IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa civile a ruolo il 25 ottobre 1991 e segnata ai numeri 14242 del ruolo affari civili contenziosi dell'anno 1991, 2642 del ruolo generale della sezione e 443 del ruolo del giudice istruttore, promossa da Sgrilli Piero, Sgrilli Leonardo, Sgrilli Laura, Nuti Bruna (avv. Piero Cammelli), attori, contro Colzi Marco e Meie Assicuratrice (avv. Gianfranco Mazzaglia), convenuti, avente ad oggetto: risarcimento danni per morte del leso; Il tribunale, letti gli atti, sentito il presidente relatore; O S S E R V A Gli attori, nella presente causa avente ad oggetto il risarcimento di tutti i danni conseguenti il decesso del proprio congiunto Pieraccioli Milena, hanno chiesto in sede di precisazione delle conclusioni la liquidazione altresi' del danno "biologico" conseguente la morte della stessa Pieraccioli e su tale domanda, anche se la si volesse considerare nuova, il contraddittorio si e' regolarmente costituito: si rammenta, infatti, che la s.C. ha piu' volte affermato che quando una domanda nuova sia stata proposta soltanto nell'udienza di precisazione delle conclusioni definitive, l'inammissibilita' di essa deve essere eccepita (il che non e' stato fatto) nella stessa sede, dovendo ritenersi, in difetto della relativa eccezione, implicitamente accettato il contraddittorio sulla medesima (Cassazione civile, sezione seconda, 14 novembre 1989, n. 4843; Cassazione civile, sezione terza, 10 giugno 1988, n. 3956; Cassazione civile, sezione terza, 24 aprile 1987, n. 4040; Cassazione civile, sezione prima, 9 gennaio 1987, n. 72). Del resto, la parte convenuta in sede di comparsa conclusionale ha palesemente contrastato la domanda, per presunta inammissibilita' dell'istituto nel nostro ordinamento, con cio' determinando una accettazione addirittura espressa del contraddittorio. Sempre in sede di comparsa conclusionale gli attori hanno specificato che la richiesta deve considerarsi avanzata iure successionis, ma, poiche' in atto di citazione una tale qualita' non e' stata espressamente indicata, la domanda puo' altresi' (o piu' probabilmente deve) essere esaminata anche in quanto posta iure proprio. Appare, dunque, evidente la preliminare rilevanza della questione inerente l'accertamento della configurabilita' dell'istituto alla luce del vigente sistema di norme costituzionale e ordinarie. Cio' posto, e' opinione del collegio che la definizione di esso secondo le linee tracciate dalle pronunce della Corte costituzionale e della Corte di cassazione induca a ritenere che nulla osti, almeno in astratto, ad una risposta affermativa (sotto l'uno ovvero sotto l'altro dei due indicati profili) e che, anzi, una tale risposta appaia coerente con i principi di civilta' giuridica e di ragionevolezza consacrati nella Carta costituzionale, di modo che se norme dell'ordinamento vigente, segnatamente l'art. 2043 del c.c. si ponessero come ostative alla concreta attuazione del diritto esse apparirebbero gravemente sospette di illegittimita' costituzionale e la relativa questione assumerebbe indubbia rilevanza ai fini del decidere, stante l'oggetto della domanda. La questione dovra' allora essere esaminata separatemente secondo il duplice profilo prima evidenziato. Danno alla salute iure successionis Appare preliminarmente opportuno evidenziare che non si tratta di accertare se in conseguenza della morte del soggetto si sia determinato un vero e proprio danno biologico in senso stretto (o fisiologico) risarcibile, ma se dalla lesione del diritto (alla sa- lute) tutelato dall'art. 32 della Costituzione o, comunque dalla lesione del diritto alla vita, nasca un conseguente diritto al risarcimento del danno in capo agli eredi (tale, indefinitiva, essendo l'oggettivo contenuto della domanda, al di la' del nome iuris - danno biologico - utilizzato, che, per altro, era coerente con l'iniziale approccio all'istituto, per come si e' venuto storicamente determinando). Cio' posto, rileva il collegio che la negazione tout court della risarcibilita' del danno alla salute in caso di morte si iscrive all'interno di una visione teorica che risolve tale figura di danno, di costruzione affatto nuova, in una dimensione di pretta marca naturalistica, alla quale fa riferimento, appunto, la locuzione "danno biologico", ormai di comune prassi. Ma cosi' facendo si dimentica proprio l'insegnamento della Consulta (sentenza 14 luglio 1986, n. 184), che ha ammonito sulla possibile confusione fra i due termini, ha indicato come preferibile l'espressione "lesione della salute", ha comunque (ed e' quel che conta) costruito quest'ultima (seppure nell'ambito della mera lesione della integrita' psico- somatica e non gia' della suo soppressione totale in conseguenza della morte del leso, che' quello e non questo era il problema di cui era stata chiamata ad occuparsi) come violazione del bene giuridico primario tutelato dall'art. 32 della Costituzione, offeso dal fatto realizzativo della monomazione della integrita' fisica del soggetto: "la lesione del bene giuridico salute e' l'intrinseca antigiuridicita' obiettiva del danno biologico o fisiologico: essa appartiene ad una dimensione valutativa, distinta da quella naturalistica, alla quale fanno riferimento le locuzioni 'danno biologico' e 'danno fisiologico'" (Corte costituzionale n. 184/1986). Ove ancora si consideri che la Corte ha ulteriormente chiarito che funzione della responsabilita' civile da fatto illecito e' non solo quella inerente alla reintegrazione del patrimonio del danneggiato, ma