IL TRIBUNALE
    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  sull'istanza  di  Hakimi
 Elkbir,  nato  a  Fqui  Ben  Salah  (Marocco)  il  29  gennaio  1961,
 attualmente  sottoposto  alla  misura  cautelare  della  custodia  in
 carcere, avanzata ai sensi dell'art. 7, commi 12-bis e  12-ter  della
 legge  28  febbraio  1990, n. 39, cosi' come aggiunti dell'art. 8 del
 d.l. 14 giugno 1993, n. 187.
    Hakimi Elkbir e' sato condannato con sentenza di primo grado  (non
 definitiva)  di questo tribunale in data 16 giugno 1993, alla pena di
 anni nove di reclusione per i reati di  ratto  a  fine  di  libidine,
 violenza  carnale ed atti di libidine, commessi in concorso con altri
 due connazionali.
    In data 20 giugno 1993  l'imputato,  attualmente  sottoposto  alla
 misura  cautelare  della  custodia  in carcere, presentava istanza di
 espulsione ai sensi dell'art. 7 della legge 28 febbraio 1990, n.  39,
 cosi' come modificato dal decreto-legge 14 giugno 1993, n. 187.
    Esperiti  gli accertamenti di rito previsti da tale norma (in data
 2 luglio 1993 la difesa produceva passaporto in corso di  validita'),
 il  tribunale,  sentito  il  pubblico ministero (nessun intervento e'
 stato proposto  dalla  parte  civile),  ritiene  di  dover  sollevare
 d'ufficio  la  questione  di  legittimita' costituzionale della norma
 predetta, per palese irragionevolezza, nella parte in cui imponga  al
 giudice procedente, su richiesta dello straniero o del suo difensore,
 e fatta salva la sussistenza delle esigenze e delle ragioni ivi indi-
 cate,  di disporre l'immediata espulsione nello Stato di appartenenza
 o di provenienza dello straniero sottoposto a  misura  cautelare  per
 reati diversi da quelli di cui all'art. 275, terzo comma, del c.p.p.
    La  questione  e'  rilevante nel caso di specie, posto che i reati
 per i quali l'imputato Hakimi Elkbir e'  stato  condannato  in  primo
 grado non sono ricompresi nella disposizione della predetta norma.
    Va  in  via preliminare ricordato che la Corte costituzionale, con
 la  sentenza  in  data  3  giugno  1983,  n.  148,  ha  affermato  la
 possibilita',  per  il  giudice  a  quo,  di  sollevare  questione di
 legittimita' costituzionale anche delle norme penali  di  favore;  il
 fatto  che  tali  norme,  se di natura sostanziale (sul punto si veda
 infra per il caso di specie), debbano comunque essere applicate,  non
 implica   che   la   questione   di  legittimita'  delle  stesse  sia
 irrilevante, posto che intendere la rilevanza  come  pregiudizialita'
 rispetto  all'esito  concreto  del  giudizio a quo comporterebbe come
 conseguenza la pratica inibizione del sindacato da parte della  Corte
 e   la   creazione  di  zone  "franche"  nell'ordinamento  del  tutto
 impreviste dalla Costituzione.
    La Corte ha quindi affermato che ad essa spetta  il  controllo  di
 legittimita'  costituzionale  di  tutte le norme dell'ordinamento, ed
 anche delle norme  penali  di  favore,  in  quanto  parte  integrante
 dell'ordinamento giuridico, mentre e' compito del giudice rimettente,
 in  sede  interpretativa,  decidere  quale sia la reazione del sisema
 all'annullamento di tale tipo di norme.
    La valutazione della posizione dello straniero, per  come  risulta
 dalla  lettera  della  legge  in  questione,  appare arbitraria e non
 sorretta da criteri logici e razionali, il  che  e'  sufficiente  per
 affermare che la norma urta con il principio di uguaglianza enunciato
 nell'art.  3  della Costituzione, il quale sostanziamente afferma che
 tutti i soggetti sono posti in posizione di perfetta uguaglianza, per
 quanto riguarda la qualita' e lo status (nella  specie,  di  imputato
 sottoposto  alla  misura  cautelare)  e  che  soltanto  differenze di
 capacita' possono creare diseguaglianze.
