ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 577 del codice
 di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 24 gennaio 1992
 dalla Corte d'Appello di Milano nel procedimento penale a  carico  di
 Colonnelli Lauretta ed altri, iscritta al n. 5 del registro ordinanze
 1993  e  pubblicata  nella  Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3,
 prima serie speciale, dell'anno 1993;
    Visto l'atto di costituzione di Colonnelli Lauretta nonche' l'atto
 di intervento di Kamenetzky Michele;
    Udito  nell'udienza  pubblica  del  19  ottobre  1993  il  Giudice
 relatore Francesco Guizzi;
    Udito l'avvocato Dino Luigi Bonzano per Colonnelli Lauretta;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Nel  corso  del  procedimento penale a carico di Colonnelli
 Lauretta e altri, la Corte d'appello di Milano ha sollevato questione
 di legittimita' costituzionale dell'art. 577 del codice di  procedura
 penale  (che  consente alla persona offesa, costituitasi parte civile
 nei  procedimenti  per  i   reati   di   ingiuria   e   diffamazione,
 l'impugnativa   delle   sentenze  dibattimentali  non  solo  ai  fini
 civilistici, ma anche agli "effetti penali").
   Secondo la  Corte  milanese  la  questione  sarebbe  rilevante  nel
 giudizio   a   quo,  poiche'  l'eventuale  incostituzionalita'  della
 disposizione impugnata comporterebbe l'inammissibilita'  dell'appello
 proposto  dalla parte civile, almeno per la parte in cui esso tende a
 far  conseguire  la  condanna  degli  imputati  per   il   reato   di
 diffamazione. E sarebbe non manifestamente infondata, poiche' i reati
 di  ingiuria  e diffamazione sono stati privilegiati rispetto a tanti
 altri (anche piu' gravi) fino al punto  da  consentire,  in  caso  di
 assoluzione,  che  la  parte  civile  possa  chiedere,  in  luogo del
 pubblico ministero che e' il titolare dell'azione penale, la condanna
 della persona imputata. Tale disparita' di trattamento sarebbe quindi
 del tutto ingiustificata e contraria ai principi di ragionevolezza  e
 monopolio pubblico dell'azione penale.
    2. - Si e' costituita, con memoria scritta a firma dei difensori e
 procuratori  speciali,  l'imputata Lauretta Colonnelli che ha chiesto
 l'accoglimento della questione  di  costituzionalita'  sollevata  con
 l'ordinanza in epigrafe.
    Ha  osservato  la  parte  privata  che  le  disposizioni contenute
 nell'art. 577 del codice di procedura penale erano gia' presenti  nel
 codice  abrogato,  ove  si attribuiva alla persona offesa, costituita
 parte civile nel procedimento penale, il potere  d'impugnare  sia  le
 sentenze  di  condanna  sia  quelle  di assoluzione, ma soltanto allo
 scopo di vedere affermata la responsabilita' civile dell'imputato. Il
 mezzo di gravame,  percio',  investiva  l'esistenza  del  fatto-reato
 esclusivamente   quale   presupposto   logico   e   giuridico   della
 responsabilita' civile dell'imputato, e dunque in via incidentale.
    Introducendo la disposizione in esame, il legislatore ha  inserito
 nel  codice  di  procedura penale una norma del tutto nuova in virtu'
 della quale "la persona offesa costituita parte civile puo'  proporre
 impugnazione,  anche  agli  effetti  penali,  contro  le  sentenze di
 condanna  e  di  proscioglimento  per  i  reati  di  ingiuria  e   di
 diffamazione".
    L'inciso  "anche  agli  effetti  penali",  ad  avviso  della parte
 privata, andrebbe inteso come potere di chiedere l'affermazione della
 responsabilita'    penale    dell'imputato,    e     conseguentemente
 l'irrogazione  della pena, indicando in concreto pure la sua entita'.
 Si tratterebbe quindi di questione delicata, e "non  da  poco",  come
 mostrerebbe  la  stessa  relazione  al  codice,  atteso  che la nuova
 disposizione e' stata introdotta "non senza contrasti al  Senato  nel
 corso dei lavori preparatori".