altresi' quella di pervenire e di sanzionare l'illecito (id est: danno alla salute come "sanzione riparatoria"), che, inoltre, il danno alla salute attiene all'evento lesione in se' considerato (e, dunque, in quanto tale costituisce un danno presunto, "se e' vero che non va provato alcun effettivo impedimento delle attivita' realizzative del soggetto offeso"), laddove gli altri e gia' noti tipi di danno (patrimoniale e non patrimoniale) si colgono sul piano (distinto temporalmente, ma soprattutto ontologicamente) delle conseguenze, allora il quadro giuridico risulta sufficientemente chiaro e confortante l'estensione della costruzione teorica alla ancor piu' pregnante ipotesi di violazione del diritto alla vita. Ne' pare che possa proficuamente obbiettarsi che di danno alla sa- lute in caso di morte del leso non puo' ragionevolmente parlarsi posto che tale evento sopprime in radice il diritto prima ancora che se ne possa configurare la lesione. In effetti, nell'ambito di un tale ordine di idee, si e' ancora affermato che la morte immediata ovvero "estremamente" ravvicinata rispetto al fatto lesivo impedisce di configurare un periodo di vita apprezzabilmente lungo nel quale il soggetto possa estrinsecarsi con ridotte potenzialita': in assenza di cio' verrebbe meno la stessa possibilita' di determinare l'entita' del pregiudizio. Pare al collegio che obbiezioni siffatte, anche a prescindere dalla natura piu' pratica che teorica della seconda, essendo essa piuttosto relativa alla quantificazione del danno e ad una sua presunta difficolta' (ma non si vede cosa possa impedire una valutazione equitativa "a priori"), che ad una astratta impossibilita' di configurazione, siano soprattutto tali da presupporre una lettura restrittiva della norma di cui all'art. 32 della Costituzione e dello stesso danno alla salute, il cui risarcimento - si e' detto - assicurerebbe il ristoro per il deterioramento o la riduzione delle potenzialita' (vitali) in rapporto alla durata della menomazione o della vita del leso, successivamente al sinistro (tribunale Milano n. 5737 13 aprile-26 giugno 1989): orbene, nessun limite siffatto appare individuabile alla luce dell'art. 32 della Costituzione o della costruzione del danno alla salute come teorizzato dalla sentenza n. 184/1986 della Corte costituzionale. Se la lesione alla salute e' l'intrinseca antigiuridicita' obiettiva dell'evento dannoso, del tutto distinto dalle conseguenze, appare evidente che l'evento morte, per quanto ravvicinato sia all'evento lesione, non puo' che porsi ontologicamente, prima che temporalmente, fra le conseguenze del fatto: e', cioe', una conseguenza della violazione; ma la lesione del bene salute e con essa della norma costituzionale posta a garanzia di un bene primario ovvero il danno evento, si e' gia' verificato. Sembra al collegio che una tale costruzione si iscriva in un processo di interpretazione giuridica ormai da tempo avviato e caratterizzato dalla progressiva individuazione di nuovi interessi, di posizioni soggettive emergenti meritevoli di tutela, ancorche' sfornite di un immediato referente codicistico o normativo e dunque tali da richiedere un riferimento tratto direttamente dalla primaria norma costituzionale, non relegata fra le disposizioni di principio necessitanti l'attuazione legislativa, sibbene direttamente applicata nei rapporti fra privati. E questo quadro appare sufficientemente consolidato se, ad esempio, e' all'interno di esso che sembra doversi iscrivere Cassazione civile, sezione prima, 22 giugno 1985, n. 3769, che ha sancito che l'interesse della persona, fisica o giuridica, a preservare la propria identita' personale, nel senso di immagine sociale, cioe' di coacervo di valori (intellettuali, politici, religiosi, professionali ecc.) rilevanti nella rappresentazione che di essa viene data nella vita di relazione, nonche', correlativamente, ad insorgere contro comportamenti altrui che menomino tale immagine, pur senza offendere l'onore o la reputazione, ovvero ledere il nome o l'immagine fisica, deve ritenersi qualificabile come posizione di diritto soggettivo, alla stregua dei principi fissati dall'art. 2 della Costituzione in tema di difesa della personalita' nella complessita' ed unitarieta' di tutte le sue componenti, ed inoltre tutelabile anche con l'azione di risarcimento del danno. E puo' dirsi che sempre in questa ottica le sez. un. della s.c. hanno affermato (in un passato neppure recente) che l'art. 32 della Costituzione, oltre che ascrivere alla collettivita' generale la tutela promozionale della salute dell'uomo, configura il relativo diritto come diritto fondamentale dell'individuo e lo protegge in via primaria, incondizionata e assoluta come modo d'essere della persona umana; che il collegamento dell'art. 32 con l'art. 2 della Costituzione attribuisce al diritto alla salute un contenuto di socialita' e di sicurezza, tale che esso si presenta non solo come mero diritto alla vita e all'incolumita' fisica, ma come vero e proprio diritto all'ambiente salubre che neppure la pubblica amministrazione puo' sacrificare o comprimere, anche se agisca a tutela specifica della salute pubblica (Cassazione civile, sezione unica, 6 ottobre 1979, n. 5172). Ma su questa strada insegnamenti non eludibili provengono proprio dalla Corte costituzionale, la quale ha sancito che sono illegittimi, per violazione dell'art. 2 della Costituzione, gli artt. 10, primo comma, e 22 della legge 10 agosto 1950, n. 648, 9, primo comma, e 11 della legge 18 marzo 1968, n. 313, 8, primo