IL PRETORE
   Nella  causa  civile  iscritta  in materia di lavoro al n. 25218/93
 R.G., promossa da Ciliegi  dott.  Giuseppe,  rappresentato  e  difeso
 dagli  avvocati Baldinelli e Monacelli di Gubbio con studio in via G.
 Devoto n. 10/a, contro la u.s.l. Alto Chiascio in persona del  legale
 rappresentante  pro-tempore,  rappresentato  e difeso dall'avv. Paolo
 Codovini di Gubbio con  studio  in  via  Reposati  n.  5,  avente  ad
 oggetto:  ricorso  ex  art.  700  del c.p.c. in materia di lavoro per
 estinzione del rapporto.
    Il vice pretore onorario, sciogliendo la riserva, cosi'  provvede:
 il  dott.  Giuseppe  Ciliegi, medico di medicina generale "legato" da
 rapporto di collaborazione, concretantesi in una prestazione  d'opera
 professionale  continuativa  e coordinata (stanti i quali connotati e
 la conseguente natura "para-subordinata" di tale prestazione, non  vi
 e'  dubbio,  ne'  e'  stata  proposta  questione  al riguardo, che la
 cognizione della vicenda in oggetto ricada sotto la giurisdizione del
 giudice  adi'to),  con  l'u.l.s.s.  Alto  Chiascio,   in   forza   di
 convenzione  attuativa  del  disposto  dell'art.  48  della  legge n.
 833/1978, ha  chiesto  a  questo  giudice  di  voler,  con  procedura
 d'urgenza,  emettere  pronuncia  sospensiva del provvedimento di tale
 ente (cfr. nota n. 38600 in data 9 ottobre  1993,  versata  in  atti)
 "prescrittivo"/"dichiarativo"  della  cessazione di detto rapporto in
 forza del compimento, da parte del ricorrente, del settantesimo  anno
 di  eta'  (evento  verificatosi  allo  scadere  del 15 novembre u.s.,
 nell'immediato prosieguo del deposito del  ricorso,  avvenuto  il  12
 novembre 1993).
    Il  provvedimento  impugnato  si  fonda sul disposto dell'art. 11,
 primo comma, lett. a), del d.P.R. 28 settembre 1990, n. 314  (recante
 Accordo collettivo nazionale per la regolamentazione dei rapporti con
 i  medici  di medicina generale, ai sensi dell'art. 48 della legge 23
 dicembre 1978, n. 833), ove leggesi che "Il rapporto tra le uu.ss.ll.
 e i medici iscritti  negli  elenchi  cessa:  a)  per  compimento  del
 settantesimo anno di eta' .."
    A parere del ricorrente, tale norma (di natura contrattuale) e' da
 ritenere  illegittima  (per  violazione  di  legge,  vale  a dire per
 violazione del disposto dell'art. 48 della legge citata  ove  nessuna
 previsione  di  cessazione  dei  rapporti  della  specie  in esame si
 rinverrebbe per  causa  del  raggiungimento  o  del  superamento  del
 settantesimo   anno   di   eta'),  e,  quindi,  da  disapplicare  con
 riferimento alla sua posizione.
    Tale doglianza va disattesa.
    Nessun contrasto si palesa, invero, esistente fra  le  due  citate
 fonti normative.
    Se  e'  pur  vero  che  l'art. 48 della legge citata reca, nel suo
 terzo comma, elencazione delle materie che debbono formare oggetto di
 previsione e di regolamentazione negli accordi collettivi di  cui  il
 d.P.R. n. 314/1990 rappresenta l'esempio piu' recente, e che in detto
 elenco  non  si rinviene alcun riferimento espresso al limite massimo
 di eta' per l'esercizio dell'attivita' professionale nell'ambito  del
 rapporto  convenzionale, e' altresi' vero che da tale "omissione" non
 puo' trarsi alcun elemento in favore della tesi del ricorrente.
    L'elencazione   suddetta   non  ha,  invero,  il  carattere  della
 "tassativita'".
    Dalla "lettura" dell'art. 48 piu' volte citato si  evince  che  la
 funzione  del  relativo  disposto non e' gia' quella di puntualizzare
 esaustivamente  "tutte"  le  materie  da  trasfondere  negli  accordi
 collettivi di attuazione, bensi' quella, di assai maggior latitudine,
 di norma intesa (cfr. il suo primo comma) ad assicurare l'uniformita'
 del  trattamento  economico  e  normativo  del  personale sanitario a
 rapporto convenzionale, senza limitazioni o riserve.
    L'elencazione che segue tale affermazione di  principio  non  reca
 previsioni neppure tacitamente inibitorie di prescrizioni in ordine a
 singoli  oggetti  della  contrattazione,  ed  in particolare, pur non
 prevedendola espressamente, neppure vieta la fissazione di un termine
 finale del rapporto.
    L'espressione  verbale  usata  nell'introdurre  tale   elencazione
 ("devono  provvedere")  non consente di ritenere la "tassativita'" di
 quello che segue (sia per il suo significato intrinseco, sia  per  il
 significato ad essa attribuibile nel contesto della norma e in quello
 piu'  ampia  della fonte), piu' esattamente, "indefettibilita'" delle
 relative previsioni, e non  anche  l'inibizione  di  altre,  lasciate
 all'autonomia dei contraenti.
