IL TRIBUNALE
    Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa civile a ruolo il
 25  ottobre  1991  e  segnata ai numeri 14242 del ruolo affari civili
 contenziosi dell'anno 1991, 2642 del ruolo generale della  sezione  e
 443  del  ruolo  del  giudice  istruttore, promossa da Sgrilli Piero,
 Sgrilli Leonardo, Sgrilli Laura, Nuti Bruna  (avv.  Piero  Cammelli),
 attori,  contro  Colzi  Marco  e  Meie Assicuratrice (avv. Gianfranco
 Mazzaglia), convenuti, avente  ad  oggetto:  risarcimento  danni  per
 morte del leso;
    Il tribunale, letti gli atti, sentito il presidente relatore;
                             O S S E R V A
    Gli attori, nella presente causa avente ad oggetto il risarcimento
 di  tutti  i  danni  conseguenti  il  decesso  del  proprio congiunto
 Pieraccioli Milena, hanno  chiesto  in  sede  di  precisazione  delle
 conclusioni   la   liquidazione   altresi'   del   danno  "biologico"
 conseguente la morte della stessa  Pieraccioli  e  su  tale  domanda,
 anche  se  la  si volesse considerare nuova, il contraddittorio si e'
 regolarmente costituito: si rammenta, infatti, che la  s.C.  ha  piu'
 volte  affermato  che  quando  una  domanda  nuova sia stata proposta
 soltanto nell'udienza di precisazione delle  conclusioni  definitive,
 l'inammissibilita'  di essa deve essere eccepita (il che non e' stato
 fatto)  nella  stessa  sede,  dovendo  ritenersi,  in  difetto  della
 relativa eccezione, implicitamente accettato il contraddittorio sulla
 medesima  (Cassazione  civile,  sezione seconda, 14 novembre 1989, n.
 4843; Cassazione civile, sezione terza,  10  giugno  1988,  n.  3956;
 Cassazione civile, sezione terza, 24 aprile 1987, n. 4040; Cassazione
 civile,  sezione  prima,  9 gennaio 1987, n. 72). Del resto, la parte
 convenuta  in  sede  di   comparsa   conclusionale   ha   palesemente
 contrastato  la  domanda, per presunta inammissibilita' dell'istituto
 nel  nostro  ordinamento,  con  cio'  determinando  una  accettazione
 addirittura espressa del contraddittorio.
    Sempre   in  sede  di  comparsa  conclusionale  gli  attori  hanno
 specificato  che  la  richiesta  deve  considerarsi   avanzata   iure
 successionis,  ma, poiche' in atto di citazione una tale qualita' non
 e' stata espressamente indicata, la domanda  puo'  altresi'  (o  piu'
 probabilmente  deve)  essere  esaminata  anche  in  quanto posta iure
 proprio.
    Appare, dunque, evidente la preliminare rilevanza della  questione
 inerente  l'accertamento  della  configurabilita'  dell'istituto alla
 luce del vigente sistema di norme costituzionale e ordinarie.
    Cio' posto, e' opinione del collegio che la  definizione  di  esso
 secondo  le linee tracciate dalle pronunce della Corte costituzionale
 e della Corte di cassazione induca a ritenere che nulla osti,  almeno
 in  astratto,  ad  una risposta affermativa (sotto l'uno ovvero sotto
 l'altro dei due indicati profili) e  che,  anzi,  una  tale  risposta
 appaia   coerente   con   i  principi  di  civilta'  giuridica  e  di
 ragionevolezza consacrati nella Carta costituzionale, di modo che  se
 norme  dell'ordinamento vigente, segnatamente l'art. 2043 del c.c. si
 ponessero come ostative alla concreta  attuazione  del  diritto  esse
 apparirebbero  gravemente sospette di illegittimita' costituzionale e
 la relativa questione assumerebbe  indubbia  rilevanza  ai  fini  del
 decidere, stante l'oggetto della domanda.
    La  questione dovra' allora essere esaminata separatemente secondo
 il duplice profilo prima evidenziato.
                  Danno alla salute iure successionis
    Appare preliminarmente opportuno evidenziare che non si tratta  di
 accertare   se  in  conseguenza  della  morte  del  soggetto  si  sia
 determinato un vero e proprio danno biologico  in  senso  stretto  (o
 fisiologico)  risarcibile,  ma se dalla lesione del diritto (alla sa-
 lute) tutelato dall'art. 32  della  Costituzione  o,  comunque  dalla
 lesione  del  diritto  alla  vita,  nasca  un  conseguente diritto al
 risarcimento del  danno  in  capo  agli  eredi  (tale,  indefinitiva,
 essendo l'oggettivo contenuto della domanda, al di la' del nome iuris
 -  danno  biologico  -  utilizzato,  che, per altro, era coerente con
 l'iniziale approccio all'istituto, per come si e' venuto storicamente
 determinando).
    Cio'  posto,  rileva il collegio che la negazione tout court della
 risarcibilita' del danno alla salute in  caso  di  morte  si  iscrive
 all'interno  di una visione teorica che risolve tale figura di danno,
 di costruzione affatto nuova,  in  una  dimensione  di  pretta  marca
 naturalistica,  alla  quale  fa  riferimento,  appunto,  la locuzione
 "danno biologico", ormai  di  comune  prassi.  Ma  cosi'  facendo  si
 dimentica  proprio  l'insegnamento della Consulta (sentenza 14 luglio
 1986, n. 184), che ha ammonito sulla possibile confusione fra  i  due
 termini,  ha  indicato  come preferibile l'espressione "lesione della
 salute", ha comunque (ed e' quel che  conta)  costruito  quest'ultima
 (seppure  nell'ambito  della  mera  lesione  della  integrita' psico-
 somatica e non gia' della  suo  soppressione  totale  in  conseguenza
 della morte del leso, che' quello e non questo era il problema di cui
 era  stata  chiamata ad occuparsi) come violazione del bene giuridico
 primario tutelato dall'art. 32 della Costituzione, offeso  dal  fatto
 realizzativo  della monomazione della integrita' fisica del soggetto:
 "la   lesione   del   bene   giuridico   salute    e'    l'intrinseca
 antigiuridicita'  obiettiva  del  danno biologico o fisiologico: essa
 appartiene  ad  una  dimensione  valutativa,   distinta   da   quella
 naturalistica,  alla  quale  fanno  riferimento  le  locuzioni 'danno
 biologico'  e   'danno   fisiologico'"   (Corte   costituzionale   n.
 184/1986).