comma, 11 e 83 del d.P.R. 23 dicembre 1978, n. 915, nella parte in cui non prevedono un trattamento pensionistico di guerra che indennizzi i danni anche non patrimoniali patiti dalle vittime di violenze carnali consumate in occasione di fatti bellici (Corte costituzionale 18 dicembre 1987, n. 561), cosi' affermando la tutela risarcitoria della liberta' sessuale, in virtu' della collocazione di essa tra i diritti inviolabili garantiti dall'art. 2 della Costituzione; che ha sancito che il fondo di garanzia delle vittime della strada, istituito presso l'INA con l'art. 19 della legge n. 990/1969, ha un carattere solidaristico e che tale carattere solidaristico non esclude, ne' limita in alcun modo la natura risarcitoria e non gia' indennitaria della prestazione garantita dall'intervento del fondo (Corte costituzionale 18 dicembre 1987, n. 560); che l'ambiente e' un bene immateriale unitario, ancorche' costituito da una pluralita' di componenti, sicche' la protezione ambientale e' preordinata alla salvaguardia dell'habitat nel quale l'uomo vive e il danno all'ambiente e' correttamente inserito nell'ambito e nello schema della tutela aquiliana (Corte costituzionale, sezione 1, legge 30 dicembre 1987, n. 641). Si tratta sempre, in definitiva, della affermazione del principio secondo cui le violazioni di posizioni soggettive riconosciute dalla norma primaria si traducono, in sostanza, nella vanificazione di finalita' protettive e solidaristiche e per se' stesse, dunque, costituiscono danno, a prescindere dalle eventuali conseguenze delle violazioni stesse, idonee, se del caso, ad integrare danni ulteriori. Ora, se cosi' e', non si vede come in astratto possa apparire degno di integrare una posizione giuridica meritevole di tutela, e la cui violazione sia idonea a determinare effetti risarcitori in quanto tale, cioe' a prescindere dalle conseguenze possibili, ma solo eventuali (non solo per quanto attiene al danno patrimoniale, ma altresi' per quanto attiene al danno morale, stante la norma di cui all'art. 2059 del c.c.), il diritto alla vita, che, al contrario, rispetto alla persona umana, si configura come diritto sommo, che tutti gli altri riassume e condiziona. Sarebbe irragionevole ipotizzare che l'evoluzione della responsabilita' civile alla luce di una lettura costituzionale della stessa debba arretrare proprio sulla soglia di uno dei principi cardine fra quelli protetti dalla Carta costituzionale, laddove, invece, essa sarebbe ragionevolmente chiamata a manifestare il massimo grado della sua teorica possibilita' di espansione ed operativita'. Affermare, come pure si e' fatto, che al diritto alla salute resta estraneo quello alla vita, perche' il primo presuppone che il soggetto leso pur sempre vi sia (gode di salute, piu' o meno compromessa, solo chi vive e la salute sarebbe solo ed esclusivamente un modo di essere della vita), laddove la eventuale rilevanza risarcitoria della lesione del secondo presuppone che il soggetto non sia piu', costituisce, a parere del collegio, affermazione banale a fronte della drammatica rilevanza del problema in oggetto, ma soprattutto considerazione irrilevante. Rilevante sarebbe solo l'affermazione (ove sostenibile) che il diritto alla vita non trova riconoscimento nella Carta costituzionale (ma invece solo nel codice penale, come anche si e' sostenuto), ma essendo ovviamente vero il contrario poco conta che la norma di riferimento sia l'art. 32 della Costituzione o il combinato disposto di entrambe le norme. In ciascuno di questi casi, resta che il diritto alla vita viene a costituire non gia' solo oggetto di un riferimento programmatico da parte della Costituzione, ma diviene posizione soggettiva idonea ad essere tutelata nell'ambito dei rapporti interprivatistici, per la violazione in quanto tale (danno evento) di un bene giuridico primario offeso dal fatto realizzativo della morte del soggetto, che si risolve nella totale soppressione della sua integrita' psico-fisica: "la lesione del bene giuridico vita e' l'intrinseca antigiuridicita' obiettiva del danno". Ne' tale costruzione teorica puo' essere paralizzata dalla osservazione che la fattispecie appare analoga a quella del danno mo- rale, che viene si riconosciuto agli eredi, ma come diritto proprio e non iure successionis come diritto gia' entrato nel patrimonio del soggetto leso: in relata', e' la analogia, solo apparente, che deve essere negata, essendo il danno alla salute un danno evento (come tale idoneo ad entrare nel patrimonio del danneggiato al momento stesso della violazione del diritto alla vita per il tramite del fatto realizzativo del danno biologico in senso stretto o fisiologico, cioe' dell'evento naturalistico costituito dalla lesione mortale) ed essendo, al contrario, quello morale un danno conseguenza, inidoneo a sopravvivere all'evento naturalistico (e dunque ad entrare nel patrimonio del leso), allorche' tale evento sia la morte del soggetto. Il vero problema che, invece, a questo punto si prospetta e' quello di accertare se il dettato costituzionale non rischi di venire vanificato dalla normativa ordinaria e, in particolare, da una interpretazione dell'art. 2043 del c.c., che pur mortificando la sua possibile valenza di strumento idoneo alla protezione dei valori che la Costituzione prevede ed assicura, tra cui assume rilievo precipuo il principio della solidarieta', tuttavia si ponga come necessitata per l'interprete ordinario, tant'e' che spesso le numerose sentenze di merito (non e' forse casuale che la s.c. abbia avuto solo