    Ed  anzi,  le  previsioni  di  cui  all'elencazione,  attesine gli
 oggetti, fanno ritenere l'intento del legislatore di far disciplinare
 compiutamente il rapporto convenzionale nella sede contrattuale.
    Ne  risulta  la  piena  conformita',   e   correlativita',   delle
 disposizioni  del d.P.R. n. 314/1990, per il punto in esame, a quelle
 della legge n. 833/1978.
    Ne segue che l'art. 11 citato non presta il fianco a  critiche  di
 sorta.
    (Cfr.,  sui  punti  sin  qui  trattati,  pret. Perugia, sez. dist.
 Gubbio 24 ottobre 1992 (ord.), Giur. merito  1993,  808,  piu'  sopra
 riportata pressoche' in termini).
    Sotto   l'esaminato  profilo,  il  ricorso  deve,  quindi,  essere
 reietto.
    Nel recente periodo ha avuto ingresso nell'ordinamento norma (art.
 16 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n.  503)  attributiva  ai  dipendenti
 civili dello Stato e degli enti pubblici non economici della facolta'
 di permanere in servizio, con effetto dalla data di entrata in vigore
 della  legge  23  ottobre  1992, n. 421, per un periodo massimo di un
 biennio oltre i limiti di eta' per il collocamento a riposo per  essi
 previsti.
    Tale  facolta' non appare esercitabile da appartenenti a categorie
 di lavoratori diverse da  quelle  indicate  nella  norma,  attesa  la
 tassativita'  dell'elencazione  ivi contenute. Ne', tale facolta', si
 palesa evincibile "aliunde".
    Tali constatazioni fanno ritenere la norma medesima non  in  linea
 con i principi affermati dall'art. 3 della Costituzione.
    Non  sembra,  infatti,  che risponda a criteri di "ragionevolezza"
 escludere dal "beneficio" della protrazione del  rapporto  lavorativo
 (con quello che ne consegue sul piano economico, non essendovi dubbio
 che nel rapporto retribuzione/pensione sia il primo termine quello di
 maggior  valenza  per  gli  aspetti  pecuniari)  quelle  categorie di
 lavoratori, quanto meno, le cui relazioni con il soggetto  datore  di
 lavoro  e  le  cui  prestazioni si connotino in modo tale da renderle
 appieno assimilabili alle "categorie protette".
    In    particolare,   non   sembra   esservi   dubbio   in   ordine
 all'assimilabilita'  fra  tali   ultime   categorie   e   quella   di
 appartenenza   del   ricorrente,  stanti  il  pubblico  servizio,  di
 peculiare  interesse,  che  questa  e'  demandata  a  svolgere  e  la
 disciplina cui essa, da tempo, risulta soggetta (cfr., al riguardo, i
 disposti  degli  "accordi"  succedutisi  nel  tempo,  e,  da  ultimo,
 l'accordo recepito nel d.P.R. n. 314/1990).
    Se la ratio della disposizione in esame  (art.  16  del  d.lgs  n.
 503/1992)  e'  quella, o anche quella, di adeguare i tempi della vita
 lavorativa all'innalzamento della durata media di vita dell'uomo,  ed
 alla   correlata  protrazione  della  sua  capacita'  lavorativa,  le
 limitazioni da  essa  poste  non  appaiono  giustificabili,  venendo,
 altresi',  almeno  in  qualche  misura,  a contrasto con il principio
 affermato nell'art. 4, primo comma, della Costituzione.
    Deve ritenersi che alla proposta questione non faccia  difetto  il
 requisito   della   "rilevanza",  giacche',  la  domanda,  stante  la
 posizione assunta sull'unico argomento fondamentale, potrebbe  essere
 accolta  nel  solo  caso  in  cui  la  Corte  costituzionale  dovesse
 pronunciarsi con sentenza additiva, nel senso piu' sopra "suggerito",
 ampliando il numero e la specie delle categorie  "beneficiate"  dalla
 disposizione  di  legge  che  al  sindacato  della  Corte medesima si
 affida.
    Deve ritenersi che alla proposta questione neppure faccia  difetto
 il requisito della "non manifesta infondatezza", stanti gli argomenti
 sopra svolti a supporto del "sospetto" di incostituzionalita'.
    Salva  l'ipotesi (che, ove dovesse verificarsi, sarebbe risolutiva
 della vicenza in senso diverso da quello auspicato) in cui  la  Corte
 costituzionale,  ponendosi anche come giudice a quo, dovesse ritenere
 che la disposizione di legge impugnata  contrasti  con  il  principio
 affermato  dall'art. 4, primo comma, della Costituzione, non gia' per
 le ragioni sopra, assai  sinteticamente,  enunciate,  bensi'  perche'
 impediente  il  realizzarsi delle condizioni che rendono effettivo il
 diritto al lavoro per  coloro  che  ne  siano  meramente  titolari  o
 comunque  rendente  ancor  piu'  disagevole (rispetto a cio' che, nel
 concreto, gia' avviene) il loro verificarsi.