    Ove ancora si consideri che la Corte ha ulteriormente chiarito che
 funzione  della  responsabilita' civile da fatto illecito e' non solo
 quella inerente alla reintegrazione del patrimonio  del  danneggiato,
 ma  altresi'  quella di pervenire e di sanzionare l'illecito (id est:
 danno alla salute come  "sanzione  riparatoria"),  che,  inoltre,  il
 danno  alla  salute attiene all'evento lesione in se' considerato (e,
 dunque, in quanto tale costituisce un danno presunto, "se e' vero che
 non  va  provato  alcun   effettivo   impedimento   delle   attivita'
 realizzative  del  soggetto  offeso"),  laddove gli altri e gia' noti
 tipi di danno (patrimoniale e non patrimoniale) si colgono sul  piano
 (distinto   temporalmente,   ma  soprattutto  ontologicamente)  delle
 conseguenze, allora  il  quadro  giuridico  risulta  sufficientemente
 chiaro  e  confortante  l'estensione  della  costruzione teorica alla
 ancor piu' pregnante ipotesi di violazione del diritto alla vita.
    Ne' pare che possa proficuamente obbiettarsi che di danno alla sa-
 lute in caso di morte del  leso  non  puo'  ragionevolmente  parlarsi
 posto  che tale evento sopprime in radice il diritto prima ancora che
 se ne possa configurare la lesione.
    In effetti, nell'ambito di un tale ordine di idee,  si  e'  ancora
 affermato  che  la  morte immediata ovvero "estremamente" ravvicinata
 rispetto al fatto lesivo impedisce di configurare un periodo di  vita
 apprezzabilmente  lungo nel quale il soggetto possa estrinsecarsi con
 ridotte potenzialita': in assenza di cio'  verrebbe  meno  la  stessa
 possibilita' di determinare l'entita' del pregiudizio.
    Pare  al  collegio  che  obbiezioni  siffatte, anche a prescindere
 dalla natura piu' pratica che teorica  della  seconda,  essendo  essa
 piuttosto  relativa  alla  quantificazione  del  danno  e  ad una sua
 presunta  difficolta'  (ma  non  si  vede  cosa  possa  impedire  una
 valutazione   equitativa   "a   priori"),   che   ad   una   astratta
 impossibilita'  di  configurazione,   siano   soprattutto   tali   da
 presupporre  una  lettura  restrittiva della norma di cui all'art. 32
 della  Costituzione  e  dello  stesso  danno  alla  salute,  il   cui
 risarcimento  -  si  e'  detto  -  assicurerebbe  il  ristoro  per il
 deterioramento  o  la  riduzione  delle  potenzialita'  (vitali)   in
 rapporto  alla  durata  della  menomazione  o  della  vita  del leso,
 successivamente al sinistro (tribunale Milano n.  5737  13  aprile-26
 giugno  1989):  orbene,  nessun  limite siffatto appare individuabile
 alla luce dell'art. 32 della Costituzione  o  della  costruzione  del
 danno  alla  salute  come teorizzato dalla sentenza n. 184/1986 della
 Corte costituzionale.
    Se  la  lesione  alla  salute  e'  l'intrinseca   antigiuridicita'
 obiettiva  dell'evento dannoso, del tutto distinto dalle conseguenze,
 appare evidente  che  l'evento  morte,  per  quanto  ravvicinato  sia
 all'evento  lesione,  non  puo'  che porsi ontologicamente, prima che
 temporalmente,  fra  le  conseguenze  del  fatto:  e',   cioe',   una
 conseguenza  della  violazione;  ma  la lesione del bene salute e con
 essa della norma costituzionale posta a garanzia di un bene  primario
 ovvero il danno evento, si e' gia' verificato.
    Sembra  al  collegio  che  una  tale  costruzione si iscriva in un
 processo di  interpretazione  giuridica  ormai  da  tempo  avviato  e
 caratterizzato  dalla  progressiva individuazione di nuovi interessi,
 di posizioni soggettive emergenti  meritevoli  di  tutela,  ancorche'
 sfornite  di  un immediato referente codicistico o normativo e dunque
 tali da richiedere un riferimento tratto direttamente dalla  primaria
 norma  costituzionale,  non relegata fra le disposizioni di principio
 necessitanti l'attuazione legislativa, sibbene direttamente applicata
 nei rapporti fra privati.
    E  questo  quadro  appare  sufficientemente  consolidato  se,   ad
 esempio,   e'  all'interno  di  esso  che  sembra  doversi  iscrivere
 Cassazione civile, sezione prima, 22 giugno 1985,  n.  3769,  che  ha
 sancito   che  l'interesse  della  persona,  fisica  o  giuridica,  a
 preservare la propria identita'  personale,  nel  senso  di  immagine
 sociale,  cioe'  di  coacervo  di  valori  (intellettuali,  politici,
 religiosi, professionali ecc.) rilevanti nella  rappresentazione  che
 di    essa   viene   data   nella   vita   di   relazione,   nonche',
 correlativamente,  ad  insorgere  contro  comportamenti  altrui   che
 menomino tale immagine, pur senza offendere l'onore o la reputazione,
 ovvero   ledere   il   nome   o  l'immagine  fisica,  deve  ritenersi
 qualificabile come posizione di diritto soggettivo, alla stregua  dei
 principi  fissati  dall'art.  2  della Costituzione in tema di difesa
 della personalita' nella complessita' ed unitarieta' di tutte le  sue
 componenti,  ed inoltre tutelabile anche con l'azione di risarcimento
 del danno.
    E puo' dirsi che sempre in questa ottica le sez.  un.  della  s.c.
 hanno  affermato  (in un passato neppure recente) che l'art. 32 della
 Costituzione, oltre che  ascrivere  alla  collettivita'  generale  la
 tutela  promozionale  della  salute  dell'uomo, configura il relativo
 diritto come diritto fondamentale dell'individuo e lo protegge in via
 primaria, incondizionata e assoluta come modo d'essere della  persona
 umana;   che   il  collegamento  dell'art.  32  con  l'art.  2  della
 Costituzione attribuisce al  diritto  alla  salute  un  contenuto  di
 socialita'  e  di  sicurezza, tale che esso si presenta non solo come
 mero diritto alla vita e  all'incolumita'  fisica,  ma  come  vero  e
 proprio   diritto   all'ambiente  salubre  che  neppure  la  pubblica
 amministrazione puo' sacrificare o  comprimere,  anche  se  agisca  a
 tutela  specifica  della  salute pubblica (Cassazione civile, sezione
 unica, 6 ottobre 1979, n. 5172).