una occasione di pronuncia: Cassazione civile 20 dicembre 1988, n. 6938), che hanno escluso la risarcibilita' del danno in oggetto, piu' o meno dichiaratamente in qualche modo la presuppongono (la giurisprudenza in senso contrario al riconoscimento del diritto va da tribunale Milano 7 gennaio 1988 a tribunale Ancona 24 maggio 1991, fino a tribunale Firenze 12 gennaio 1993, che di tale interpretazione contiene una compiuta teorizzazione; in senso favorevole si citano: corte appello Roma 4 giugno 1992, tribunale Treviso 26 marzo 1992, tribunale Treviso 5 marzo 1992, tribunale Treviso 5 maggio 1992, tribunale Firenze 18 novembre 1991, tribunale Napoli 6 febbraio 1991, tribunale Milano 4 giugno 1990). Non sfugge, infatti, che una lettura dell'art. 2043 del c.c. all'interno del titolo IX del libro IV del codice civile puo' indurre a ritenere risarcibile il solo danno produttivo di conseguenze patrimoniali. L'ingiustizia del danno risarcibile, alla luce di una interpretazione letterale della norma e del sistema della responsabilita' extracontrattuale al cui interno essa e' collocata, non potrebbe rinvenirsi nell'evento stesso della lesione (parziale o assoluta) del bene protetto, cioe' nel fatto dannoso, ma nel danno gia' verificato. Il fatto o l'evento che determina la responsabilita' e le conseguenze dannose verrebbero a concretizzare due momenti di un processo causale, che si snoda in due fasi distinte: la prima tenedente a ricostruire il fatto dannoso attraverso la ricerca del collegamento materiale tra condotta ed evento, come tale idonea a sfociare in un giudizio di causalita' in fatto, la seconda diretta alla ricerca del collegamento giuridico tra il fatto e le conseguenze dannose e alla determinazione dei limiti da porre alla serie di tali conseguenze. Il danno ingiusto risarcibile ai sensi della norma di cui all'art. 2043 del c.c. non potrebbe in nessun modo indentificarsi con l'evento in quanto tale, cioe' con la lesione del diritto assoluto di per se' considerata, ma si sostanzierebbe necessariamente con la conseguenza patrimoniale del fatto determinante la responsabilita' (donde il danno alla salute, pur nella ipotesi di sicura risarcibilita' a seguito della semplice lesione della integrita' psico-somatica del soggetto leso si colorerebbe necessariamente del requisito della patrimonialita'). Non essendo sufficiente la mera lesione dell'interesse protetto (circostanza di per se' inidonea a completare la fattispecie dannosa, ma rilevante solo ai fini della individuazione del requisito della ingiustizia dell'eventuale e successivo danno), non si avrebbe danno risarcibile senza alterazione in peggio di utilita' economiche e cio' comporterebbe in radice la negazione della risarcibilita' del danno in se' (a prescindere, cioe', dalle eventuali, ma non sempre sussistenti, conseguenze patrimoniali direttamente verificatesi nel patrimonio degli eredi o da quelle non patrimoniali, pure eventuali, stanti i limiti di cui all'art. 2059 del c.c.) per violazione del diritto alla vita, perche' in caso di decesso il fatto dannoso si completa con la morte ovvero con l'evento naturalistico finale attribuibile all'agente mediante criteri legali di imputazione (dolo o colpa) sanciti dall'art. 2043 del c.c. Certo, pare al collegio che questa sia una concezione tradizionale, e, per cosi' dire, in qualche modo datata della responsabilita' civile, ma non percio' stesso agevolmente eludibile da parte del giudice di merito o percio' stesso qualificabile come manifestamente infondata. Ma se cosi' dovesse essere, perche' cosi' impone una interpretazione letterale e sistematica della norma, non sembra che l'art. 2043 del c.c., nella parte in cui non potrebbe consentire il risarcimento del danno conseguente la violazione, di per se' considerata, del primario diritto dell'essere umano, sfugga a pesanti sospetti di legittimita' costituzionale per contrasto con gli artt. 2 e 32 della Costituzione, con il principio di ragionevolezza e, in definitiva e piu' in generale, con i fondamenti stessi della civilta' giuridica. L'esclusione della tutela risarcitoria per il solo fatto della lesione del diritto, a prescindere dalle sue conseguenze di ordine patrimoniale o morale, oltre a contraddire la lettura dei valori primari costituzionalmente garantiti come idonei a determinare posizioni soggettive immediatamente degne di tutela, porterebbe a conseguenze abnormi in casi che, solo apparentemente, potrebbero considerarsi casi limite: si pensi alla morte di un bambino rispetto alla quale si configuri solo una responsabilita' presunta a carico del soggetto agente. Orbene, del tutto improbabili (e, comunque, solo ipotetiche) essendo conseguenze di ordine patrimoniale e dovendosi escludere del tutto una qualsiasi responsabilita' penale, con conseguente non risarcibilita' altresi' del danno morale ai sensi dell'art. 2059 del c.c. e 185, secondo comma, del c.p., un evento di tal genere risulterebbe del tutto irrilevante e neutro rispetto all'ordinamento giuridico per difetto di qualsiasi possibilita' di reazione: il conclamato principio della tutela della vita umana resterebbe vuota affermazione priva di contenuto. Ma un ulteriore possibile profilo di illegittimita' costituzionale sembra doversi ancora rinvenire in riferimento all'art. 3 della Costituzione. E' noto che con recenti interventi (sentenze n. 87 del 15 febbraio 1991, n. 356 del 18 luglio 1991 e n. 485 del 27 dicembre 1991), la Corte costituzionale ha proseguito l'opera di definizione dell'istituto del danno alla salute