Ricorso per illegittimita' costituzionale proposto dalla regione Lombardia, in persona del presidente in carica della giunta regionale, dott. Fiorinda Ghilardotti, a cio' autorizzata con delibera della giunta regionale, n. 45127 del 14 dicembre 1993, rappresentata e difesa, per mandato a margine del presente atto, dagli avv.ti Maurizio Steccanella, del foro di Milano, e Giovanni C. Sciacca, del foro di Roma, presso il quale, in Roma, via G. B. Vico n. 29, elegge domicilio, contro e nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente del Consiglio in carica, sedente in Roma, piazza Colonna, Palazzo Chigi, ed altresi' legalmente domiciliata presso l'avvocatura generale dello Stato, in Roma, via dei Portoghesi n. 12, per la declaratoria di illegittimita' costituzionale: I) dell'art. 1, primo comma, del d.P.R. 10 novembre 1993, n. 479, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, n. 279, del 27 novembre 1993, e quindi del risultante "testo novellato" dell'art. 1, primo comma, del d.P.R. 13 febbraio 1993, n. 40, recante "revisione dei controlli dello Stato sugli atti amministrativi delle regioni, ai sensi dell'art. 2 primo comma, lett. h), della legge 23 ottobre 1992, n. 421", nella parte nella quale si dispone che il controllo di legittimita' sugli atti amministrativi della regione si esercita "esclusa" - soltanto - "ogni valutazione di merito"; II) dell'art. 1, secondo comma, del d.P.R. 10 novembre 1993, n. 479 (pubblicato come detto sopra), e quindi del risultante "testo novellato" dell'art. 1, primo comma, del gia' citato d.P.R. 13 febbraio 1993, n. 40, in quanto inclusivo, fra gli atti sottoposti a controllo, dei "piani anche territoriali, dei programmi ed altri atti integrativi o modificativi dei contenuti dei predetti provvedimenti ovvero che ne tengano luogo", oltre che degli "appalti e concessioni", vale a dire con riferimento alle lettere b) e g); III) dell'art. 2, primo e secondo comma, del d.P.R. 10 novembre 1993, n. 479 (pubblicato come detto sopra), e quindi del risultante "testo novellato" dell'art. 2, primo e terzo comma, del d.P.R. 13 febbraio 1993, n. 40, la' dove - rispettivamente - si stabilisce che il Presidente del Consiglio dei Ministri "determina criteri procedurali per le commissioni statali di controllo", e che il comitato tecnico, di cui al secondo comma, del medesimo art. 2 del d.P.R. 13 febbraio 1993, n. 40, "propone al Presidente del Consiglio dei Ministri l'adozione di criteri procedurali"; IV) dell'art. 3 del d.P.R. 10 novembre 1993, n. 479 (pubblicato come detto sopra), e quindi dello - in tal modo - aggiunto art. 3, quarto, quinto, sesto e settimo comma, del "novellato" d.P.R. 13 febbraio 1993, n. 40, la' dove si dispone che: A) (quarto comma) su cinque componenti di ciascuna commissione statale di controllo, oltre al commissario del Governo che la presiede, ben tre siano funzionari della amministrazione civile dello Stato, rispettivamente appartenenti ai medesimi ruoli dei quali fanno parte i dirigenti che compongono il comitato tecnico (centrale) istituito, a mente dell'art. 2, secondo e terzo comma, del d.P.R. 13 febbraio 1993, n. 40, il quale, in questa parte, non risulta modificato; B) (quinto comma) i predetti funzionari facenti parte di ciascuna commissione statale di controllo sono illimitatamente rinnovabili ed esonerati da ogni obbligo di servizio, per cui e' palese che essi si trovano fortemente "incentivati" ad ottenere - alla scadenza di ciascun triennio - il rinnovo della propria investitura, da parte della rispettiva amministrazione centrale dello Stato e pertanto privati di qualsivoglia autonomia di giudizio; C) (sesto comma) le funzioni vicarie di presidente di ciascuna commissione statale di controllo sono attribuite non gia' ad un vicepresidente eletto dalla commissione stessa, o - ad esempio - al componente piu' anziano, ma ad un funzionario della amministrazione centrale dello Stato, con esplicito richiamo all'art. 13 della legge n. 400/1988 che fa concerne i compiti di amministrazione attiva del commissario del Governo, e con conseguente implicita assimilazione dello esercizio del controllo alle funzioni di autentica amministrazione attiva; D) (settimo comma) per la validita' delle deliberazioni di ciascuna commissione statale di controllo e' prescritta la presenza di almeno quattro componenti, il che, tenuto conto che il caso di parita' prevale il voto del presidente (che e' il commissario del Governo ovvero - sesto comma - un funzionario della amministrazione dello Stato, si traduce nella "codificazione" tassativa della precostituita maggioranza a favore delle determinazioni propugnate dalla rappresentanza burocratica della amministrazione statale in occasione della adozione di ogni e qualsiasi atto di esercizio del controllo, con sostanziale variazione della collegialita' delle commissioni. F A T T O 1. - La legge 23 ottobre 1992, n. 431, recante "Delega al governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanita', di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale", all'art. 2, intitolato "pubblico impiego", ha conferito delega al Governo della Repubblica per emanare uno o piu' decreti legislativi, dettando (art. 76 della Costituzione), quanto all'oggetto, ai principi e ai criteri direttivi degli emanandi decreti, i seguenti: (primo comma, lett. h); .. prevedere la revisione dei controlli amministrativi dello Stato sulle regioni, concentrandolo sugli atti fondamentali della gestione ed assicurando la audizione dei rappresentanti dell'ente controllato, adeguando altresi' la composizione degli organi di controllo anche al fine di garantire la uniformita' dei criteri di esercizio del controllo stesso". 2. - L'attinenza alla materia del pubblico impiego, oltre che indiscutibile alla stregua della analisi letterale e sistematica (collocazione nell'art. 2 della legge-delega), risultava ribadita in modo inequivoco dalla successiva lett. i) del medesimo comma, riferita ex professo (e con richiamo esplicito alla precedente lett. h) alla "contrattazione nazionale e decentrata" che e' istituto fin troppo evidentemente caratteristico del solo rapporto di pubblico impiego. 3. - Sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana del 20 febbraio 1992, n. 42, e' stato pubblicato il decreto legislativo emanato in una prima fase di attuazione specifica di quella particolare delega legislativa, vale a dire il d.P.R. 13 febbraio 1993, n. 40, recante "Revisione dei controlli dello Stato sugli atti amministrativi delle regioni, ai sensi dell'art. 2, primo comma, lett. h), della legge 23 ottobre 1992, n. 421". Peraltro, tale d.P.R., dopo aver premesso - all'art. 1 - che il controllo e' e rimane "di legittimita'" e dopo avere espressamente esclusa "ogni diversa valutazione dello interesse pubblico perseguito", specificava analiticamente quali fossero i ritenuti "atti fondamentali della gestione", e quindi disponeva - all'art. 2, primo comma - che "allo scopo di assicurare il coordinamento "o" di favorire comuni indirizzi nella attivita' di controllo", il Presidente del Consiglio dei Ministri emanasse "direttive" alle commissioni statali di controllo. Il terzo comma del medesimo art. 2 del citato d.P.R. n. 40/1993, sanciva, dal canto suo, che il comitato - definito "tecnico" - istituito a norma del precedente secondo comma, formulasse al Presidente del Consiglio dei Ministri proprie proposte per la adozione delle anzidette "direttive". 4. - Le disposizioni di cui sopra apparvero alla regione Lombardia costituzionalmente illegittime, per violazione dell'art. 125 della Costituzione, violazione conseguente dell'art. 118 della Costituzione e violazione dell'art. 76 della Costituzione, per cui fu proposto tempestivo ricorso per illegittimita' costituzionale, che ha assunto, presso la ecc.ma Corte, il n. 22/93 reg. ric. e, dopo due rinvii di ufficio (dal 5 ottobre al 2 novembre e dal 2 novembre al 14 dicembre 1993), e' stato discusso e rimesso in decisione alla pubblica udienza del 14 dicembre 1993, sebbene nel frattempo fosse stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 27 novembre 1993 ed entrato, quindi, in vigore due giorni prima di tale udienza, l'attuale d.P.R. n. 479/1993, oggetto del presente ricorso. Indipendentemente da quello che si potra' conoscere - allorche' verra' pubblicata la sentenza della Corte - essere stato l'esito di quel ricorso, nella trattazione del quale la difesa della ricorrente ha sostenuto che talune parti dello impugnato d.P.R. n. 40, non modificate dalla sopravvenuta "novella" normativa, potevano costituire ancora perdurante ed attuale "materia del contendere", diviene - ora - necessario impugnare le sopraspecificate disposizioni contenute nel d.P.R. n. 479/1993 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 27 novembre 1993) sia in se stesse, sia - trattandosi di modificazioni di testo previgente, e non di abrogazione-sostituzione di quest'ultimo - con riferimento al "nuovo" ("novellato") testo risultante dalle modificazioni apportate dal legislatore delegato e, conseguentemente, oggi vigente nella sua unitarieta' sistematica per effetto del "combinato disposto" dei due dd.PP.RR. succedutisi in brevissimo tempo. 