    Ma  su questa strada insegnamenti non eludibili provengono proprio
 dalla Corte costituzionale, la quale ha sancito che sono illegittimi,
 per violazione dell'art. 2 della Costituzione, gli  artt.  10,  primo
 comma,  e 22 della legge 10 agosto 1950, n. 648, 9, primo comma, e 11
 della legge 18 marzo 1968, n. 313, 8, primo comma, 11 e 83 del d.P.R.
 23 dicembre 1978, n.  915,  nella  parte  in  cui  non  prevedono  un
 trattamento  pensionistico di guerra che indennizzi i danni anche non
 patrimoniali patiti dalle vittime di violenze  carnali  consumate  in
 occasione di fatti bellici (Corte costituzionale 18 dicembre 1987, n.
 561),   cosi'   affermando  la  tutela  risarcitoria  della  liberta'
 sessuale,  in  virtu'  della  collocazione  di  essa  tra  i  diritti
 inviolabili garantiti dall'art. 2 della Costituzione;
      che  ha  sancito  che  il  fondo di garanzia delle vittime della
 strada, istituito presso l'INA con l'art. 19 della legge n. 990/1969,
 ha un carattere solidaristico e che tale carattere solidaristico  non
 esclude,  ne'  limita in alcun modo la natura risarcitoria e non gia'
 indennitaria della prestazione garantita  dall'intervento  del  fondo
 (Corte costituzionale 18 dicembre 1987, n. 560);
      che  l'ambiente  e'  un  bene  immateriale  unitario,  ancorche'
 costituito da una pluralita' di  componenti,  sicche'  la  protezione
 ambientale  e'  preordinata  alla salvaguardia dell'habitat nel quale
 l'uomo  vive  e  il  danno  all'ambiente  e'  correttamente  inserito
 nell'ambito   e   nello   schema   della   tutela   aquiliana  (Corte
 costituzionale, sezione 1, legge 30 dicembre 1987, n. 641).
    Si tratta sempre, in definitiva, della affermazione del  principio
 secondo  cui le violazioni di posizioni soggettive riconosciute dalla
 norma primaria si traducono,  in  sostanza,  nella  vanificazione  di
 finalita'  protettive  e  solidaristiche  e  per  se' stesse, dunque,
 costituiscono danno, a prescindere dalle eventuali conseguenze  delle
 violazioni stesse, idonee, se del caso, ad integrare danni ulteriori.
    Ora,  se  cosi'  e',  non  si vede come in astratto possa apparire
 degno di integrare una posizione giuridica meritevole di tutela, e la
 cui violazione sia idonea a determinare effetti risarcitori in quanto
 tale, cioe'  a  prescindere  dalle  conseguenze  possibili,  ma  solo
 eventuali  (non  solo  per  quanto  attiene al danno patrimoniale, ma
 altresi' per quanto attiene al danno morale, stante la norma  di  cui
 all'art.  2059  del  c.c.),  il diritto alla vita, che, al contrario,
 rispetto alla persona umana, si configura  come  diritto  sommo,  che
 tutti gli altri riassume e condiziona.
    Sarebbe    irragionevole   ipotizzare   che   l'evoluzione   della
 responsabilita' civile alla luce di una lettura costituzionale  della
 stessa  debba  arretrare  proprio  sulla  soglia  di uno dei principi
 cardine fra quelli  protetti  dalla  Carta  costituzionale,  laddove,
 invece,  essa  sarebbe  ragionevolmente  chiamata  a  manifestare  il
 massimo  grado  della  sua  teorica  possibilita'  di  espansione  ed
 operativita'.
    Affermare, come pure si e' fatto, che al diritto alla salute resta
 estraneo  quello  alla  vita,  perche'  il  primo  presuppone  che il
 soggetto leso pur  sempre  vi  sia  (gode  di  salute,  piu'  o  meno
 compromessa, solo chi vive e la salute sarebbe solo ed esclusivamente
 un  modo  di  essere  della  vita),  laddove  la  eventuale rilevanza
 risarcitoria della lesione del secondo presuppone che il soggetto non
 sia piu', costituisce, a parere del collegio, affermazione  banale  a
 fronte  della  drammatica  rilevanza  del  problema  in  oggetto,  ma
 soprattutto considerazione irrilevante.
    Rilevante sarebbe solo l'affermazione  (ove  sostenibile)  che  il
 diritto alla vita non trova riconoscimento nella Carta costituzionale
 (ma  invece  solo  nel codice penale, come anche si e' sostenuto), ma
 essendo ovviamente vero il contrario  poco  conta  che  la  norma  di
 riferimento  sia l'art. 32 della Costituzione o il combinato disposto
 di entrambe le norme. In  ciascuno  di  questi  casi,  resta  che  il
 diritto  alla  vita  viene  a  costituire non gia' solo oggetto di un
 riferimento programmatico da parte  della  Costituzione,  ma  diviene
 posizione  soggettiva  idonea  ad  essere  tutelata  nell'ambito  dei
 rapporti interprivatistici, per la violazione in quanto  tale  (danno
 evento)  di  un bene giuridico primario offeso dal fatto realizzativo
 della morte del soggetto, che si risolve  nella  totale  soppressione
 della  sua  integrita'  psico-fisica:  "la lesione del bene giuridico
 vita e' l'intrinseca antigiuridicita' obiettiva del danno".
    Ne'  tale  costruzione  teorica  puo'  essere  paralizzata   dalla
 osservazione che la fattispecie appare analoga a quella del danno mo-
 rale, che viene si riconosciuto agli eredi, ma come diritto proprio e
 non  iure  successionis  come diritto gia' entrato nel patrimonio del
 soggetto leso: in relata', e' la analogia, solo apparente,  che  deve
 essere  negata,  essendo  il  danno alla salute un danno evento (come
 tale idoneo ad entrare nel  patrimonio  del  danneggiato  al  momento
 stesso  della  violazione  del  diritto  alla vita per il tramite del
 fatto  realizzativo  del  danno  biologico   in   senso   stretto   o
 fisiologico, cioe' dell'evento naturalistico costituito dalla lesione
 mortale)   ed   essendo,   al   contrario,  quello  morale  un  danno
 conseguenza, inidoneo  a  sopravvivere  all'evento  naturalistico  (e
 dunque ad entrare nel patrimonio del leso), allorche' tale evento sia
 la morte del soggetto.