iniziata con le pronunce n. 87 e n. 88 del 26 luglio 1979. In particolare ha stabilito che e' costituzionalmente illegittimo - per contrasto con gli art. 2, 3, 32 e 38 della Costituzione - l'art. 10, sesto e settimo comma, del t.u. sull'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, approvato con d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, nella parte in cui prevede che il lavoratore infortunato o i suoi aventi causa hanno diritto, nei confronti delle persone civilmente responsabili per il reato da cui l'infortunio e' derivato, al risarcimento del danno biologico non collegato alla perdita o riduzione della capacita' lavorativa generica solo se e solo nella misura in cui il danno risarcibile, complessivamente considerato, superi l'ammontare delle indennita' corrisposte dall'I.N.A.I.L. (Corte costituzionale 27 dicembre 1991, n. 485). Ma la Consulta aveva precedentemente stabilito che poiche' l'esonero del datore di lavoro dalla responsabilita' civile per i danni subiti dal lavoratore infortunato, di cui all'art. 10, primo comma del t.u. delle disposizioni sull'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, approvato con d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, non riguarda anche il risarcimento del danno da lesione del diritto alla salute (o danno biologico) per gli effetti non collegati all'eventuale diminuzione della capacita' lavorativa, la questione di legittimita' costituzionale della norma citata - proposta, in riferimento agli art. 3, 32 e 38 della Costituzione sotto il profilo che essa sacrificherebbe la tutela del diritto alla salute - non e' fondata (Corte costituzionale 18 luglio 1991, n. 356). Ora, con tale pronuncia la Corte ha ritenuto estranea alla copertura previdenziale il risarcimento del danno alla salute almeno per quella parte di esso che non appare riconducibile alla mera attitudine a produrre reddito, ma si ricollega agli altri ambiti e modi nei quali il soggetto svolge la sua personalita' nella propria vita. La pronuncia, letta a contrariis, induce allora a ritenere che almeno per una parte l'indennita' assicurativa copra effettivamente il danno alla salute, con cio' rendendosi meno divaricata la divisione fra illecito previdenziale ed illecito civile, pur di fatto sussistente e, pertanto, legittimante il "chiaro invito" al legislatore affinche' questi addivenga ad una radicale riforma del sistema assicurativo (si veda, altresi', la sentenza della Corte costituzionale 15 febbraio 1991, n. 87, che ha dichiarato inammissibile la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 2, 3 e 74 d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, inammissibilita' che e' stata, pero', dalla Corte ritenuta solo per il rilievo che, altrimenti, si sarebbe determinata una innovazione normativa di spettanza del legislatore, pur tuttavia denunciandosi la irragionevolezza della disparita' di trattamento). Resta, comunque, il fatto in se' della natura composita della indennita' previdenziale (che comprende, seppure in parte, il danno alla salute) e che essa, come tale, ai sensi dell'art. 10 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, spetta altresi' ai familirai in caso di morte del lavoratore infortunato. In definitiva, sembra al collegio giudicante che per questa via risulti (attraverso la lettura coordinata delle citate pronunce) che la Corte costituzionale abbia gia' ammesso la legittimita' della configurazione del diritto in capo agli eredi o ai familiari del risarcimento del danno alla salute per morte del leso, si e' vero che le prestazioni previdenziali in conformita' con l'art. 38 della Costituzione, comprendono una serie di provvidenze, che prescindono dall'effettiva perdita di guadagno dell'infortunato (essendo altresi' comprensive del danno alla salute almeno per quella parte di esso che appare riconducibile alla mera attitudine a produrre reddito) e che "tendono ad adeguare l'identita' dell'indennizzo all'esigenza di vita del lavoratore e, in caso di sua morte, dei suoi familiari" cosi' testualmente Corte costituzionale n. 485/1991). Se, al contrario, all'interno della responsabilita' civile ordinaria non fosse possibile alla stregua della vigente normativa addivenire ad un riconoscimento analogo (sia per trasmissione del diritto iure successionis, sia per attribuzione dello stesso iure proprio, secondo la prospettazione che segue), non sembra dubbio che si verificherebbe una inammissibile violazione del principio di uguaglianza e, dunque, dell'art. 3 della Costituzione: l'illecito previdenziale, infatti, riceverebbe un trattamento giuridico privilegiato (sotto il profilo che qui interessa) rispetto all'illecito civile, tutte le volte in cui la conseguenza dell'illecito stesso fosse la morte del soggetto leso. Da ultimo, e subordinatamente, si rileva che se le osservazioni fin'ora svolte dovessero essere considerate prive di sostanza e la interpretazione dell'art. 2043 del c.c., come norma diretta a tutelare le sole conseguenze patrimoniali del fatto illecito, corretta ed intangibile, non resterebbe al danno conseguente la violazione di per se' considerata del diritto alla vita che transitare attraverso la norma di cui all'art. 2059 del c.c. Le note strettoie di tale norma, che consentono il risarcimento solo allorche' l'illecito civile costituisca altresi' illecito pernale (salvo altre rare e residuali ipotesi), riproporrebbe nuovamente e con forza la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2059 del c.c. per tutte le ragioni sopra esposte. In via