IL TRIBUNALE Riunito in camera di consiglio in fuzione di organo designato ai sensi degli artt. 309, 310, 324 del c.p.p. per decidere sulla richiesta di riesame presentata il 24 settembre 1993 dai difensori dell'indagato Bura Renzo avverso i decreti di sequestro preventivo emessi in data 28 luglio 1993 e 6 agosto 1993 dal giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Torino, nonche' avverso il decreto di convalida emesso in data 5 agosto 1993 dalo stesso giudice per le indagini preliminari in relazione al decreto di sequestro preventivo disposto in pari data dal procuratore della Repubblica presso il tribunale di Torino nei confronti del medesimo indagato, ha pronunciato la seguente ordinanza sulla questione di legittimita' costituzionale dell'art. 12-quinquies secondo comma, della legge 7 agosto 1992, n. 356 (modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalita' mafiosa), sollevata dai predetti difensori con riferimento all'art. 25, secondo comma, della Costituzione. A carico di Bura Renzo pende procedimento penale in ordine al delitto di cui all'art. 12-quinquies, secondo comma, della legge 7 agosto 1992, n. 356 (trasferimento fraudolento e possesso ingiustificato di valori) a seguito di notizia di reato del nucleo di polizia tributaria della guardia di finanza di Torino del 2 febbraio 1993, iscritta in data 23 aprile 1993 nel registro delle notizie di reato previsto dall'art. 330 del c.p.p. presso la procura della Repubblica di Torino. Il 28 luglio 1993, il giudice per le indagini preliminari di questo tribunale, accogliendo la richiesta formulata dal p.m. in data 12 luglio 1993, emetteva ai sensi dell'art. 321, primo comma, del c.p.p. decreto di sequestro preventivo su numerosi beni mobili ed immobili per un importo complessivo di considerevole valore (autovetture, imbarcazione da diporto, alloggi di civile abitazione, titoli di stato, conti correnti bancari) intestati ai familiari dell'indagato ed a societa' amministrate dagli stessi ma nella accertata disponibilita' del predetto, osservando da un lato che a carico del medesimo - gia' condannato per il reato di concorso in usura continuata con sentenza 10 giugno 1991 del tribunale di Torino - risultava la pendenza di diversi procedimenti penali per altri fatti di usura, e dell'altro che sussisteva per tabulas una manifesta sproporzione tra il reddito da lui dichiarato ai fini delle imposte dirette (o comunque giustificato dallo svolgimento della sua attivita' economica) ed i beni dei quali figurava essere indirettamente titolare: beni della cui provenienza il Bura non aveva saputo fornire spiegazioni alcuna, nemmeno a titolo di semplice allegazione (essendosi egli limitato a dichiarare al magistrato di aver effettuato delle vincite al casino, e risultando in situazione di perdita tutte le societa' familiari a lui facenti capo), e quindi da ascrivere esclusivamente ai proventi dell'esercizio dell'attivita' usuraria da lui esercitata e da sottoporre conseguentemente a vincolo giudiziario al fine di impedire al suddetto di aggravare o protrarre le conseguenze dei reati di usura gia' perpetrati e per non agevolare la commissione da parte sua di altri reati di identica natura, anche in vista della confisca imposta dal citato art. 12-quinquies, secondo comma. Il 5 agosto 1993, ed il 6 agosto 1993, il procuratore della Repubblica di Torino emetteva ai sensi dell'art. 331, comma 3-bis, decreto di sequestro preventivo di altre disponibilita' economiche ricollegabili al Bura (due cassette bancarie di sicurezza, e certificati di deposito al portatore per L. 2.530.000.000), in ordine ai quali il giudice per le indagini preliminari dello stesso tribunale provvedeva a sua volta ad emettere nelle stesse date decreto di convalida e decreto di sequestro preventivo, con motivazioni analoghe a quelle sopra riferite. Avverso tali provvedimenti del giudice per le indagini preliminari hanno proposto richiesta di riesame i difensori del Bura con istanza depositata il 24 settembre 1993 ai sensi dell'art. 322 del c.p.p., ed all'udienza camerale del 1 