    Il  vero  problema  che,  invece,  a  questo punto si prospetta e'
 quello di accertare se il dettato costituzionale non rischi di venire
 vanificato dalla  normativa  ordinaria  e,  in  particolare,  da  una
 interpretazione  dell'art. 2043 del c.c., che pur mortificando la sua
 possibile valenza di strumento idoneo alla protezione dei valori  che
 la  Costituzione prevede ed assicura, tra cui assume rilievo precipuo
 il principio della solidarieta', tuttavia si ponga  come  necessitata
 per  l'interprete  ordinario, tant'e' che spesso le numerose sentenze
 di merito (non e' forse casuale che la  s.c.  abbia  avuto  solo  una
 occasione di pronuncia: Cassazione civile 20 dicembre 1988, n. 6938),
 che hanno escluso la risarcibilita' del danno in oggetto, piu' o meno
 dichiaratamente  in  qualche modo la presuppongono (la giurisprudenza
 in senso contrario al riconoscimento  del  diritto  va  da  tribunale
 Milano  7  gennaio  1988  a  tribunale  Ancona 24 maggio 1991, fino a
 tribunale Firenze  12  gennaio  1993,  che  di  tale  interpretazione
 contiene  una  compiuta teorizzazione; in senso favorevole si citano:
 corte appello Roma 4 giugno 1992, tribunale Treviso  26  marzo  1992,
 tribunale  Treviso  5  marzo  1992,  tribunale Treviso 5 maggio 1992,
 tribunale Firenze 18 novembre 1991, tribunale Napoli 6 febbraio 1991,
 tribunale Milano 4 giugno 1990).
    Non sfugge, infatti, che  una  lettura  dell'art.  2043  del  c.c.
 all'interno del titolo IX del libro IV del codice civile puo' indurre
 a  ritenere  risarcibile  il  solo  danno  produttivo  di conseguenze
 patrimoniali.
    L'ingiustizia   del   danno   risarcibile,   alla   luce   di  una
 interpretazione  letterale  della   norma   e   del   sistema   della
 responsabilita'  extracontrattuale  al cui interno essa e' collocata,
 non potrebbe rinvenirsi nell'evento stesso della lesione (parziale  o
 assoluta)  del  bene  protetto, cioe' nel fatto dannoso, ma nel danno
 gia' verificato.
    Il  fatto  o  l'evento  che  determina  la  responsabilita'  e  le
 conseguenze  dannose  verrebbero  a  concretizzare  due momenti di un
 processo causale, che  si  snoda  in  due  fasi  distinte:  la  prima
 tenedente  a  ricostruire  il fatto dannoso attraverso la ricerca del
 collegamento materiale tra condotta ed evento,  come  tale  idonea  a
 sfociare  in  un  giudizio di causalita' in fatto, la seconda diretta
 alla ricerca del collegamento giuridico tra il fatto e le conseguenze
 dannose e alla determinazione dei limiti da porre alla serie di  tali
 conseguenze.
    Il danno ingiusto risarcibile ai sensi della norma di cui all'art.
 2043 del c.c. non potrebbe in nessun modo indentificarsi con l'evento
 in  quanto tale, cioe' con la lesione del diritto assoluto di per se'
 considerata, ma si sostanzierebbe necessariamente con la  conseguenza
 patrimoniale  del  fatto  determinante  la  responsabilita' (donde il
 danno alla salute, pur  nella  ipotesi  di  sicura  risarcibilita'  a
 seguito  della  semplice  lesione della integrita' psico-somatica del
 soggetto leso si  colorerebbe  necessariamente  del  requisito  della
 patrimonialita').
    Non  essendo  sufficiente  la mera lesione dell'interesse protetto
 (circostanza di per se' inidonea a completare la fattispecie dannosa,
 ma rilevante solo ai fini della individuazione  del  requisito  della
 ingiustizia  dell'eventuale e successivo danno), non si avrebbe danno
 risarcibile senza alterazione in peggio di utilita' economiche e cio'
 comporterebbe in radice la negazione della risarcibilita'  del  danno
 in  se'  (a  prescindere,  cioe',  dalle  eventuali,  ma  non  sempre
 sussistenti, conseguenze patrimoniali direttamente  verificatesi  nel
 patrimonio  degli eredi o da quelle non patrimoniali, pure eventuali,
 stanti i limiti di cui all'art. 2059 del  c.c.)  per  violazione  del
 diritto  alla  vita,  perche'  in caso di decesso il fatto dannoso si
 completa con  la  morte  ovvero  con  l'evento  naturalistico  finale
 attribuibile  all'agente mediante criteri legali di imputazione (dolo
 o colpa) sanciti dall'art. 2043 del c.c.
    Certo,  pare  al  collegio   che   questa   sia   una   concezione
 tradizionale,  e,  per  cosi'  dire,  in  qualche  modo  datata della
 responsabilita' civile, ma non percio' stesso  agevolmente  eludibile
 da  parte  del  giudice di merito o percio' stesso qualificabile come
 manifestamente infondata.
    Ma  se  cosi'   dovesse   essere,   perche'   cosi'   impone   una
 interpretazione  letterale  e sistematica della norma, non sembra che
 l'art. 2043 del c.c., nella parte in cui non potrebbe  consentire  il
 risarcimento   del  danno  conseguente  la  violazione,  di  per  se'
 considerata, del primario diritto dell'essere umano, sfugga a pesanti
 sospetti di legittimita' costituzionale per contrasto con gli artt. 2
 e 32 della Costituzione, con il principio  di  ragionevolezza  e,  in
 definitiva e piu' in generale, con i fondamenti stessi della civilta'
 giuridica.
    L'esclusione  della  tutela  risarcitoria  per il solo fatto della
 lesione del diritto, a prescindere dalle sue  conseguenze  di  ordine
 patrimoniale  o  morale,  oltre  a  contraddire la lettura dei valori
 primari  costituzionalmente  garantiti  come  idonei  a   determinare
 posizioni  soggettive  immediatamente  degne  di tutela, porterebbe a
 conseguenze abnormi in  casi  che,  solo  apparentemente,  potrebbero
 considerarsi  casi limite: si pensi alla morte di un bambino rispetto
 alla quale si configuri solo una responsabilita'  presunta  a  carico
 del soggetto agente.
    Orbene,  del  tutto  improbabili  (e,  comunque,  solo ipotetiche)
 essendo conseguenze di ordine patrimoniale e dovendosi escludere  del
 tutto  una  qualsiasi  responsabilita'  penale,  con  conseguente non
 risarcibilita' altresi' del danno morale ai sensi dell'art. 2059  del
 c.c.  e  185,  secondo  comma,  del  c.p.,  un  evento  di tal genere
 risulterebbe del tutto irrilevante e neutro rispetto  all'ordinamento
 giuridico  per  difetto  di  qualsiasi  possibilita'  di reazione: il
 conclamato principio della tutela della vita umana  resterebbe  vuota
 affermazione priva di contenuto.
    Ma un ulteriore possibile profilo di illegittimita' costituzionale
 sembra  doversi  ancora  rinvenire  in  riferimento  all'art. 3 della
 Costituzione.