subordinata, pertanto, anche tale questione, oltre quella relativa all'art. 2043 del c.c. dovra' essere sollevata dal collegio. Danno alla salute iure proprio Il secondo profilo dell'istituto che adesso corre l'obbligo di esaminare integra secondo l'opionione del collegio una naturale evoluzione del concetto teorico di danno alla salute (o di lesione della salute), ormai configurabile alla stregua della costante interpretazione giurisprudenziale come menomazione dell'integrita' psico-fisica della persona in se' e per se' considerata e, come tale, incidente sul valore uomo in tutta la sua concreta dimensione, che non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si collega alla somma delle funzioni naturali afferenti al soggetto nell'ambiente in cui la vita si esplica ed aventi rilevanza non solo economica, ma anche biologica, sociale, culturale ed estetica e, percio', tutelata dall'art. 32 della Costituzione. Ed in effetti, in parallelo con la progressiva definizione della lesione del dirtto alla salute, sta la correlata riflessione della scienza medico-legale e di quella giuridica che ha portato, come e' noto, a porre in crisi la tradizionale nozione della invalidita' lavorativa generica, siccome indadeguata ed idonea a determinare ingiustizie risarcitorie perche' modellata su un tipo di lavoro agricolo ed industriale tutto basato sulla forza fisica, allo stato non piu' attuale (specie ad di fuori della materia previdenziale), e per converso a porre come centrale l'accertamento della riduzione della integrita' psico-somatica o psico-fisica del soggetto leso (a tale piu' moderna concezione fa' altresi' riferimento la sentenza n. 184/1986 della Corte costituzionale). La differenza non e' da poco, come appare chiaro ove si osservi che la prima nozione costituisce o costituiva il fulcro del risarcimento del danno patrimoniale alla persona, laddove la seconda appare in diretta correlazione col danno biologico in senso stretto (o fisiologico), cioe' con la lesione naturalisticamente intesa, ancorche' valutata in tutti i suoi possibili riflessi, non solo di natura economica, ma anche biologica, psichica, sociale, culturale ed estetica: si trattava, in definitiva, di cogliere il valore morfologico funzionale della lesione in tutta la sua pienezza. Certo la lesione della integrita' psicofisica (danno biologico in senso stretto o fisiologico) appare strettamente collegata al danno alla salute, nel senso che la prima costituisce il parametro per la liquidazione (equitativa) del secondo, ma le due nozioni restano ontologicamente distinte come appare chiaro solo che si rilevi come la prima (in quanto evento naturalistico del fatto offensivo del bene giuridicamente tutelato salute: Corte costituzionale n. 184/1986) realizza altresi' il parametro per la liquidazione delle ulteriori, ma questa volta solo eventuali, forme di danno: quello morale (eventuale stante la norma di cui all'art. 2059 del c.c.) e quello partimoniale (esso pure meramente eventuale). Si tratta, in definitiva, della distinzione fra danno biologico in senso proprio o in senso stretto (nozione medico-legale), inteso come lesione della preesistente integrita' psico-fisica del soggetto, e danno alla salute (nozione esclusivamente giuridica), inteso come violazione (compiuta mediante la realizzazione dell'evento naturalistico integrante il primo) del corrispondente diritto, alla salute appunto tutelato dall'art. 32 della Costituzione, letto non gia' come norma programmatica o comunque, volta alla tutela di interessi collettivi, ma come norma direttamente operativa gia' nell'ambito dei rapporti intersoggettivi. Il primo rappresenta il presupposto (naturalistico) di qualsiasi tipo di risarcimento del danno, vuoi patrimoniale che non patrimoniale; il secondo rappresenta uno dei danni risarcibili, ancorche' quello centrale ed indefettibile (in quanto presunto e giuridicamente valutato: cosi' ancora Corte costituzionale n. 184/1986). Se cosi' e', non si vede quale ostacolo possa porsi, almeno in astratto (cioe' in riferimento alla costruzione dommatica dell'istituto) a ritenere che in presenza e a causa della morte del soggeto leso si determini l'evento (naturalistico) di una rilevante lesione della integrita' psico-fisica (con evidente accentuazione dell'aspetto psichico della stessa) in danno degli stretti congiunti. Non si potra' negare (ma sono solo esempi) che per un minore nel pieno della sua eta' evolutiva la improvvisa e violenta perdita di un fratello o di un genitore costituisca evento traumatizzante e condizionante il suo futuro sviluppo psicologico ed affettivo, con ripercussioni dirette nella sfera del suo modo di essere attuale e futuro nella vita; del pari, neppure si potra' negare che anche per un adulto la perdita del coniuge o del figlio costituisca un dato stravolgente la sua concreta e preesistente dimensione dell'essere individuo, con concreta ed evidente riduzione o alterazione del suo operare nell'ambiente in cui la vita si esplica in tutte le sue piu' diverse manifestazioni: di quel modo di essere sicuramente tutelato dall'art. 32 della Costituzione, come diritto alla salute. Che un danno siffatto possa (come pure e' stato detto) in qualche modo confondersi col danno morale subiettivo, che si sostanzia solo ed esclusivamente "nel transeunte turbamento psicologico del soggetto offeso" (Corte costituzionale n. 184/1986), va radicalmente escluso, pena la confusione fra nozioni completamente diverse, quali sono il danno evento ed il danno conseguenza (fra i quali