    Gia' la Corte costituzionale, con la sentenza in data 15  novembre
 1967,  n.  120,  ha  affermato  che,  se  e'  vero che l'art. 3 della
 Costituzione si riferisca espressamente ai soli cittadini,  e'  anche
 vero  che  il  principio  di  uguaglianza vale pure per lo straniero,
 quando trattasi di rispettare i diritti fondamentali di cui  all'art.
 2 della Costituzione.
    Il  predetto  principio di uguaglianza, pero', non puo' non valere
 anche quando, come nel caso di specie, agli stranieri sia concesso un
 trattamento privilegiato, come sopra ricordato.
    Il concetto di uguaglianza, si e' sostenuto in  dottrina,  suppone
 una  duplice  relazione:  si  e'  uguali a qualcuno od a qualcosa per
 qualcosa (l'elemento cioe' rispetto al quale si e' uguali). Ma essere
 uguali quanto all'uguaglianza non ha significato.
    In  assenza,  pertanto,  di  una motivata differenza di status, di
 qualita' o di capacita', appare evidente il contrasto con il disposto
 dell'art. 3 della Costituzione.
    Del tutto irragionevole ed immotivata  risulta  la  disparita'  di
 trattamento  del  cittadino  italiano  rispetto  allo  straniero,  in
 materia di esecuzione della custodia cautelare in carcere.
    La norma in esame di fatto attribuisce una particolare  condizione
 di   privilegio  allo  straniero  sottoposto  a  custodia  cautelare,
 permettendo  che  lo  stesso,  con  propria   determinazione,   possa
 sottrarsi al regime cautelare carcerario, chiedendo in alternativa di
 essere espulso dallo Stato.
    Ma  se  il  fine  della  misura  cautelare e' quello di assicurare
 esigenze  cautelari   (nella   specie,   quelle   di   tutela   della
 collettivita',  legate  al  pericolo  concreto  di reiterazione della
 condotta delittuosa, pericolo ancorato  alle  modalita'  di  condotta
 delittuosa,  pericolo ancorato alle modalita' di esecuzione dei reati
 per i quali l'imputato e' gia' stato condannato in primo grado),  non
 si  vede come possa supplire tale misura quella della espulsione che,
 proprio  per  sua  natura,  e'  legata  alla  pericolosita'   sociale
 dell'individuo.
    All'uopo  e'  opportuno  precisare  che la norma in questione, per
 quanto oggi ci riguarda, e dunque con riferimento alla  posizione  di
 colui  che  si  trova  in  stato  di custodia cautelare, e' di natura
 processuale e non sostanziale.
    Essa, infatti, non disciplina la esecuzione  della  pena,  la  sua
 entita'  afflittiva  e  la  finalita'  rieducativa  cui  questa  deve
 tendere, ma deroga - irragionevolmente - alla disciplina delle misure
 cautelari che attengono a finalita' preventive (reiterazione e  fuga)
 e   probatorie,  e  quindi  nel  complesso  a  cautele  di  carattere
 processuale, restringendone - arbitrariamente - la portata.
    Proprio  in   quanto   tale,   una   eventuale   declaratoria   di
 illegittimita' costituzionale della norma stessa non urterebbe con il
 divieto  di cui all'art. 25, secondo comma, della Costituzione, nella
 parte in cui afferma che nessuno puo' subire un trattamento deteriore
 in forza di una legge posteriore.
    E' infatti apodittico affermare che ogni norma che spiega  i  suoi
 effetti  anche  sulle  liberta'  personale e' di natura sostanziale e
 quindi con efficacia irretroattiva.