5. - Le disposizioni impugnate in questa sede appaiono, infatti, inosservanti e trasgressive degli artt. 125, 118, 115 e 76 della Costituzione, ed esse debbono essere dichiarate costituzionalmente illegittime, in accoglimento del presente ricorso, il quale si fonda sulle seguenti ragioni di D I R I T T O Violazione dell'art. 76 della Costituzione ed esorbitanza rispetto ai limiti della delega legislativa conferita al Governo della Repubblica. La legge delega (23 ottobre 1992, n. 421) ha esteso la delega conferita al Governo della Repubblica alla materia della revisione del sistema dei controlli sugli atti amministrativi delle regioni, ma con evidente limitato riferimento alla materia del pubblico impiego, se solo si considera che tale e' l'oggetto e la intitolazione dell'art. 2, nel quale e' inserita, al comma 1., la lettera h) che quella specifica delega attribuisce (criterio "sistematico" della interpretazione). Cio' risulta, peraltro, macroscopicamente confermato, sul piano della interpretazione sia sistematica che letterale, anche dalla duplice considerazione: A) che - se cosi' non si fosse voluto disporre da parte del Parlamento delegante - la c.d. "revisione dei controlli amministrativi dello Stato sugli atti delle regioni" sarebbe stata prevista, a titolo di delega legislativa, in una apposita premessa generale, o in un'apposita norma finale, ovvero, quanto meno, nell'art. 4 della legge-delega concernente la "finanza degli enti territoriali", stante la evidentissima ampiezza, tendente alla omnicomprensivita', di siffatta "materia", nonche' in considerazione della certissima attinenza a quest'ultima del maggior numero degli atti da "controllare", e stante anche la dichiarata finalita' dell'intero sistema dei controlli che risponde fondamentalmente alla esigenza di una rigorosa verifica dell'utilizzo, da parte dei poteri autonomistici, delle risorse costituenti la c.d. "finanza pubblica allargata", in gran parte rappresentate da "finanza derivata", laddove la delega per operare una "revisione dei controlli" si trova, invece, collocata, nella legge-delega n. 421/1992, addirittura nel corpo di una specifica disciplina (lett. h) contenuta nell'art. (2) intitolato al "Pubblico impiego" e a questa materia esclusivamente dedicato; B) dalla inequivocabile formulazione (e collocazione) della successiva lett. i) del medesimo articolo, riferita espressamente solo alla contrattazione collettiva e che si ricollega apertis verbis alla lett. h). Poiche' nel nostro sistema costituzionale, la potesta' legislativa appartiene al Parlamento, laddove una potesta' legislativa delegata al Governo rappresenta una eccezione, come tale (artt. 76 e 77 della Costituzione) circoscritta entro limiti ben definiti e tassativi, tali da imporre l'applicazione del criterio della stretta interpretazione di ogni e qualsiasi legge di delega, non pare dubbio che la collocazione della norma in questione nell'ambito della specifica disciplina concernente il pubblico impiego, comporta quanto meno il "dubbio" - ma diremmo senz'altro la certezza negativa³ - che il legislatore delegato (Governo) potesse, senza violare l'art. 76 della Costituzione, riformare profondamente in via generale l'istituto del controllo sugli atti amministrativi delle regioni, esprimendosi - appunto - "per verba generalia" e senza limitarsi all'"oggetto definito", quale esso risultava indirettamente dalla rubrica e dal restante contenuto dell'art. 2 della legge delega n. 421/1992. Al di la' di cio', tuttavia, ed in secondo luogo, ben altre e piu' rilevanti appaiono le "esorbitanze" addebitabili alla decretazione delegata in argomento, rispetto alla delega conferita dal Parlamento. Infatti, la delega e' stata attribuita al dichiarato scopo di ridurre l'ambito oggettivo della attivita' di controllo da "concentrare sugli atti fondamentali della gestione". A questo proposito, e' indiscutibile la violazione dei limiti della delegazione legislativa, allorche' si scorge che, ben lungi dal "concentrare" e ben lungi dal limitare il controllo ai soli atti "fondamentali", con i due dd.PP.RR. attuativi vengono inclusi fra gli atti soggetti a controllo i "programmi" ed addirittura "gli atti integrativi o modificativi dei contenuti dei predetti provvedimenti o che - si badi - ne tengano luogo", il che significa che qualsivoglia "puntuale" provvedimento regionale che, "sulla base" (= integrativi) di un piano o di un programma, ovvero ampliando