ottobre 1993, oltre a contestare nel merito gli operati sequestri unitamente alla relativa convalida, hanno sollevato eccezione di legittimita' costituzionale dell'art. 12-quinquies, secondo comma, della legge 7 agosto 1992, n. 356, per contrasto con l'art. 25, secondo comma, della Costituzione (in particolare si e' lamentato che la norma de quo - nel sanzionare il comportamento di chi, essendo sottoposto a procedimento penale per talini reati, abbia una disponibilita' di beni sproporzionata al proprio reddito dichiarato o alla propria attivita' e di cui non sappia giustificare la legittima provenienza - viene sostanzialmente ad incriminare (o comunque si presta a che venga incriminato nel caso concreto) uno "stato" antecedente alla sua entrata in vigore, ponendosi cosi' in contrasto insanabile con il principio di irretroattivita' delle leggi penali sancito - in aderenza ai concetti generali gia' enunciati dagli artt. 2 del c.p. e 11 preleggi - dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione, oltre a violare in maniera altrettanto vistosa il principio di tassativita' delle norme incriminatrici (da rapportare anch'esso al dettato dell'art. 25 della Costituzione), posto che il reddito dichiarato ai fini imponibili - assunto dal citato art. 12-quinquies, secondo comma, a parametro di raffronto per valutare la giustificabilita' dei proventi economici di quanti ricadano nei rigori di quest'ultima disposizione - e' notoriamente inidoneo a rappresentare in termini reali l'effettiva (e legittima) situazione patrimoniale del soggetto, non fosse altro che per l'esistenza di cespiti anche rilevantissimi di cui non e' previsto l'inserimento nella dichiarazione fiscale (tioli di stato e assimilati, proventi contraddistinti da prelievo reddituale alla fonte, ecc.), potendo cioe' la stessa non corrispondere per entita' ragguardevoli al gettito globale delle entrate del contribuente. Tutto cio' premesso, e scioglimento la riserva formulata in udienza, osserva innanzi tutto questo collegio che la questione sollevata dalla difesa di Bura Renzo e' da considararsi prima facie rilevante nel caso di specie, poiche' l'esperibilita' del giudizio incidentale sulla legittimita' dei sequestri sottoposti al vaglio del tribunale appare necessariamente condizionata dal previo controllo sulla indispensabile corrispondenza ai dettami costituzionali della disposizione legislativa che ha sorretto l'emanazione degli impugnati provvedimenti cautelari reali. La questione, inoltre, e' da ritenere non manifestamente infondata. Ed invero, sembra di dover individuare il dato caratterizzante della nuova normativa introdotta in particolare con l'art. 12-quinquies, secondo comma, della legge citata nela conclamata punibilita' della condotta di quanti si trovino a poter usufruire di una concentrazione di ricchezza la cui disponibilita' - non essendo suffragata da appaganti spiegazioni da parte del beneficiario - e' ritenuta sanzionabile sia in virtu' della concomitante esistenza in capo al detentore della stessa di un procedimento penale per un determinato reato, per cosi' dire "portante", in quanto appartenente al novero delle piu' ricorrenti fonti di illecito arricchimento (ricettazione, riciclaggio, reimpiego di valori, contrabbando, associazione mafiosa, estorsione, sequestro di persona a scopo di estorsione, usura e usura impropria, produzione o traffico di stupefacenti) o di un procedimento di prevenzione che a cagione della sproporzione dei beni rispetto al tenore di vita ed all'entita' dei redditi apparenti o dichiarati: piu' che una condotta, dunque, si intende castigare una situazione che, ponendosi in rapporto di palese incompatibilita' con ogni possibile incremento legittimo del patrimonio, viene in quanto tale assunta ad indice evidente di una scelta di vita esclusivamente o prevalentemente improntata al sistematico esercizio di attivita' contra legem, tutte orientate ad un indebito accumulo di guadagni. Ben si intuiscono - sia in chiave di prevenzione che in funzione repressiva - le ragioni ispiratrici della scelta