IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa penale di primo grado contro Basco Antonio di Benedetto, nato a S. Cipriano d'Aversa il 17 agosto 1969 ed ivi residente alla via A. Negri n. 5, detenuto per altro, presente, imputato del delitto p. e p. dall'art. 12-quinquies, secondo comma, del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, e successive modificazioni perche' essendo sottoposto a procedimento penale per il delitto di ricettazione, risultava essere proprietario o, comunque, avere la disponibilita' di una abitazione di circa 600 mq di recente edificazione, composta da 3 piani fuori terra e giardino in S. Cipriano d'Aversa di valore sproporzionato rispetto al suo reddito, non avendo mai presentato la dichiarazione dei redditi. Acc. in S. Cipriano d'Aversa il 21 dicembre 1992 Con decreto che dispone il giudizio del 15 giugno 1993 l'imputato Basco Antonio e' stato tratto al giudizio di questo tribunale per rispondere del delitto p. e p. dall'art. 12-quinquies, secondo comma, del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, e successive modificazioni. Negli atti preliminari del dibattimento il tribunale ravvisa la rilevanza e la non manifesta infondatezza di una questione di legittimita' costituzionale, per contrasto dell'art. 12-quinques della legge 7 agosto 1992, n. 356, e successive modificazioni con: a) l'art. 42 della Costituzione, per essere stata prevista dalla norma denunciata una limitazione del diritto di proprieta', al di fuori degli scopi e della funzione di cui alla riserva di legge contenuta nel secondo comma del citato art. 42 della Costituzione. Si noti, infatti, che l'art. 832 del codice civile, definisce la proprieta' come "il diritto di godere e di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l'osservanza degli obblighi stabiliti dall'ordinamento giuridico". A differenza dello statuto Albertino, che all'art. 29 stabiliva che "tutte le proprieta', senza alcuna eccezione, sono inviolabili", l'art. 42 della Costituzione ha previsto che "la proprieta' e' pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprieta' privata e' riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento ed i limiti, allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprieta' privata puo' essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale. La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria ed i diritti dello Stato sulle eredita'". Dal che discende che e' proprio la stessa Costituzione che ha fissato i limiti e le finalita' attraverso le quali e' consentito al legislatore delimitare - o addirittura sacrificare - l'esercizio del diritto di proprieta'. Posto che quello di proprieta' e' un diritto soggettivo, la sua tutela, oltre ad essere garantita dall'art. 42 della Costituzione, e' espressamente disciplinata dalle norme del libro sesto del Codice civile. Vero e proprio principio di civilta' giuridica e', poi, quello fissato dall'art. 2697 del c.c., in base al quale "chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento". Nel caso di specie, l'inversione dell'onere della prova, che l'art. 12-quinquies della legge 7 agosto 1992, n. 356, cosi' come modificato dall'art. 5, lett. a) del d.l. 20 maggio 1993, n. 153, ha trasferito dal titolare dell'accusa, e dal giudice - che ne deve verificare la sussistenza - a carico di colui che, ha assunto la qualita' di imputato, si pone - ad avviso del tribunale - in contrasto con i canoni costituzionali; b) gli artt. 3, 24 e 27 della Costituzione, per l'ingiusta compressione del diritto di difesa dell'imputato per il delitto previsto dalla norma denunciata. Essa si configura - infatti - come un reato a condotta mista, prima commissiva (possesso o disponibilita' di beni di valore sproporzionato all'attivita' svolta e a redditi dichiarati), poi omissiva (mancata giustificazione del possesso legittimo dei beni, strettamente connessa all'inversione dell'onere della prova), cosicche' il diritto di difesa risulta compromesso, non potendo l'imputato, diversamente da tutti gli altri imputati, esercitarlo anche a mezzo del silenzio che, al contrario, nella fattispecie integra proprio uno degli elementi oggettivi del reato di cui all'art. 12-quinquies della legge 7 agosto 1992, n. 356 e successive modificazioni. La norma denunciata realizza, pertanto, una disparita' di trattamento tra gli imputati il reato di cui all'articolo 12-quinquies, i quali non possono avvalersi della facolta' di non rispondere e gli imputati per altri reati. In buona sostanza, la norma incriminatrice - peraltro - prescinde totalmente dall'instabilita' processuale in itinere, che caratterizza l'elemento soggettivo