e/o derogando specificamente da esso per cause determinate (= modificativi),ovvero ancora assunto per riscontrata assenza della necessita' di una previa ampia provvedimentazione regolamentare (= che ne tengano luogo), disponga su singole situazioni e fattispecie (basti pensare alla approvazione di una modesta variante alla strumentazione urbanistica generale di un comune, ovvero alla approvazione, o anche solo al finanziamento di un programma di intervento singolo e definito, quale ad esempio un programma integrato di recupero di un singolo comparto edilizio o addirittura di un singolo edificio, di cui alla legge 17 febbraio 1992, n. 179, che, pur dichiarata in alcune parti costituzionalmente illegittima, non lo e' stata per la parte che qui si menziona), torna ad essere - e vi torna proprio in forza della "novella" additiva di cui all'art. 1, secondo comma, del d.P.R. n. 479/1993) - soggetto a controllo da parte dello Stato. La stessa generica inserzione dei "programmi" - che sono cosa ben diversa dai "piani" veri e propri - lascia aperta la strada alla pretesa di sottoporre a controllo statale qualunque iniziativa regionale che si concreti in una qualsivoglia ipotesi di reiterazione o razionalizzazione di singoli interventi scanditi nel tempo od operati attraverso una selezione localizzatrice, cronologica, o di risorse. Ed ancora, la stessa pianificazione territoriale, se costituisce di certo "atto fondamentale" ove si caratterizzi per la redazione originaria ed autonoma di uno strumento di dimensione regionale o di vasta area, non lo e' piu' quando essa si traduce in un momento di mera verifica di compatibilita' di atti pianificatori prodotti da enti subregionali, come prescrivono, ad esempio, gli artt. 14, 15 (Province) e 19 (Citta' metropolitane) della legge n. 142/1990 sulle autonomie locali, i quali riservano alle regioni una pura funzione di coordinamento a posteriori, o di nihil obstat che non si esprime affatto in atti (regionali) "fondamentali della gestione (³)". Vi e', poi, alla lett. g) dell'art. 1 del testo di decretazione delegata, il riferimento agli appalti non previsti in atti di programmazione (vale a dire "singoli", "puntuali" e "specifici"), dei quali tutto si puo' dire, meno che si tratti di "atti fondamentali" .. La decretazione delegata risultante e', pertanto, del tutto elusiva (per esorbitanza) e trasgressiva del principio e del criterio direttivo della delega, che e' quello di "concentrare" le specie degli atti amministrativi regionali da sottoporre al controllo e di condizionare siffatta sottoposizione al carattere "fondamentale" di essi e di attinenza alla "gestione". Il Parlamento ha ulteriormente dettato il "criterio direttivo" (sempre in ossequio all'art. 76 della Costituzione) secondo il quale "anche" al fine (considerato, dunque, un fine complementare e per cosi' dire "secondario") di garantire la uniformita' "dei criteri" di esercizio del controllo, che e' cosa ben diversa da una pretesa e presunta "identita' cogentemente predeterminata" dei "contenuti" del controllo nella sua concreta esplicazione (singoli atti di controllo), il Governo della Repubblica poteva procedere all'adeguamento della composizione degli organi di controllo (commissioni statali). Era pertanto evidente l'intento del legislatore delegante: consentire al Goerno di perseguire "anche" quell'obiettivo ("uniformita' dei meri criteri") operando - tuttavia - a questo fine con il solo specifico e individuato strumento dell'adeguamento della composizione degli organi (omogeneita' di qualificazione professionale, comunanza di "sensibilita'" giuridico-amministrativa, ecc.), e non altrimenti³ Viceversa, l'art. 2, secondo comma, del decreto-delegato istituisce - il che e' tutt'altra cosa³ - un comitato centrale denominato. . . pudicamente "tecnico", al quale e', tuttavia, demandato ben altro e piu' incisivo compito: A) "assicurare il coordinamento", che e' anch'essa cosa ben diversa dal semplice "garantire la uniformita' dei soli criteri" (legge delega); B) ovvero ("o") "favorire comuni indirizzi", che, solo con rilevante sforzo interpretativo, potrebbe ritenersi accezione equivalente al "garantire la uniformita' dei criteri" di cui alla legge delega, dal momento che gli "indirizzi" attengono al contenuto della attivita' da esperire, ed i criteri, invece, solo al "modo" di compierla .. Appare chiaro, allora, che il Governo - legislatore delegato - ha ecceduto rispetto ai limiti della delega, non solo nel "mezzo" (un comitato tecnico centrale, in luogo della sola