    E' noto che con recenti interventi (sentenze n. 87 del 15 febbraio
 1991, n. 356 del 18 luglio 1991 e n. 485 del 27  dicembre  1991),  la
 Corte   costituzionale   ha   proseguito   l'opera   di   definizione
 dell'istituto del danno alla salute iniziata con le pronunce n. 87  e
 n. 88 del 26 luglio 1979.
    In  particolare ha stabilito che e' costituzionalmente illegittimo
 - per contrasto con gli art. 2, 3,  32  e  38  della  Costituzione  -
 l'art.  10,  sesto  e  settimo  comma,  del  t.u.  sull'assicurazione
 obbligatoria  contro  gli  infortuni  sul  lavoro   e   le   malattie
 professionali,  approvato  con  d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, nella
 parte in cui prevede che il lavoratore infortunato o  i  suoi  aventi
 causa   hanno   diritto,   nei  confronti  delle  persone  civilmente
 responsabili per  il  reato  da  cui  l'infortunio  e'  derivato,  al
 risarcimento  del  danno  biologico  non  collegato  alla  perdita  o
 riduzione della capacita' lavorativa generica solo se  e  solo  nella
 misura  in  cui  il  danno risarcibile, complessivamente considerato,
 superi  l'ammontare  delle  indennita'  corrisposte   dall'I.N.A.I.L.
 (Corte costituzionale 27 dicembre 1991, n. 485).
    Ma   la  Consulta  aveva  precedentemente  stabilito  che  poiche'
 l'esonero del datore di lavoro dalla  responsabilita'  civile  per  i
 danni  subiti  dal  lavoratore infortunato, di cui all'art. 10, primo
 comma del t.u.  delle  disposizioni  sull'assicurazione  obbligatoria
 contro   gli  infortuni  sul  lavoro  e  le  malattie  professionali,
 approvato con d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, non riguarda  anche  il
 risarcimento  del  danno  da lesione del diritto alla salute (o danno
 biologico) per gli effetti non  collegati  all'eventuale  diminuzione
 della    capacita'   lavorativa,   la   questione   di   legittimita'
 costituzionale della norma citata -  proposta,  in  riferimento  agli
 art.  3,  32  e  38  della  Costituzione  sotto  il  profilo che essa
 sacrificherebbe la tutela del diritto alla salute -  non  e'  fondata
 (Corte costituzionale 18 luglio 1991, n. 356).
    Ora,  con  tale  pronuncia  la  Corte  ha  ritenuto  estranea alla
 copertura previdenziale il risarcimento del danno alla salute  almeno
 per  quella  parte  di  esso  che  non appare riconducibile alla mera
 attitudine a produrre reddito, ma si ricollega agli  altri  ambiti  e
 modi  nei  quali il soggetto svolge la sua personalita' nella propria
 vita.
    La pronuncia, letta a contrariis, induce  allora  a  ritenere  che
 almeno  per  una parte l'indennita' assicurativa copra effettivamente
 il  danno  alla  salute,  con  cio'  rendendosi  meno  divaricata  la
 divisione fra illecito previdenziale ed illecito civile, pur di fatto
 sussistente   e,   pertanto,   legittimante  il  "chiaro  invito"  al
 legislatore affinche' questi addivenga ad una  radicale  riforma  del
 sistema  assicurativo  (si  veda,  altresi',  la sentenza della Corte
 costituzionale  15  febbraio  1991,  n.   87,   che   ha   dichiarato
 inammissibile la questione di legittimita' costituzionale degli artt.
 2,  3  e  74  d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, inammissibilita' che e'
 stata,  pero',  dalla  Corte  ritenuta  solo  per  il  rilievo   che,
 altrimenti,  si  sarebbe  determinata  una  innovazione  normativa di
 spettanza   del   legislatore,   pur   tuttavia   denunciandosi    la
 irragionevolezza della disparita' di trattamento).
    Resta,  comunque,  il  fatto  in  se' della natura composita della
 indennita' previdenziale (che comprende, seppure in parte,  il  danno
 alla  salute) e che essa, come tale, ai sensi dell'art. 10 del d.P.R.
 30 giugno 1965, n. 1124, spetta altresi'  ai  familirai  in  caso  di
 morte del lavoratore infortunato.
    In  definitiva,  sembra  al collegio giudicante che per questa via
 risulti (attraverso la lettura coordinata delle citate pronunce)  che
 la  Corte  costituzionale  abbia  gia'  ammesso la legittimita' della
 configurazione del diritto in capo agli  eredi  o  ai  familiari  del
 risarcimento del danno alla salute per morte del leso, si e' vero che
 le  prestazioni  previdenziali  in  conformita'  con  l'art. 38 della
 Costituzione, comprendono una serie di provvidenze,  che  prescindono
 dall'effettiva perdita di guadagno dell'infortunato (essendo altresi'
 comprensive del danno alla salute almeno per quella parte di esso che
 appare  riconducibile  alla mera attitudine a produrre reddito) e che
 "tendono ad adeguare l'identita' dell'indennizzo all'esigenza di vita
 del lavoratore e, in caso di sua morte,  dei  suoi  familiari"  cosi'
 testualmente Corte costituzionale n. 485/1991).
    Se,   al   contrario,  all'interno  della  responsabilita'  civile
 ordinaria non fosse possibile alla stregua  della  vigente  normativa
 addivenire  ad  un  riconoscimento  analogo (sia per trasmissione del
 diritto iure successionis, sia per  attribuzione  dello  stesso  iure
 proprio,  secondo la prospettazione che segue), non sembra dubbio che
 si verificherebbe  una  inammissibile  violazione  del  principio  di
 uguaglianza  e,  dunque,  dell'art.  3 della Costituzione: l'illecito
 previdenziale,  infatti,   riceverebbe   un   trattamento   giuridico
 privilegiato   (sotto   il   profilo   che  qui  interessa)  rispetto
 all'illecito  civile,  tutte  le  volte   in   cui   la   conseguenza
 dell'illecito stesso fosse la morte del soggetto leso.
    Da  ultimo,  e  subordinatamente, si rileva che se le osservazioni
 fin'ora svolte dovessero essere considerate prive di  sostanza  e  la
 interpretazione  dell'art.  2043  del  c.c.,  come  norma  diretta  a
 tutelare  le  sole  conseguenze  patrimoniali  del  fatto   illecito,
 corretta  ed  intangibile,  non  resterebbe  al  danno conseguente la
 violazione  di  per  se'  considerata  del  diritto  alla  vita   che
 transitare  attraverso la norma di cui all'art. 2059 del c.c. Le note
 strettoie  di  tale  norma,  che  consentono  il  risarcimento   solo
 allorche'  l'illecito  civile  costituisca  altresi' illecito pernale
 (salvo altre rare e residuali ipotesi),  riproporrebbe  nuovamente  e
 con  forza la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2059
 del c.c. per tutte le ragioni sopra esposte.