    Un  primo  contrasto  emergerebbe  in riferimento all'articolo 112
 della Costituzione che ha stabilito i  principi  dell'officialita'  e
 dell'obbligatorieta'  dell'azione penale, e ha ispirato l'art. 50 del
 nuovo codice di procedura penale,  ove  si  conferisce  il  monopolio
 dell'azione  penale  al  pubblico  ministero  sancendone, appunto, il
 carattere di obbligatorieta' e officialita'.
    Se l'art. 50 e' norma "destinata a valere per  l'intero  arco  del
 processo"  - come chiarisce la relazione al codice - non si comprende
 in qual modo possa mantenersi in vita la pretesa punitiva dello Stato
 su iniziativa  della  parte  privata  (una  inammissibile  deroga  al
 principio  del  monopolio  dell'azione penale che non puo' non valere
 per tutto  l'arco  del  processo).  Ne'  avrebbe  pregio  l'obiezione
 secondo  cui  l'azione  penale,  esercitata  dal  pubblico ministero,
 dovrebbe  ritenersi  conclusa  con  la  sentenza  di   primo   grado,
 lasciandosi   allo  stesso  pubblico  ministero,  in  via  del  tutto
 discrezionale, la  previsione  del  mezzo  di  impugnazione.  A  tale
 obiezione  si potrebbe rispondere che una cosa e' la discrezionalita'
 dell'azione penale e altra cosa e' invece  l'attribuzione  della  sua
 titolarita'  anche  a un diverso e privato soggetto, cosi' chiamato a
 partecipare della pretesa punitiva dello Stato oltre il  primo  grado
 del giudizio.
    Infine,  ha  proseguito  la parte privata, l'inconciliabilita' fra
 l'art. 577  del  codice  di  procedura  penale  e  l'art.  112  della
 Costituzione risulterebbe, altresi', da una serie di norme del codice
 di  rito che rappresentano un corollario del principio costituzionale
 richiamato come, ad esempio:
      - dall'art. 597 che - nel  disciplinare  i  poteri  del  giudice
 dell'appello  -  si  occuperebbe  esclusivamente dell'impugnativa del
 pubblico ministero e di quella dell'imputato, senza fare alcun  cenno
 all'appello  della  parte  civile (ne' potrebbe soccorrere il ricorso
 all'analogia, poiche' si tratterebbe di estendere l'applicabilita' di
 una norma processuale in malam partem;
      - dall'art. 589, in relazione all'art. 577 dello stesso  codice,
 poiche',  mentre la prima norma prevede espressamente che il pubblico
 ministero possa rinunciare all'impugnazione, la seconda - nel caso di
 impugnazione della parte civile - verrebbe sempre a  "trascinare"  il
 pubblico  ministero nell'iniziativa della parte privata, impedendogli
 di rinunciare all'impugnazione;
      - dall'art. 591  che  esige,  a  pena  di  inammissibilita'  del
 gravame, le conclusioni della parte civile appellante anche in ordine
 alla  sanzione, quantificandone l'entita' ed indicandone i criteri di
 determinazione e, cosi', esercitando  il  potere-dovere  riconosciuto
 dall'ordinamento, in via esclusiva, al pubblico ministero.
    3.  -  Sarebbe poi del pari violato il parametro di cui all'art. 3
 della Costituzione e, in particolare, il principio di ragionevolezza.
   Non  vi  sarebbe  infatti  alcuna  giustificazione a che i reati di
 ingiuria e diffamazione siano privilegiati rispetto ad  altri,  anche
 piu' gravi, sino al punto da consentire alla parte civile una diversa
 estensione  del mezzo di impugnazione delle sentenze di condanna e di
 proscioglimento dell'imputato  e  da  discriminare  gli  imputati  di
 questi reati che sono ora, essi soltanto, a vedere riformata in pejus
 una  sentenza  di  primo  grado in forza del gravame della sola parte
 privata.
    Del resto, alla parte civile costituita  nel  procedimento  penale
 sarebbe sempre garantita la tutela dei propri interessi civili con la
 possibilita'   di   impugnare   qualunque  sentenza  penale  che  sia
 presupposto della responsabilita' civile dell'imputato, sia pure  con
 il  limite che il gravame investa l'accertamento del fatto-reato solo
 incidenter tantum.
    Ne' le motivazioni poste  a  base  della  innovazione  legislativa
 (consistenti  nell'idoneita'  dei  reati  in  questione  a colpire il
 patrimonio morale della persona offesa e, quindi, nella necessita' di
 una sua piu' energica tutela) possono razionalmente giustificare tale
 disparita' di trattamento, che sarebbe ai limiti dell'arbitrarieta'.