omogeneizzazione delle commissioni), ma nell'"oggetto definito" individuato nella delega legislativa conferitagli, perche', se si e' voluta favorire la uniformita' degli indirizzi, vi si e' aggiunto ("o") un "coordinamento" delle singole commissioni, del tutto assente dalla previsione della legge di delegazione ed attuato attraverso la creazione di un apposito organo centrale assolutamente non previsto in essa. Molto piu' grave appare, tuttavia, la esorbitanza rispetto ai limiti della delega legislativa, allorche' ci si imbatte nella attribuzione di una potesta', in capo al Presidente del Consiglio dei Ministri, che originariamente era addirittura quella di impartire (sic³) "direttive" alle commissioni statali di controllo (testo del d.P.R. n. 40/1993), e che, attraverso una modificazione apportata dall'attuale d.P.R. n. 479/1993 (art. 2), assume la apparente fisionomia riduttiva di "determinazioni di criteri procedurali". Questa sorta di. . . "cosmesi" lessicale, la cui "postuma accortezza" (dopo la avvenuta proposizione di ricorsi alla Corte costituzionale sul punto) non rappresenta di certo una metodologia commendevole in sede di produzione normativa in ambito istituzionale, non rimedia al vizio di illegittimita' costituzionale che caratterizzava il precedente d.P.R., dal momento che "criteri procedurali" e' espressione giuridicamente incomprensibile, o quanto meno ambigua, frutto di una escogitazione compilativa ispirata alla "prudenza espressiva", piu' che al reale rispetto dei limiti imposti dalla legge-delega. Se, come ebbe a dire Salvatore Satta, nel suo ineguagliato commentario al C.P.C., "voila' le firme'memt, le reste est proce'dure. . .", la procedura dell'esercizio del controllo e' rigorosamente definita dalla legge ed e' cosa oggettiva, per cui nessun "criterio" potra' dirsi effettivamente "procedurale", e soprattutto nessun "criterio" - in termini procedurali - potra' essere da chicchessia (eccettuato il legislatore ordinario, evidentemente) "determinato ", il che lascia comprendere che la abile trasformazione semantica che caratterizza il testo della decretazione oggi vigente, per effetto di una postuma "novella" meramente lessicale quale quella di cui al d.P.R. n. 479, non elimina la violazione della delega legislativa, e continua ad attribuire ad un organo dell'amministrazione centrale dello Stato, la potesta' di dettare "regole cogenti" - comunque denominate - per l'esercizio effettivo, da parte delle commissioni istituite presso le regioni, del controllo nella sua sostanza. Cio' appare, del resto, confermato e sotto certo profilo aggravato dalla previsione di un potere di "proposta" dei pretesi e presunti "criteri procedurali", attribuito al comitato tecnico (assolutamente non previsto ne' come tale, ne' quanto all'anzidetta funzione, dalla legge delega, la quale aveva, invece, affidato il soddisfacimento della diversa esigenza di garantire la mera uniformita' al solo mezzo di adeguare la composizione degli organi deputati ad esercitare concretamente, ma autonomamente, il controllo). Per le ragioni dette innanzi, infatti, se la "procedura" dell'esercizio del controllo non puo' essere regolata autoritativamente dalla amministrazione dello Stato, ancor meno si puo' ammettere che essa possa costituire oggetto di "proposte" da parte di un organismo che si definisce "tecnico", e che, come tale, non puo' certamente ingerirsi in aspetti rigorosamente gia' normati, quale e' e deve essere la "procedura". Anche questa previsione della "formulazione delle proposte di adozione" (terzo comma, "novellato" dell'art. 2 del d.P.R.), conferma che vuolsi consentire una interpretazione applicativa che vada ben oltre i soli profili meramente "procedurali" del controllo .. II. - Violazione degli artt. 125, e - di riflesso - dell'art. 118 e dello stesso art. 115, nonche', sotto altro profilo, ancora dell'art. 76 della Costituzione. Che il controllo sugli atti amministrativi delle regioni (come, del resto, ogni altra ipotesi di controllo di questa specie nel nostro attuale ordinamento) sia unicamente un controllo di mera legittimita', non puo' essere assolutamente posto in dubbio: sarebbe addirittura irriguardoso soffermarvisi. L'art. 125 della Costituzione, correlato con la conclamata pienezza delle funzioni amministrative spettanti (art. 118) alle regioni (configurate alla stregua dell'art. 115), l'esercizio delle quali da' - appunto - luogo alla produzione degli atti assoggettati al controllo, costituiscono disposizioni e pongono principi basilari del sistema istituzionale