    Per esempio, la cassazione a sezioni unite (cass. 18  aprile  1992
 n.  8),  ritenendo legittimo il provvedimento della Corte d'assise di
 Palermo che aveva disposto il ripristino della custodia cautelare  in
 carcere a carico di un imputato, a seguito dell'entrata in vigore del
 d.l.  9  settembre  1991,  n.  292  (che  modificando l'art. 275 del
 c.p.p.,  ha  imposto  obbligatoriamente  la  custodia  cautelare  per
 determinati   reati),   ha   infatti   implicitamente   affermato  la
 retroattivita' di  una  norma  processuale  attinente  alla  liberta'
 personale.
    La  norma  in  oggetto,  inoltre,  in  primo luogo, nelle more del
 procedimento, pregiudica inevitabilmente  le  esigenze  di  carattere
 cautelare e, massime, quelle attinenti al concreto pericolo di fuga e
 di reiterazione.
    In  secondo  luogo,  a sentenza divenuta definitiva ed attivato il
 procedimento di  estradizione,  rende  meno  agevole  lo  stesso,  in
 quanto,  come gia' la Corte costituzionale, con la citata sentenza n.
 120/1967, aveva fatto notare, diversa e' la posizione dello straniero
 rispetto a quella del cittadino.
    "Quest'ultimo   puo',   e'  vero,  rendersi  latitante  o  recarsi
 all'estero, se non ne viene legittimamente impedito, ma resta  sempre
 soggetto alla sovranita' dello Stato, alla osservanza delle sue leggi
 ed  ai  mezzi  di  coercizione  che  le  leggi  consentono, mentre lo
 straniero puo' abbandonare il paese dove ha commesso il reato  e  non
 sempre  e non facilmente se ne puo' ottenere l'estradizione" (in tale
 occasione la  Corte,  giudicando  sulla  legittimita'  costituzionale
 dell'art.  139 della legge doganale 25 settembre 1940, n. 1424, aveva
 escluso che la imposizione della particolare misura  di  salvaguardia
 disposta  dalla  norma  a  carico  dello  straniero,  costituisse una
 illegittima discriminazione per lo straniero medesimo).
    Sotto questa prospettiva, essendo immutate le circostanze di fatto
 che la stessa Corte costituzionale poneva a base del suo iter  logico
 argomentativo,  ritiene il Tribunale che il trattamento di favore che
 la norma deferita riserva allo straniero urti palesemente  contro  il
 principio  di  uguaglianza  che  impone  di valutare allo stesso modo
 identiche situazioni.
    Tale violazione appare tanto piu' rilevante  ove  si  ponga  mente
 all'ampia  gamma  di  gravi  ipotesi  delittuose,  per  le  quali  lo
 straniero e' autorizzato  a  sottrarsi  volontariamente  alla  misura
 cautelare  della  custodia  in  carcere, giacche' unico limite per la
 normativa in questione e'  quello  fissato  per  i  delitti  indicati
 nell'art. 275, terzo comma, del c.p.p.
    D'altra  parte  non  puo'  certo sostenersi ragionevolmente che il
 principio di uguaglianza  sia  stato  soddisfatto  dalle  limitazioni
 imposte  al  rilascio  dello  straniero assoggettato alla custodia in
 carcere,  individuate  dalla  norma  in  esame  nelle   "inderogabili
 esigenze processuali" ovvero nelle "gravi ragioni personali di salute
 o  gravi  pericoli per la sicurezza e l'incolumita' in conseguenza di
 eventi bellici o di epidemie".
    Tali preclusioni infatti - fondate sull'esigenza di assicurare  il
 regolare  prosieguo  dell'iter  processuale  e  sulla  necessita'  di
 salvaguardare l'incolumita' fisica dello straniero da espellere - non
 sono informate al principio di  eguaglianza  e  non  giustificano  il
 differente  (e  piu' favorevole) regime che si stabilisce per il solo
 straniero sottoposto alla custodia cautelare.
    In ragione  di  quanto  sopra,  non  potendo  il  giudizio  essere
 definito   indipendentemente   dalla   risoluzione   delle  questioni
 prospettate, ad avviso del Tribunale rilevanti e  non  manifestamente
 infondate, e' necessario disporre l'immediata trasmissione degli atti
 alla  Corte  costituzionale,  dichiarando, nelle more, la sospensione
 del giudizio in corso.