normativa, non soltanto per quanto concerne la sua immaginabile ripercussione sociale, ma anche nei suoi apprezzabili risvolti etici (e le cui origini sono facilmente ricollegabili all'ormai lungo percorso della legislazione che si e' ingegnata fino ad oggi per arginare in qualche modo il dilagare del fenomeno mafioso e della criminalita' organizzata). Ma assai piu' arduo si presenta, invece, il compito di sindacare la rispondenza dell'innovazione ai principi generali del diritto, per l'ovvia considerazione che non sempre la morale o la sociologia o la politica procedono di pari passo con le regole della scienza giuridica. Ed in effetti non e' priva di fondamento la doglianza di incostituzionalita' incentrata sull'ambito di operativita' della norma in oggetto, apparendo davvero difficile escludere che la stessa, oltre a punire le condotte locupletative di sospetta origine illecita poste in essere dopo la sua entrata in vigore (da riportare, quest'ultima, ad epoca non antecedente alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell'8 giugno 1992 del decreto-legge n. 306/1992, poi convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356), non sanzioni anche quelle condotte (o meglio, quelle situazioni patrimoniali) maturate in epoca ad essa decisamente precedente, come e' dato dedurre - tra l'altro - dalla perentoria espressione: "coloro . . i quali . .. risultano essere titolari o avere la disponibilita' . .", nella quale non viene fatto alcun riferimento a dati cronologici o di qualsivoglia altra natura cui ancorare - neppure in termini approssimativi - l'inizio dell'attivita' punibile. Sotto questo aspetto sono dunque da condividere le perplessita' affacciate nell'eccezione della difesa, cosi' come deve trovare parimenti adesione l'ulteriore censura concernente l'omesso rispetto del principio di tassativita' (bene, quest'ultimo, da considerare implicitamente racchiuso nella sfera di protezione costituzionale garantita dal citato art. 25, secondo comma, dello statuto), e questo non soltanto per le argomentazioni sopra riportate circa l'inadeguatezza sostanziale del criterio legislativo assunto a strumento di verifica della lecita capacita' patrimoniale dell'indagato, ma - va aggiunto - anche e soprattutto per l'impossibilita' di rinvenire nei congegni punitivi della norma in discussione una qualsiasi metodologia alla cui stregua circoscrivere in termini storicamente certi e predeterminati la collocazione temporale delle condotte punibili: mancanza, questa, che infrange l'esigenza di certezza e di chiarezza giuridica richiesta da tale principio e sacrifica quella determinatezza della fattispecie che - oltre ad essere necessaria per consentire di volta al giudice di individuare il tipo di fatto disciplinato dalla norma ed il preciso campo di applicazione di quest'ultima - e' condizione indispensabile per consentire all'individuo di conoscere il divieto legislativo e per pretendere che egli vi adegui il proprio comportamento. Insomma, l'attuale formulazione dell'art. 12-quinquies, secondo comma, della legge n. 356/1992, cosi' come e' congegnata, non sembra in alcun modo mettere i destinatari della stessa in grado di adeguare spontaneamente a legalita' la propria condotta per quanto riguarda l'arco di tempo (antecedente sia all'entrata in vigore del divieto che alla consumazione delle condotte tipiche dei reati "portanti") lungo il quale si e' formato il patrimonio ingiustificato, ed anche in qust'ottica - tutt'altro che secondaria - e' ravvisabile una lesione dell'interesse protetto dall'art. 27, primo comma, della Costituzione, e cioe' quello rappresentato dal cosiddetto "principio della responsabilita' personale", in virtu' del quale si esige per l'irrogabilita' della sanzione che questa si eserciti nei soli confronti di chi abbia realizzato un illecito per proprio fatto colpevole. La rilevanza della questione cosi' sollevata - in uno con la sua non manifesta infondatezza - impone per legge l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, e la conseguente sospensione del giudizio in corso.