del reato, confliggendo apertamente con il principio di ragionevolezza e logicita', garantito dall'art. 3 della Costituzione, a fronte dei diversi esiti processuali del reato presupposto (assoluzione/condanna). D'altra parte, proprio perche' la norma denunciata non esige la condanna per i reati presupposti, che sottenderebbero delittuosi trasferimenti di ricchezze ma unicamente la sottoposizione a siffatti procedimenti, la mancata giustificazione della legittima accumulazione patrimoniale comporta che la condanna per il reato di cui all'art. 12-quinques derivi non gia' dall'impulso del pubblico ministero nella ricerca delle prove, bensi' da una condotta che la Costituzione garantisce ad ogni imputato, attraverso il diritto di difesa (art. 24, secondo comma) e la presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma). Giova ricordare che di tanto erano ben consapevoli i Ministri pro-tempore dell'interno e di grazia e giustizia, i quali introdussero il reato come emendamento in fase di legge di conversione. Infatti negli atti preliminari del Senato della Repubblica - Assemblea (resoconto stenografico della seduta pomeridiana del 23 luglio 1992) si legge: "Certo, in quest'ultimo caso dobbiamo convenire che si realizza un ribaltamento di uno dei principi generali in materia di prove, dal momento che e' lo stesso soggetto a dovere dimostrare la provenienza e la natura lecita delle sue sostanze per non incorrere in sanzioni penali .." (Ministro Mancino). " .. So bene che si agisce qui su un terreno difficile e delicato per i poteri conferiti alle pubbliche autorita' di incidere sui diritti e sui beni della persona, prima ancora che rigorosi accertamenti probatori si siano compiuti in sede giudiziaria .." (Ministro Martelli). Ed invero, essendo punito, se non giustifica la legittima provenienza dei beni, l'imputato per il delitto di cui all'art. 12-quinquies della legge 7 agosto 1992, n. 356 (cosi' come modificato dall'art. 5, lett. a), del d.l. 20 maggio 1993, n. 153) e' obbligato, a fronte della ritenuta sproporzione dei beni, ad attivarsi per dimostrare la propria innocenza, contraddicendo il suo legittimo diritto di non rispondere e di non collaborare, dovendo l'accusa essere suffragata dal pubblico ministero che l'allega. Del reso la Corte costituzionale, gia' con la sentenza n. 110 del 1968 dichiaro' incostituzionale l'art. 708 del cod. pen. perche' contrastante con l'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui faceva richiamo per l'imputato, alle condizioni personali di condannato per mendicita', di ammonito, di sottoposto a misure di sicurezza personale, o a cauzione di buona condotta, attesa la diversita' di situazioni soggettive nelle quali possono venire a trovarsi i cittadini sottoposti a cosi' variegate condizioni personali. Nel caso di specie, le osservazioni ed i rilievi che la Corte costituzionale formulo' rispettivamente per escludere l'illegittimita' costituzionale dell'art. 708 del cod. pen. con riferimento a coloro che avevano gia' riportato condanna per reati contro il patrimonio e per ritenerla, invece, con riguardo alle altre categorie di soggetti, sembra si attaglino perfettamente alla previsione della norma incriminatrice di cui all'art. 12-quinquies della legge 7 agosto 1992, n. 356, cosi' come modificato dall'art. 5, lett. a), del d.l. 20 maggio 1993, n. 153, e - pertanto - ne confermano e ne rafforzano il sospetto di incostituzionalita'. E' indubitabile, alla stregua delle suesposte motivazioni, la rilevanza delle dedotte questioni di illegittimita' costituzionale, dovendo questo tribunale decidere sulla presente vicenza processuale e - pertanto - verificare concretamente la sussistenza della prova di colpevolezza nei riguardi dell'imputato. E' altresi' in re ipsa la non manifesta infondatezza delle dodotte questioni di illegittimita' costituzionale, a dimostrazione delle quali si richiamano, oltre alle motivazioni dianzi esposte, anche quelle contenute nelle ordinanze di remissione che hanno denunciato il sospetto di incostituzionalita' di alcune delle medesime norme, ed in particolare le ordinanze datate 17 febbraio 1993 (in Gazzetta Ufficiale - 1a serie speciale anno 1993 - n. 19) e 22 febbraio 1993 (in Gazzetta Ufficiale - 1a serie speciale anno 1993 - n. 21) della Corte suprema di cassazione e quelle datate 2 novembre 1992 (in Gazzetta Ufficiale - 1a serie speciale anno 1993 - n. 5 e 12 novembre 1992 (in Gazzetta Ufficiale - 1a serie speciale anno 1993 - n. 19) del tribunale di Salerno, rispettivamente iscritte nel registro degli atti di promovimento del giudizio della Corte costituzionale - anno 1993, ai numeri 228, 207, 21 e 198.