autonomistico, non suscettibili di elusione o di "erosione" da parte del legislatore ordinario e meno ancora dal legislatore delegato. Se non bastasse, la "Carta Europea dell'autonomia locale" del 15 ottobre 1985, ratificata e resa esecutoria in Italia, con legge 30 dicembre 1988, n. 439, sancisce, all'art. 8, secondo comma, il medesimo principio, palesemente costituente principio fondamentale del vigente ordinamento giuridico, oltre che oggetto mdi impegno internazionale assunto dall'Italia. Non solo .. La stessa decretazione delegata della quale ci si occupa in questa sede (nel testo attuale, "novellato", non meno che nel testo originario di cui al d.P.R. n. 40/1993), esordisce (articolo 1) con una affermazione categorica, allorche', ribadisce il carattere "di legittimita'" del controllo stesso. Senonche', se anche nella operazione di "emendamento" del testo dell'art. 1, primo comma, dell'originario d.P.R. n. 40/1993, condotta con l'emanazione dell'attuale d.P.R. n. 479/1993, l'originaria eslcusione di "ogni diversa valutazione dell'interese pubblico", appare sostituita (anche qui, con accorta operazione di. . . cosmesi espressiva) con la esclusione di "ogni valutazione di merito", resta palese che le commissioni statali di controllo potranno dedurre, con riferimento agli atti amministrativi delle regioni, il vizio di "eccesso di potere", il quale, tradizionalmente, rientra - si' - nell'ambito generale della "legittimita'", ma che - come e' ben noto - puo' consistere nella "contraddittorieta' della motivazione", nella "illogicita'", nel "travisamento dei presupposti del pubblico interesse che si intende perseguire", nel "travisamento di fatto", nella "disparita' di trattamento", addirittura nella "ingiustizia manifesta", ecc. ecc. (restandone al di fuori, forse, soltanto la totale assenza di motivazione che, dopo l'entrata in vigore dell'art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, dovrebbe considerarsi, ormai, una violazione di legge ..), nel che - tuttavia come ognuno comprende e come sempre e' stato ritenuto da tutti gli organi statali e regionali di controllo che si sono sempre astenuti dallo ingerirvisi - si annida una amplissima, per non dire illimitata, possibilita' di sindacare il merito "effettivo" (valore - disvalore) delle scelte provvedimentali, cioe' quella "valutazione della congruenza rispetto all'interesse pubblico" e, in taluni casi, anche di interessi privati confliggenti (si pensi solo alla "disparita' di trattamento"³), che e' precisamente cio' che, persino nella formulazione originaria della normativa delegata (d.P.R. n. 40), si era detto di voler sottrarre al controllo. Sotto questo aspetto, il testo "novellato" con il d.P.R. n. 479/1993 appare persino "aggravato" e "peggiorativo" - sul piano della illegittimita' costituzionale -, rispetto al precedente che era stato fatto oggetto di ricorso alla ecc.ma Corte. La esclusione di "ogni valutazione dell'interesse pubblico", infatti, poteva prestarsi anche, in sede di applicazione, ad una interpretazione "conservativa della illegittimita' costituzionale", le quante volte l'eccesso di potere attenga alla mera opinabilita' di tale valutazione, laddove porre il limite del controllo al solo "merito", in senso stretto e tecnico, significa "recuperare" al controllo una serie notevolissima di ipotesi di effettiva valutazione dell'interesse pubblico, sotto il profilo dell'"eccesso di potere" che si utilizza in quanto formalmente qualificato come vizio di legittimita' dell'atto. Il limite della mera legittimita', posto all'esercizio del controllo, sancito dalla Costituzione e apparentemente richiamato dallo stesso esordio dell'art. 1 del d.P.R. oggetto del presente ricorso, viene, in realta', subito dopo varcato con quella limitata esclusione del solo "merito". Basta sfogliare un repertorio di giustizia amministrativa, per scorgere in quante occasioni, sotto il profilo dell'"eccesso di potere", siasi invasa - appunto - la valutazione del pubblico interesse concretamente operata dal soggetto istituzionale che e' - viceversa - il solo soggetto preposto al suo soddisfacimento e che gode della discrezionalita' amministrativa. Il d.P.R. n. 479/1993 ha, poi, "rimediato" alla omissione, perpetrata in occasione della emanazione del d.P.R. n. 40/1993, introducendo un art. 3 che prevede la composizione delle commissioni statali di controllo sugli atti amministrativi delle regioni. Era apparso, infatti, sconcertante che, nella precedente occasione di esercizio della delega legislativa, il principale