    In via subordinata, pertanto, anche tale questione,  oltre  quella
 relativa all'art. 2043 del c.c. dovra' essere sollevata dal collegio.
                    Danno alla salute iure proprio
    Il  secondo  profilo  dell'istituto  che adesso corre l'obbligo di
 esaminare integra  secondo  l'opionione  del  collegio  una  naturale
 evoluzione  del  concetto  teorico di danno alla salute (o di lesione
 della  salute),  ormai  configurabile  alla  stregua  della  costante
 interpretazione  giurisprudenziale  come  menomazione dell'integrita'
 psico-fisica della persona in se' e per se' considerata e, come tale,
 incidente sul valore uomo in tutta la sua  concreta  dimensione,  che
 non  si  esaurisce  nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si
 collega alla somma delle  funzioni  naturali  afferenti  al  soggetto
 nell'ambiente  in cui la vita si esplica ed aventi rilevanza non solo
 economica, ma anche biologica,  sociale,  culturale  ed  estetica  e,
 percio', tutelata dall'art. 32 della Costituzione.
    Ed  in  effetti, in parallelo con la progressiva definizione della
 lesione del dirtto alla salute, sta la  correlata  riflessione  della
 scienza  medico-legale  e di quella giuridica che ha portato, come e'
 noto, a porre in crisi  la  tradizionale  nozione  della  invalidita'
 lavorativa  generica,  siccome  indadeguata  ed  idonea a determinare
 ingiustizie risarcitorie perche'  modellata  su  un  tipo  di  lavoro
 agricolo  ed  industriale tutto basato sulla forza fisica, allo stato
 non piu' attuale (specie ad di fuori della materia previdenziale),  e
 per  converso  a  porre  come centrale l'accertamento della riduzione
 della integrita' psico-somatica o psico-fisica del soggetto  leso  (a
 tale  piu' moderna concezione fa' altresi' riferimento la sentenza n.
 184/1986 della Corte costituzionale).
    La differenza non e' da poco, come appare chiaro  ove  si  osservi
 che   la  prima  nozione  costituisce  o  costituiva  il  fulcro  del
 risarcimento del danno patrimoniale alla persona, laddove la  seconda
 appare  in  diretta correlazione col danno biologico in senso stretto
 (o fisiologico), cioe'  con  la  lesione  naturalisticamente  intesa,
 ancorche'  valutata  in  tutti i suoi possibili riflessi, non solo di
 natura economica, ma anche biologica, psichica, sociale, culturale ed
 estetica:  si  trattava,  in  definitiva,  di  cogliere   il   valore
 morfologico funzionale della lesione in tutta la sua pienezza.
    Certo  la lesione della integrita' psicofisica (danno biologico in
 senso stretto o fisiologico) appare strettamente collegata  al  danno
 alla  salute,  nel senso che la prima costituisce il parametro per la
 liquidazione (equitativa) del secondo,  ma  le  due  nozioni  restano
 ontologicamente  distinte  come appare chiaro solo che si rilevi come
 la prima (in quanto evento naturalistico del fatto offensivo del bene
 giuridicamente tutelato salute:  Corte  costituzionale  n.  184/1986)
 realizza  altresi'  il parametro per la liquidazione delle ulteriori,
 ma questa  volta  solo  eventuali,  forme  di  danno:  quello  morale
 (eventuale  stante  la  norma di cui all'art. 2059 del c.c.) e quello
 partimoniale (esso pure meramente eventuale).
    Si tratta, in definitiva, della distinzione fra danno biologico in
 senso proprio o in senso stretto (nozione medico-legale), inteso come
 lesione della preesistente integrita' psico-fisica  del  soggetto,  e
 danno  alla  salute  (nozione  esclusivamente giuridica), inteso come
 violazione    (compiuta   mediante   la   realizzazione   dell'evento
 naturalistico integrante il primo) del corrispondente  diritto,  alla
 salute  appunto  tutelato  dall'art. 32 della Costituzione, letto non
 gia' come norma  programmatica  o  comunque,  volta  alla  tutela  di
 interessi  collettivi,  ma  come  norma  direttamente  operativa gia'
 nell'ambito dei rapporti intersoggettivi.
    Il primo rappresenta il presupposto (naturalistico)  di  qualsiasi
 tipo   di   risarcimento   del   danno,  vuoi  patrimoniale  che  non
 patrimoniale; il  secondo  rappresenta  uno  dei  danni  risarcibili,
 ancorche'  quello  centrale  ed  indefettibile  (in quanto presunto e
 giuridicamente  valutato:  cosi'  ancora  Corte   costituzionale   n.
 184/1986).
    Se  cosi'  e',  non  si vede quale ostacolo possa porsi, almeno in
 astratto   (cioe'   in   riferimento   alla   costruzione   dommatica
 dell'istituto)  a  ritenere che in presenza e a causa della morte del
 soggeto leso si determini l'evento (naturalistico) di  una  rilevante
 lesione  della  integrita'  psico-fisica  (con evidente accentuazione
 dell'aspetto psichico della stessa) in danno degli stretti congiunti.
    Non si potra' negare (ma sono solo esempi) che per un  minore  nel
 pieno della sua eta' evolutiva la improvvisa e violenta perdita di un
 fratello  o  di  un  genitore  costituisca  evento  traumatizzante  e
 condizionante il suo futuro sviluppo psicologico  ed  affettivo,  con
 ripercussioni  dirette  nella  sfera del suo modo di essere attuale e
 futuro nella vita; del pari, neppure si potra' negare che  anche  per
 un  adulto  la  perdita  del coniuge o del figlio costituisca un dato
 stravolgente la sua concreta e  preesistente  dimensione  dell'essere
 individuo,  con  concreta ed evidente riduzione o alterazione del suo
 operare nell'ambiente in cui la vita si esplica in tutte le sue  piu'
 diverse  manifestazioni:  di quel modo di essere sicuramente tutelato
 dall'art. 32 della Costituzione, come diritto alla salute.
    Che un danno siffatto possa (come pure e' stato detto) in  qualche
 modo  confondersi  col danno morale subiettivo, che si sostanzia solo
 ed esclusivamente "nel transeunte turbamento psicologico del soggetto
 offeso" (Corte costituzionale n. 184/1986), va radicalmente  escluso,
 pena  la  confusione fra nozioni completamente diverse, quali sono il
 danno evento ed il danno conseguenza (fra i quali rientra appunto  il
 danno morale).