    4. - Con vari  scritti  e  due  memorie,  tardivi  in  quanto  non
 rispettosi  del termine stabilito dagli artt. 25 della legge 11 marzo
 1953, n. 87 e 3 delle Norme integrative per i  giudizi  davanti  alla
 Corte  costituzionale, Michele Kamenetzky ha chiesto d'intervenire e,
 in subordine, ha sollecitato la riunione  a  questo  giudizio  di  un
 altro (nel quale e' imputato) promosso, con riferimento alla medesima
 questione  di  costituzionalita',  dalla  stessa  Corte  d'Appello di
 Milano, con ordinanza emessa in data 25 febbraio 1993.
                        Considerato in diritto
    1. - Viene all'esame della  Corte  la  questione  di  legittimita'
 costituzionale  della  norma,  contenuta  nell'art. 577 del codice di
 procedura penale, che consente  alla  persona  offesa  dai  reati  di
 ingiuria  e  diffamazione  di  costituirsi parte civile e di proporre
 l'impugnazione anche  agli  effetti  penali  contro  le  sentenze  di
 condanna  e  di  proscioglimento  dell'imputato.  Detta  impugnazione
 sarebbe lesiva degli artt. 3 e 112 della  Costituzione,  determinando
 una disparita' di trattamento fra le persone offese e gli imputati di
 questo  tipo  di  reati rispetto agli imputati di reati aventi pari o
 maggiore  gravita'  con  evidente   violazione   del   principio   di
 officialita', obbligatorieta' e monopolio pubblico dell'azione penale
 attribuita dalla Costituzione al pubblico ministero.
    2. - L'intervento proposto da Michele Kamenetzky e' inammissibile,
 perche'  tardivo  e  perche'  lo  stesso  non  e'  parte nel presente
 giudizio. L'istanza di riunione, proposta in subordine, va disattesa,
 giacche' tale potere non e' correlato ad alcun diritto delle parti (e
 dell'interventore),   trattandosi   di   una    facolta'    meramente
 discrezionale esercitabile dalla Corte.
    3. - La questione e' infondata.
    Dal  punto  di  vista  logico  va innanzitutto respinta la censura
 secondo cui la previsione d'una peculiare forma  d'impugnativa  della
 sentenza  di  primo  grado, concessa alla persona offesa dal reato di
 ingiuria o diffamazione, costituirebbe una violazione  dell'art.  112
 della  Costituzione,  ove  si  afferma  che il "pubblico ministero ha
 l'obbligo di esercitare l'azione penale".
    Come  questa  Corte  ha gia' avuto modo di chiarire, la previsione
 costituzionale richiamata non stabilisce  affatto  il  principio  del
 monopolio   pubblico   dell'azione   penale,   ma   soltanto   quello
 dell'obbligatorieta': tale e' il principio fissato dall'art. 112  (v.
 in  particolare  la  sent.  n.  61  del  1967).  L'obbligo imposto al
 pubblico  ministero  di  esercitare  l'azione   penale   "non   vuole
 escludere,  come  risulta  anche dai lavori preparatori, che ad altri
 soggetti possa essere conferito  analogo  potere".  L'azione  penale,
 dunque,  puo'  essere  legittimamente  attribuita  anche  a  soggetti
 diversi dal pubblico ministero, purche' "con  cio'  non  si  venga  a
 vanificare  l'obbligo del pubblico ministero medesimo di esercitarla"
 (sent. n. 84 del 1979).  Ne'  la  sentenza  n.  177  del  1971  (che,
 dichiarando  l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  515, quarto
 comma, del codice di procedura  penale,  volle  sottrarre  il  potere
 d'impugnazione  del  pubblico  ministero a un suo possibile esercizio
 arbitrario) ha rimesso in discussione il rapporto tra l'azione penale
 del pubblico ministero ed eventuali  analoghi  poteri  attribuiti  ad
 altre  figure  soggettive,  essendosi  occupata soltanto del rapporto
 intercorrente tra l'azione esercitata dal pubblico ministero e le sue
 conseguenti decisioni da far valere in sede d'impugnazione.