e, per certi versi, il solo criterio-principio dettato dal legislatore delegante, quello, cioe', di "adeguare la composizione" delle commissioni stesse, fosse stato del tutto ignorato e pretermesso, pretesamente sostituendo la dovuta osservanza di siffatto criterio-principio con una disposizione (peraltro mantenuta in vigore anche dopo la "novella"³) istitutiva di un non previsto "organo centrale" sovraordinato, sedente presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, denominato "comitato" - per cosi' dire. . . "tecnico". Orbene, l'attuale disciplina della composizione delle commissioni di controllo, prevede: AA) una maggioranza (3 su 5) di componenti espressi all'interno delle strutture burocratico-funzionariali delle amministrazioni centrali dello Stato, oltre al commissario del Governo che presiede ciascuna commissione; BB) la vicepresidenza vicaria di ciascuna commissione attribuita di diritto ad uno dei tre anzidetti funzionari della amministrazione centrale dello Stato, e tale attribuzione e' espressamente ricondotta alla legge n. 400 del 1988 che ha per oggetto le funzioni e le responsabilita' di amministrazione attiva, le quali sono tutt'altra cosa dall'attivita' di controllo di legittimita' degli atti; CC) il limite di validita' delle deliberazioni di ciascuna commissione, stabilito nella presenza, non gia' di tre (la maggioranza, usualmente coincidente con il c.d. "numero legale"), ma di quattro membri, il che si traduce nella tassativa predeterminazione, per la adozione di qualunque deliberazione, di una maggioranza effettiva di funzionari della amministrazione dello Stato, tenuto conto che in caso di parita' prevale il voto del presidente (per esservi almeno quattro componenti, debbono esservi almeno due di detti funzionari); DD) la appartenenza settoriale dei funzionari della amministrazione dello Stato che deve coincidere con la appartenenza settoriale (dicasteriale) dei corrispondenti dirigenti che fanno parte del "comitato tecnico" centrale, da cui l'evidente subordinazione gerarchica di ciascun commissario allo "omologo", di livello sicuramente piu' elevato ed appartenente al medesimo settore di amministrazione, che siede nell'organo centrale; EE) la collocazione fuori ruolo e la dispensa da ogni obbligo di servizio, che rappresentano sicuramente fattori di insopprimibile stimolo a conseguire il "rinnovo" nel rispettivo incarico presso ciascuna commissione, che e', infatti, previsto, senza alcun criterio di "rotazione" sostitutiva, ogni tre anni e che, evidentemente, dovra' essere disposto, per ciascun "ruolo" (settore della amministrazione centrale - dicastero), dai dirigenti relativi, uno dei quali - per ciascuno dei tre ruoli di appartenenza - siede nel "comitato tecnico" centrale. Il controllo diviene, in tal modo, estrinsecazione gerarchizzata di amministrazione attiva, snaturandosi del tutto in se' stesso e ponendosi in aperto conflitto con gli artt. 125 e, conseguentemente, 118 della Costituzione, dal punto di vista della autonomia delle regioni (art. 115), gli atti delle quali possono, viceversa, soggiacere unicamente ad un controllo di legittimita' che deve essere esercitato attraverso un "giudizio" dell'organo a cio' deputato, a sua volta sottratto a qualsivoglia subordinazione, diretta o indiretta, che condizioni, con criterio burocratico e gerarchico le espressioni del giudizio medesimo. Non e' il caso di spingersi a considerare la Magistratura e la funzione giurisdizionale (pur con cio' che si dira' circa la essenza "paragiurisdizionale" della attivita' di controllo), ma bastera' considerare che il nostro ordinamento non consentirebbe alcuna specie di vincolo per i giudizi dei docenti nell'esercizio della loro attivita' di valutazione dei discenti, o per i giudizi dei collaudatori delle opere pubbliche, ovvero, infine, per i giudizi delle commissioni mediche militari, seppur impartite parte di ufficiali medici superiori in grado (per fare soltanto alcuni esempi) ... Solo negli ambiti della amministrazione attiva e all'interno di una organizzazione gerarchica preposta a compiti di amministrazione attiva puo' darsi ingresso a discipline e previsioni di questa specie, ma la funzione di controllo non e', per definizione, esercizio di amministrazione attiva, ne' le commissioni di controllo possono assimilarsi a organi od uffici subordinati a quale che sia organo od ufficio loro funzionalmente sovraordinato. Tanto valeva, a questo punto, proporre una riforma costituzionale intesa a ripristinare il controllo-approvazione da parte