    Risarcendo,  sotto il profilo della lesione della salute, il danno
 per menomazione della integrita' psico-somatica conseguente la  morte
 del  congiunto  si prende in considerazione l'evento in se' e per se'
 valutato della violazione  di  un  bene  primario  costituzionalmente
 garantito;   risarcendo,   invece,  il  danno  morale  si  prende  in
 considerazione un effetto pregiudizievole di quella lesione, e  cio',
 per  altro,  solo  nel  caso che esso assuma giuridica rilevanza ( ex
 art. 2059 del c.c.).
    Del resto, come e' esperienza comune, il  dolore  soggettivo  (per
 quanto intenso possa essere) e' tendenzialmente transitorio, ma anche
 quando  il  tempo  ne  ha fatto giustizia resta, in presenza di fatti
 altamente traumatizzanti, lo status  di  alterazione  delle  facolta'
 vitali  e  realizzative  del  soggetto  e  cio' anche al di la' della
 consapevolezza che questi possa o non possa  averne.  Ma  proprio  in
 questo  sta  il  danno che si ritiene debba trovare piena accoglienza
 nel nostro ordinamento).
    In  definitiva,  il  danno  alla salute (anche sotto il profilo in
 esame) non appare confondibile con quello morale, cosi' come  questo,
 per  il  passato,  non  appariva confondibile con quello alla vita di
 relazione, che del danno alla salute e' stato uno  degli  antecedenti
 logici   (eppure   entrambi,  diversamente  da  quello  alla  salute,
 costituivano ugualmente danni conseguenza).
    Sotto  altro  profilo,  neppure   la   astratta   configurabilita'
 dell'istituto  sembra  poter  patire  limitazioni in riferimento alla
 norma di cui all'art. 1223 del c.c. (richiamato  dall'art.  2056  del
 c.c.),  ostacolo  anche  di  recente  frapposto dalla s.c. in tema di
 danno morale per le ipotesi di lesioni dolose sofferte  dal  prossimo
 congiunto (Cass. 16 dicembre 1988, n. 6854).
    In  realta',  e'  proprio  l'insegnamento  della s.c. ad essere di
 conforto,   avendo   essa   desunto   la    irrisarcibilita'    dalla
 considerazione dell'essere di norma risarcibile il danno direttamente
 cagionato   alla   vittima,   ma   affermando  altresi'  che  se  poi
 quest'ultima, per essere stata resa in condizioni vegetative, non  e'
 piu'  in  grado  di soffrire moralmente, allora si' che il dolore del
 parente omisso  medio,  si  collega  direttamente  ed  immediatamente
 all'evento  e  diviene danno risarcibile (cosi' Cass. 2 novembre 1983
 in rep. Foro it. 1983, voce danni civili; Cassazione penale,  sezione
 quarta,  9  giugno  1983,  secondo  la  quale se le lesioni riportate
 dall'offeso  e  i  postumi  invalidanti  sono   talmente   gravi   da
 determinare  la  perdita  delle  piu' importanti funzioni e capacita'
 dell'individuo, si' che egli si riduce ad una mera  vita  vegetativa,
 il  danno  morale  dei  prossimi congiunti diviene danno risarcibile,
 dovendosi un  tale  stato  assimilare  alla  morte  dell'offeso,  con
 conseguente   pregiudizio   morale,   direttamente  e  immediatamente
 ricadente sui parenti).
    Il che e', come ovvio, cio' che accade sempre nel  caso  di  morte
 del leso, salvo che non si ritenga che il diritto al risarcimento per
 soppressione del diritto alla salute (alla vita) sia gia' entrato nel
 patrimonio  del  soggetto  deceduto  e  sia allora trasmissibile iure
 successionis, con cio' ritenendo fondata la prima delle  due  esposte
 prospettazioni.
    Deve   a  questo  punto  osservare  il  collegio  che  proprio  la
 configurazione del danno in oggetto come dovuto iure  proprio  sembra
 apparire  non  solo  di piu' agevole costruzione, ma forse anche piu'
 corretta nelle sue conseguenze concrete.
    Una volta sganciata la titolarita' del diritto dalla mera qualita'
 di erede, assume rilevanza la posizione di stretto congiunto, il  che
 si traduce non soltanto nella teorica eventualita' di riduzione delle
 ipotesi  risarcitorie, ma soprattutto nella possibilita' effettiva di
 individuare rispetto a quali soggetti il danno si sia  effettivamente
 verificato  ed  in  quale misura (e ovvio, infatti, che non tutti gli
 stretti congiunti subiscono allo stesso modo e con pari incidenza una
 riduzione della propria integrita'  psico-somatica  a  seguito  della
 morte del familiare).
   E'  altresi'  aperta  la  via  della  prova  contraria, cioe' della
 insussistenza  del  danno   allorche'   l'esclusione   si   legittimi
 ragionevolmente  alla luce degli effettivi rapporti intercorsi fra il
 soggetto  astrattamente  titolare  del  diritto  e  quello  deceduto,
 rapporti  che  in  ipotesi potrebbero essere assai diversi rispetto a
 quelli in generale ipottizzabili in riferimento dei legami parentali.
    Ne'  tale  conclusione  potrebbe  apparire  contradditoria  con la
 affermata centralita' del danno alla salute, da ritenersi presunto  e
 giuridicamente individuabile e valutabile: non si tratta, infatti, di
 accertare  (con  possibilita'  di  esclusione) l'esistenza o meno del
 danno alla salute in  presenza  della  menomazione  della  integrita'
 psico-somatica  (che  cio'  davvero contraddirebbe i principi), ma di
 accertare (con possibilita' di esclusione) proprio l'esistenza  della
 menomazione  stessa, cioe' dell'evento naturalistico (danno biologico
 in  senso  stretto  o  fisiologico)  del  fatto  offensivo  del  bene
 tutelato,  che  una volta accertato, ma solo allora, rende presunto e
 centrale il relativo danno (alla salute).
    Da ultimo, si rileva che la configurazione del diritto in  oggetto
 come  diritto iure proprio consentirebbe di superare quella possibile
 obbiezione prospettabile nei confronti della costruzione dello stesso
 come diritto azionabile iure successionis, obbiezione derivante dalla
 affermata natura di diritto personalissimo del diritto alla salute (o
 alla vita), ancorche' debba rilevarsi che non si tratterebbe comunque
 di trasmettere un diritto che in ipotesi non c'e' piu', ma semmai  di
 trasmettere  un  diritto  al  risarcimento  del  danno, entrato a far
 parte, anche se solo per un istante, nel patrimonio della vittima  in
 conseguenza  di  quel  "non  esserci piu'" del diritto alla salute (o
 alla vita),  soppresso  a  seguito  dell'altrui  fatto  ingiusto  (in
 definitiva,  cio'  che  e' personale e, dunque, intrasmissibile e' il
 diritto leso ed il suo esercizio, non pure il diritto di credito  che
 la sua lesione determina).