rientra appunto il danno morale). Risarcendo, sotto il profilo della lesione della salute, il danno per menomazione della integrita' psico-somatica conseguente la morte del congiunto si prende in considerazione l'evento in se' e per se' valutato della violazione di un bene primario costituzionalmente garantito; risarcendo, invece, il danno morale si prende in considerazione un effetto pregiudizievole di quella lesione, e cio', per altro, solo nel caso che esso assuma giuridica rilevanza ( ex art. 2059 del c.c.). Del resto, come e' esperienza comune, il dolore soggettivo (per quanto intenso possa essere) e' tendenzialmente transitorio, ma anche quando il tempo ne ha fatto giustizia resta, in presenza di fatti altamente traumatizzanti, lo status di alterazione delle facolta' vitali e realizzative del soggetto e cio' anche al di la' della consapevolezza che questi possa o non possa averne. Ma proprio in questo sta il danno che si ritiene debba trovare piena accoglienza nel nostro ordinamento). In definitiva, il danno alla salute (anche sotto il profilo in esame) non appare confondibile con quello morale, cosi' come questo, per il passato, non appariva confondibile con quello alla vita di relazione, che del danno alla salute e' stato uno degli antecedenti logici (eppure entrambi, diversamente da quello alla salute, costituivano ugualmente danni conseguenza). Sotto altro profilo, neppure la astratta configurabilita' dell'istituto sembra poter patire limitazioni in riferimento alla norma di cui all'art. 1223 del c.c. (richiamato dall'art. 2056 del c.c.), ostacolo anche di recente frapposto dalla s.c. in tema di danno morale per le ipotesi di lesioni dolose sofferte dal prossimo congiunto (Cass. 16 dicembre 1988, n. 6854). In realta', e' proprio l'insegnamento della s.c. ad essere di conforto, avendo essa desunto la irrisarcibilita' dalla considerazione dell'essere di norma risarcibile il danno direttamente cagionato alla vittima, ma affermando altresi' che se poi quest'ultima, per essere stata resa in condizioni vegetative, non e' piu' in grado di soffrire moralmente, allora si' che il dolore del parente omisso medio, si collega direttamente ed immediatamente all'evento e diviene danno risarcibile (cosi' Cass. 2 novembre 1983 in rep. Foro it. 1983, voce danni civili; Cassazione penale, sezione quarta, 9 giugno 1983, secondo la quale se le lesioni riportate dall'offeso e i postumi invalidanti sono talmente gravi da determinare la perdita delle piu' importanti funzioni e capacita' dell'individuo, si' che egli si riduce ad una mera vita vegetativa, il danno morale dei prossimi congiunti diviene danno risarcibile, dovendosi un tale stato assimilare alla morte dell'offeso, con conseguente pregiudizio morale, direttamente e immediatamente ricadente sui parenti). Il che e', come ovvio, cio' che accade sempre nel caso di morte del leso, salvo che non si ritenga che il diritto al risarcimento per soppressione del diritto alla salute (alla vita) sia gia' entrato nel patrimonio del soggetto deceduto e sia allora trasmissibile iure successionis, con cio' ritenendo fondata la prima delle due esposte prospettazioni. Deve a questo punto osservare il collegio che proprio la configurazione del danno in oggetto come dovuto iure proprio sembra apparire non solo di piu' agevole costruzione, ma forse anche piu' corretta nelle sue conseguenze concrete. Una volta sganciata la titolarita' del diritto dalla mera qualita' di erede, assume rilevanza la posizione di stretto congiunto, il che si traduce non soltanto nella teorica eventualita' di riduzione delle ipotesi risarcitorie, ma soprattutto nella possibilita' effettiva di individuare rispetto a quali soggetti il danno si sia effettivamente verificato ed in quale misura (e ovvio, infatti, che non tutti gli stretti congiunti subiscono allo stesso modo e con pari incidenza una riduzione della propria integrita' psico-somatica a seguito della morte del familiare). E' altresi' aperta la via della prova contraria, cioe' della insussistenza del danno allorche' l'esclusione si legittimi ragionevolmente alla luce degli effettivi rapporti intercorsi fra il soggetto astrattamente titolare del diritto e quello deceduto, rapporti che in ipotesi potrebbero essere assai diversi rispetto a quelli in generale ipottizzabili in riferimento dei legami parentali. Ne' tale conclusione potrebbe apparire contradditoria con la affermata centralita' del danno alla salute, da ritenersi presunto e giuridicamente individuabile e valutabile: non si tratta, infatti, di accertare (con possibilita' di esclusione) l'esistenza o meno del danno alla salute in presenza della menomazione della integrita' psico-somatica (che cio' davvero contraddirebbe i principi), ma di accertare (con possibilita' di esclusione) proprio l'esistenza della menomazione stessa, cioe' dell'evento naturalistico (danno biologico in senso stretto o fisiologico) del fatto offensivo del bene tutelato, che una volta accertato, ma solo allora, rende presunto e centrale il relativo danno (alla salute). Da ultimo, si rileva che la configurazione del diritto in oggetto come diritto iure proprio consentirebbe di superare quella possibile obbiezione prospettabile nei confronti della costruzione dello stesso come diritto azionabile iure successionis, obbiezione derivante dalla affermata natura di diritto personalissimo del diritto alla salute (o alla vita), ancorche' debba rilevarsi che non si tratterebbe comunque di trasmettere un diritto che in ipotesi non c'e' piu', ma semmai di