dei prefetti (i quali, gerarchicamente subordinati all'esecutivo, sono, per loro natura e collocazione, soggetti alla supremazia della amministrazione di appartenenza e dei dirigenti che di essa fanno parte). Non a caso si e' parlato, invece, di carattere "paragiurisdizionale" della funzione di controllo. Tale carattere discende, innanzitutto, dal contenuto di "giudizio" che essa ha: e tale carattere risulta - paradossalmente - accentuato dalla stessa legge delega 23 ottobre 1993, n. 421, la quale pone, come uno dei "criteri" della delega, quello di "istituzionalizzare" il "contraddittorio procedimentale", allorche' (lett. h) del primo comma, dell'art. 2), essa dispone per la "assicurazioone della audizione dei rappresentanti dell'ente controllato". L'iniziale omessa osservanza di siffatto criterio-principio della delega, e' stata ovviata con la "novella" costituita dal d.P.R. n. 479 (art. 3 - introdotto - nono comma). In dottrina, Onorato Sepe, alla voce "controlli", nella recente "Enciclopedia giuridica Treccani", si esprime come segue: "La struttura del potere di controllo e' stata vista a lungo come un accertamento (giudizio 'sulla attivita' controllata) ..'". E soggiunge: "Nell'ambito delle definizioni appare ancor oggi quindi veramente comprensiva quella di un potere che, avendo per fine la tutela di valori espressi o istituzionalmente protetti dall'ordinamento, si struttura in un giudizio sulla normalita' o meno dell'agire .. Come corollari sono da assumere quelli .. della tipicita' del controllo ..". Ancor piu' significativo e' quanto lo stesso autore (ibidem) afferma subito dopo: "la dottrina .. ancorandosi al concetto di neutralita' dei controlli, ha ritenuto che il controllore non debba perseguire fini concreti (questi sono "propri della amministrazione attiva), ma debba esigere il rispetto dei canoni astratti posti dall'ordinamento". Riuscirebbe difficile rinvenire una piu' appropriata e perspicua definizione giuridica di quella citata del Sepe, della funzione di controllo, e, all'opposto, un piu' stridente contrasto delle disposizioni oggetto del presente ricorso, pertanto costituzionalmente illegittime. La Corte dei conti, avendo rango istituzionale di magistratura, con l'attributo della assoluta indipendenza, adempie a funzioni non dissimili dal controllo degli atti. Piace ricordare, infine, che lo stesso autore citato (Sepe) conclude affermando che taluno (Nulli A.S. "I controlli sugli atti degli ee. territoriali nella Costituzione", in Riv. trim. dir. pubblico, 1972, I, 78: Saraceno D. "Il sistema dei controlli amministrativi nello stato delle autonomie", in Nuova Rass. 1980, n. 1) ha sostenuto che i controlli dovrebbero essere demandati ad un "magistrato che operi super partes". Il carattere "paragiurisdizionale" della funzione di controllo e' evidenziato anche dalle forme nelle quali essa si esercita: termini tassativi, decadenze, divieto di rilevare ulteriori elementi di giudizio al di fuori di quelli inizialmente rilevati e richiesti ad integrazione (unicita' delle ordinanze c.d. "istruttorie"), efficacia del silenzio, ecc., ecc., il che, sia detto per inciso, conferma che non si intravede quali possano essere i "criteri procedurali" la cui formulazione viene demandata all'esecutivo, su .. proposta del comitato tecnico centrale. Cio', anche a prescindere dalla vistosa esorbitanza rispetto alla delega legislativa, gia' dedotta ed argomentata nella prima parte del presente ricorso. Un'ultima notazione. La legge delega (sotto questo profilo, ottemperata dal d.P.R. n. 40, ma molto meno dalla "novella" di cui al d.P.R. n. 479) si e' proposta di "ridurre" l'ambito degli atti soggetti a controllo ("atti fondamentali della gestione"), per cui si evidenzia come ulteriormente illegittima, anche sotto il profilo di una irragionevole contraddittorieta' rispetto alla volonta' del legislatore delegante, la contestuale e burocratica "gerarchizzazione" della funzione. In realta', col d.P.R. n. 479 e con il combinato disposto dei due d.P.R., il controllo si trasforma in "cogestione", in "approvazione", in un sistema istituzionale di atti complessi, sia pure a complessita' diseguale, per cui organi dello Stato (Presidente del Consiglio dei Ministri - comitato tecnico "centrale" - singole commissioni) si ingeriscono nella gestione degli affari regionali e nell'esercizio delle funzioni che alle sole regioni, viceversa, competono, il che e' del tutto al di fuori e oseremmo dire agli antipodi del sistema istituzionale delineato dalla Costituzione della Repubblica.