    Se,  per le ragioni fin'ora esposte, neppure il secondo profilo in
 esame dell'istituto sembra essere astrattamente  confutabile,  almeno
 secondo  il  pensiero di questo collegio, ancora una volta, tuttavia,
 deve porsi il problema della concreta possibilita' di attuazione  dei
 principi costituzionali alla luce della normativa ordinaria.
    Ancora   una  volta,  l'interpretazione  letterale  e  sistematica
 dell'art. 2043 del c.c. (nell'ambito  delle  norme  disciplinanti  la
 responsabilita'   extracontrattuale)  puo'  frapporre  ostacoli,  non
 manifestamente inconsistenti, alla effettiva espansione di un diritto
 fondamentale secondo le linee che  il  rilievo  costituzionale  dello
 stesso sembrano imporre di necessita'.
   Ed  infatti,  il  diritto  alla  salute  non ha, ne' potrebbe avere
 secondo la sua ormai pacifica costruzione, connotazioni  patrimoniali
 (Corte  costituzionale  n. 184/1986, ma anche Cass. 20 dicembre 1988,
 n. 6938, Cass. 5 settembre 1988, n. 5033, Cass.  10  marzo  1988,  n.
 2383;  in  precedenza  Cass.  20 agosto 1984, n. 4661: Cass. 6 aprile
 1983, n. 2396), tant'e' che la stessa astratta attitudine a  produrre
 reddito  assume  rilevanza  all'interno della lesione alla salute non
 come concreta capacita'  produttiva,  la  cui  (eventuale)  riduzione
 integrera',   se   del   caso,  un  successivo  e  conseguente  danno
 (patrimoniale, appunto), ma come piu' generale  aspetto  di  uno  dei
 possibili  modi  in  cui il soggetto svolge la sua personalita' nella
 propria vita; ma allora ne deriverebbe che gli stretti congiunti, che
 pure a causa della morte del parente  abbiano  effettivamente  subito
 una apprezzabile menomazione della propria integrita' psico-somatica,
 non  porebbero  invocare la tutela dell'art. 2043 del c.c., posto che
 l'ingiustizia del danno risarcibile, secondo la interpretazione prima
 delineata,  non  prescinderebbe  dalla  alterazione  in   peggio   di
 pregresse utilita' economiche.
   Sul  punto  si  richiamano,  pertanto,  le  osservazioni tutte gia'
 svolte in relazione allo specifico punto in  sede  di  configurazione
 del danno in parola iure successionis e le relative conseguenze sotto
 il  profilo  dei  connessi dubbi di legittimita' costituzionale della
 norma di cui all'art. 2043 del c.c. per contrasto con gli artt.  2  e
 32  della  Costituzione,  con  il  principio  di ragionevolezza e, in
 definitiva e piu' in generale, con i fondamenti stessi della civilta'
 giuridica.
    Non  e',  inoltre,  senza  rilievo  rammentare  che  la  Corte  di
 cassazione  nell'unica  sentenza  in  cui  (per quanto e' noto) si e'
 occupata del problema ha respinto la domanda dei  congiunti  proposta
 iure  proprio  (Cass.  n.  6938/1988,  che  ha,  per  altro, lasciato
 impregiudicata  la  via   della   trasmissione   del   diritto   iure
 successionis).
    Ora,  la  essenzialita'  della  motivazione  della s.c. (per altro
 intervenuta in un periodo in cui la riflessione sul danno alla salute
 anche oggi tutt'altro che  esaurita,  era  sicuramente  in  una  fase
 iniziale)   non  consente  di  valutare  a  fondo  le  ragioni  della
 decisione.
    E' tuttavia, estremamente probabile  che  il  suo  non  dichiarato
 supporto teorico stesse proprio in una interpretazione dell'art. 2043
 del  c.c.  in  chiave, per cosi' dire, patrimonialistica e, comunque,
 tale da rendere la norma inidonea a  recepire  quale  danno  ingiusto
 immediatamente   risarcibile   la   violazione,  in  se'  e  per  se'
 considerata, del  diritto  primario,  costituzionalmente  gararantito
 (col   che  tale  interpretazione  avrebbe  ricevuto  un  autorevole,
 ancorche' implicito, suggello).
    Ma ulteriori contrasti (oltre quelli prima evidenziati) con l'art.
 3 della Costituzione appaiono ancora  rinvenibili  nell'ambito  della
 prospettazione del diritto come dovuto iure proprio.
    Indiscusso   essendo   (dopo   i  citati  interventi  della  Corte
 costituzionale) in tutti  gli  altri  diversi  casi  il  risarcimento
 generale  del  danno alla salute, come danno centrale e presunto, per
 il solo fatto naturalistico della  lesione  della  integrita'  psico-
 somatica  in  quanto  costituente  violazione del diritto alla salute
 garantito come diritto assoluto ed  inviolabile  dall'art.  32  della
 Costituzione,  si  determinerebbe  una  inammissiblie  disparita'  di
 trattamento (in peggio) in riferimento  a  tutti  quei  soggetti  che
 vedessero  menomata  la propria integrita' fisica a causa della morte
 di un familiare, piuttosto che a causa  di  un  comportamento  lesivo
 direttamente  (senza che cio', per quanto prima detto, rilevi ex art.
 1223  del  c.c.)  ed  oggettivamente  posto  in  essere  nei   propri
 confronti.
    Riceverebbero  dall'ordinamento  discipline  profondamente diverse
 situazioni sostanzialmente identiche, essendo identiche le  posizioni
 soggettive lese e, dunque, i corrispondenti diritti invocanti tutela.
    In  conclusione,  la duplice opzione interpretativa dell'art. 2043
 del c.c. appare particolarmente lacerante su un terreno, quale quello
 in oggetto, in  cui  la  certezza  del  diritto  appare  davvero  una
 insopprimibile esigenza di equita' e di civilta'.
    La  Corte  costituzionale potra' far pervenire una parola chiara e
 forse definitiva anche su questa scottante problematica.
    In  via subordinata, e sempre per le ragioni sopra esposte, dovra'
 sollevarsi  altresi'   questione   di   legittimita'   costituzionale
 dell'art. 2059 del c.c.