    A  prescindere,  comunque,  dalla  natura  giuridica  del   potere
 attribuito  alla  persona offesa dal reato di ingiuria o diffamazione
 che - costituita parte civile - intenda impugnare la decisione  presa
 dal  giudice del dibattimento; e a prescindere pure dalla circostanza
 che si tratti d'una forma di azione penale sussidiaria o concorrente,
 ovvero piu' semplicemente di un  potere  d'impugnazione  estraneo  al
 concetto  di  azione  penale  in  senso tecnico, resta il dato di una
 denuncia d'incostituzionalita' incentrata, almeno per  questa  parte,
 su di un parametro chiaramente inadeguato.
    Non  vi e', infatti, chi contesti la possibilita', per il pubblico
 ministero,  di  impugnare  anch'egli  gli  esiti  dibattimentali  non
 conformi alle sue requisitorie. Ne' sono rilevanti, in questa sede, i
 problemi   interpretativi   sollevati   nella   memoria  della  parte
 costituita che riguardano  il  coordinamento  tra  le  determinazioni
 della  parte  civile,  per  ipotesi,  di  segno  opposto a quelle del
 pubblico ministero. Ma tali questioni  vanno  lasciate  all'attivita'
 dell'interprete.
    4.  -  L'art.  577 del codice di procedura penale fissa una scelta
 pluralistica del legislatore soltanto per le impugnazioni  successive
 al  dibattimento  di  primo  grado.  Questa  scelta  non  consente di
 proporre appello  avverso  le  sentenze  di  non  luogo  a  procedere
 (esclusione non in contrasto con la Costituzione: si veda la sentenza
 n.  381  del  1992)  ne'  di interferire nel promovimento dell'azione
 penale piu' di quanto sia consentito a tutte le altre persone  offese
 dal reato.
    Si  tratta  dunque  di  una  scelta  legislativa  creatrice di una
 ipotesi eccezionale che il giudice a quo  chiede  sia  cancellata  in
 ossequio  al principio di ragionevolezza, di cui questa Corte ha piu'
 volte fatto applicazione.
    La censura va respinta.
    La scelta tendente a garantire la persona offesa  da  sempre  piu'
 frequenti  inconvenienti,  riscontrabili  in processi che coinvolgono
 direttamente il patrimonio morale della  persona,  non  esorbita  dai
 limiti  della  ragionevolezza. I processi per ingiuria e diffamazione
 hanno una loro singolarita' che e' nel sistema e nella realta',  come
 appare  evidente da una serie di casi in cui inopinatamente compaiono
 in sentenza affermazioni che il dispositivo, letto  in  udienza,  non
 lasciava  in  alcun  modo immaginare o presumere (singolarita' che in
 altri Paesi e' risolta nel senso  che  da'  luogo  a  una  disciplina
 completamente diversa e autonoma).
    E'  vero, infatti, che il pubblico ministero rappresenta tutti gli
 interessi offesi dal reato, ma li difende su  un  piano  oggettivo  e
 generale che puo', talvolta, astrarre dalla situazione soggettiva che
 contraddistingue i reati inerenti alla delicatissima sfera dell'onore
 e  della  reputazione. L'apprezzamento del soggetto passivo del reato
 di ingiuria e diffamazione assume percio' un rilievo  a  cui  non  e'
 irragionevole  precludere un'autonoma difesa, potendo in singoli casi
 risultare inadeguata la tutela che spetta al pubblico ministero.
    La persona offesa, attraverso l'impugnazione, puo' ottenere che  i
 fatti  e le valutazioni riportati in sentenza siano meglio ponderati,
 nuovamente verificati e controllati. E che tale  verifica  successiva
 sia  richiesta  proprio  quando e' la vittima del reato di ingiuria e
 diffamazione a subirne  i  pregiudizievoli  effetti,  e'  scelta  non
 arbitraria, stante la realta' di quegli inconvenienti.
    Che  poi  tale  soluzione  legislativa sia stata ristretta ai soli
 casi dei reati in esame e non pure  allargata  agli  altri  che  sono
 stati anche analiticamente menzionati dalla parte costituita e' fatto
 che, se accresce la tutela della persona offesa dai reati di ingiuria
 e  diffamazione,  non  diminuisce  quella gia' storicamente accordata
 alla persona offesa ed  alla  parte  civile  nel  vecchio  codice  di
 procedura penale, ed ora ulteriormente rafforzata con il nuovo.