trasmettere un diritto al risarcimento del danno, entrato a far parte, anche se solo per un istante, nel patrimonio della vittima in conseguenza di quel "non esserci piu'" del diritto alla salute (o alla vita), soppresso a seguito dell'altrui fatto ingiusto (in definitiva, cio' che e' personale e, dunque, intrasmissibile e' il diritto leso ed il suo esercizio, non pure il diritto di credito che la sua lesione determina). Se, per le ragioni fin'ora esposte, neppure il secondo profilo in esame dell'istituto sembra essere astrattamente confutabile, almeno secondo il pensiero di questo collegio, ancora una volta, tuttavia, deve porsi il problema della concreta possibilita' di attuazione dei principi costituzionali alla luce della normativa ordinaria. Ancora una volta, l'interpretazione letterale e sistematica dell'art. 2043 del c.c. (nell'ambito delle norme disciplinanti la responsabilita' extracontrattuale) puo' frapporre ostacoli, non manifestamente inconsistenti, alla effettiva espansione di un diritto fondamentale secondo le linee che il rilievo costituzionale dello stesso sembrano imporre di necessita'. Ed infatti, il diritto alla salute non ha, ne' potrebbe avere secondo la sua ormai pacifica costruzione, connotazioni patrimoniali (Corte costituzionale n. 184/1986, ma anche Cass. 20 dicembre 1988, n. 6938, Cass. 5 settembre 1988, n. 5033, Cass. 10 marzo 1988, n. 2383; in precedenza Cass. 20 agosto 1984, n. 4661: Cass. 6 aprile 1983, n. 2396), tant'e' che la stessa astratta attitudine a produrre reddito assume rilevanza all'interno della lesione alla salute non come concreta capacita' produttiva, la cui (eventuale) riduzione integrera', se del caso, un successivo e conseguente danno (patrimoniale, appunto), ma come piu' generale aspetto di uno dei possibili modi in cui il soggetto svolge la sua personalita' nella propria vita; ma allora ne deriverebbe che gli stretti congiunti, che pure a causa della morte del parente abbiano effettivamente subito una apprezzabile menomazione della propria integrita' psico-somatica, non porebbero invocare la tutela dell'art. 2043 del c.c., posto che l'ingiustizia del danno risarcibile, secondo la interpretazione prima delineata, non prescinderebbe dalla alterazione in peggio di pregresse utilita' economiche. Sul punto si richiamano, pertanto, le osservazioni tutte gia' svolte in relazione allo specifico punto in sede di configurazione del danno in parola iure successionis e le relative conseguenze sotto il profilo dei connessi dubbi di legittimita' costituzionale della norma di cui all'art. 2043 del c.c. per contrasto con gli artt. 2 e 32 della Costituzione, con il principio di ragionevolezza e, in definitiva e piu' in generale, con i fondamenti stessi della civilta' giuridica. Non e', inoltre, senza rilievo rammentare che la Corte di cassazione nell'unica sentenza in cui (per quanto e' noto) si e' occupata del problema ha respinto la domanda dei congiunti proposta iure proprio (Cass. n. 6938/1988, che ha, per altro, lasciato impregiudicata la via della trasmissione del diritto iure successionis). Ora, la essenzialita' della motivazione della s.c. (per altro intervenuta in un periodo in cui la riflessione sul danno alla salute anche oggi tutt'altro che esaurita, era sicuramente in una fase iniziale) non consente di valutare a fondo le ragioni della decisione. E' tuttavia, estremamente probabile che il suo non dichiarato supporto teorico stesse proprio in una interpretazione dell'art. 2043 del c.c. in chiave, per cosi' dire, patrimonialistica e, comunque, tale da rendere la norma inidonea a recepire quale danno ingiusto immediatamente risarcibile la violazione, in se' e per se' considerata, del diritto primario, costituzionalmente gararantito (col che tale interpretazione avrebbe ricevuto un autorevole, ancorche' implicito, suggello). Ma ulteriori contrasti (oltre quelli prima evidenziati) con l'art. 3 della Costituzione appaiono ancora rinvenibili nell'ambito della prospettazione del diritto come dovuto iure proprio. Indiscusso essendo (dopo i citati interventi della Corte costituzionale) in tutti gli altri diversi casi il risarcimento generale del danno alla salute, come danno centrale e presunto, per il solo fatto naturalistico della lesione della integrita' psico- somatica in quanto costituente violazione del diritto alla salute garantito come diritto assoluto ed inviolabile dall'art. 32 della Costituzione, si determinerebbe una inammissiblie disparita' di trattamento (in peggio) in riferimento a tutti quei soggetti che vedessero menomata la propria integrita' fisica a causa della morte di un familiare, piuttosto che a causa di un comportamento lesivo direttamente (senza che cio', per quanto prima detto, rilevi ex art. 1223 del c.c.) ed oggettivamente posto in essere nei propri confronti. Riceverebbero dall'ordinamento discipline profondamente diverse situazioni sostanzialmente identiche, essendo identiche le posizioni soggettive lese e, dunque, i corrispondenti diritti invocanti tutela. In conclusione, la duplice opzione interpretativa dell'art. 2043 del c.c. appare particolarmente lacerante su un terreno, quale quello in oggetto, in cui la certezza del diritto appare davvero una insopprimibile esigenza di equita' e di civilta'. La Corte costituzionale potra' far pervenire una parola chiara e forse definitiva anche su questa scottante problematica. In via subordinata, e sempre per le ragioni sopra esposte, dovra' sollevarsi altresi' questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2059 del c.c.