito della buona condotta, sulla presenza di elementi positivi quali l'adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato, sull'assenza di elementi negativi quali l'attuale sottoposizione a misure di sicurezza. E' altresi' da sottolineare il fatto che l'istituto della riabilitazione presuppone che la pena sia gia' stata scontata e che il soggetto abbia gia' saldato il suo debito nei confronti dello Stato e della collettivita'. A maggior ragione ci si chiede se non dovrebbe essere disciplinata l'osservazione del comportamento tenuto in liberta' nel caso in cui si tratti di dover ancora espiare una pena spesso relativa a reati di notevole gravita' come nel caso oggi all'esame del Tribunale. Si consideri, ancora, l'ipotesi di affidamento in prova di cui all'art. 47- bis O.P. In virtu' di tale disposizione i soggetti tossicodipendenti o alcooldipendenti che abbiano in corso un programma di recupero presso le strutture sanitarie e le comunita' terapeutiche possono ottenere l'affidamento in prova senza tornare in carcere. Con questa opportunita' si da' rilievo e significato ad una attivita' trattamentale compiuta al di fuori del carcere per soggetti liberi da personale professionalmente qualificato, dotato di strutture idonee e che si avvale di metodo scientifico. Il presupposto fondamentale di tale istituto e' pertanto costituito da una documentata e valida opera trattamentale compiuta da strutture pubbliche (USSL) ovvero da comunita' terapeutiche. In queste ipotesi gli elementi su cui il tribunale e' chiamato a pronunciarsi assumono un contenuto decisamente piu' pregnante. Diversamente nell'ipotesi dell'affidamento in prova disciplinato al terzo e quarto comma dell'art. 47 non e' prevista alcuna forma di trattamento al di fuori del carcere nei confronti del condannato libero. Per queste ragioni si rileva una disparita' di trattamento tra chi richiede il beneficio assendo in carcere e chi richiede il beneficio essendo in liberta'. Questi dati indicano con chiarezza l'esigenza di un intervento del legislatore per controllare un tale fenomeno che ha una grande influenza sull'intero sistema sanzionatorio e sulla funzione stessa del sistema penale. D'altra parte la stessa Corte costituzionale nella gia' citata sentenza n. 569 del 1989 ha concluso dicendo: "vedra' poi il legislatore se non sia opportuno a questo punto dare all'intera normativa un coordinamento piu' sistematico".