ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nei giudizi  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  7,  settimo
 comma, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in
 materia  di  previdenza,  di  sanita'  e di pubblico impiego, nonche'
 disposizioni fiscali), convertito, dalla legge 14 novembre  1992,  n.
 438,  e  dell'art. 2, quarto comma, del decreto-legge 11 luglio 1992,
 n. 333 (Misure urgenti per il risanamento  della  finanza  pubblica),
 convertito  dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, promossi con ordinanze
 emesse il 26 febbraio 1993 dal Tribunale amministrativo regionale per
 la Lombardia - sezione di Brescia, il 15 luglio/18 novembre 1992  dal
 Tribunale  amministrativo  regionale  del Lazio, l'8 gennaio 1993 dal
 Tribunale amministrativo regionale della Liguria, l'11 marzo 1993 dal
 Tribunale amministrativo regionale del Veneto (n. 8 ordinanze), il 26
 febbraio 1993 dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia
 - sezione di Brescia e il 25 gennaio 1993 ed il 18 dicembre 1992  (n.
 2  ordinanze)  dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia,
 rispettivamente iscritte ai nn. 236, 358, 380, 382,  384,  385,  386,
 395, 455, 456, 457, 583, 585, 586 e 587 del registro ordinanze 1993 e
 pubblicate  nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 22, 28, 29,
 36 e 41 dell'anno 1993;
    Visti gli atti di costituzione di Gallo Fabio Massimo, di  Mammone
 Giovanni  ed  altri,  di  Eramo  Federico, di Romeo Maria Giovanna ed
 altri nonche' gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
 ministri;
    Udito nella udienza pubblica  del  30  novembre  1993  il  Giudice
 relatore Enzo Cheli;
    Uditi  l'avvocato  Giovanni  Di  Gioia  per  Gallo  Fabio Massimo,
 Mammone Giovanni ed altri,  l'avvocato  Giuseppe  De  Vergottini  per
 Eramo  Federico  e  l'Avvocato  dello  Stato  Antonio  Cingolo per il
 Presidente del Consiglio dei ministri;
                           Ritenuto in fatto
    1. - Con due ordinanze del 26 febbraio 1993 (R.O. nn.  236  e  583
 del  1993),  il  Tribunale amministrativo regionale della Lombardia -
 Sezione distaccata di Brescia,  ha  sollevato,  in  riferimento  agli
 artt.  3,  97  e 113 della Costituzione, la questione di legittimita'
 costituzionale dell'art.  7,  settimo  comma,  del  decreto-legge  19
 settembre  1992,  n.  384  (Misure  urgenti in materia di previdenza,
 sanita'  e  di  pubblico  impiego,  nonche'  disposizioni   fiscali),
 convertito  dalla legge 14 novembre 1992, n. 438, dove si dispone che
 "l'art. 2, quarto comma, del decreto-legge 11 luglio  1992,  n.  333,
 convertito,  con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, va
 interpretato nel senso che  dalla  data  di  entrata  in  vigore  del
 predetto decreto-legge non possono essere piu' adottati provvedimenti
 di  allineamento  stipendiale,  ancorche'  aventi  effetti  anteriori
 all'11 luglio 1992".
    La  questione  trae  origine  da  due giudizi instaurati da alcuni
 magistrati ordinari nei confronti del Ministero di grazia e giustizia
 per richiedere il riconoscimento del  loro  diritto  a  percepire  lo
 stesso trattamento di altro magistrato - nominato uditore giudiziario
 nel 1989 - di minore anzianita', che ha conservato il piu' favorevole
 trattamento   economico   maturato   nella   precedente  carriera  di
 referendario parlamentare presso il  Senato  della  Repubblica.    Il
 giudice   remittente   premette   che   l'istituto  dell'allineamento
 stipendiale,  originariamente  previsto  per  il  personale  militare
 dall'art.  4,  terzo  comma, della legge 20 novembre 1982, n. 869, e'
 stato successivamente esteso ad altre categorie del pubblico  impiego
 dalla  giurisprudenza,  che ha riconosciuto in questa disposizione un
 principio di carattere generale "idoneo ad evitare  un'ingiustificata
 disparita'   di   trattamento   derivante   dalla   conservazione  di
 trattamenti retributivi  personalizzati".  Tale  principio  e'  stato
 recepito  anche  per  il  personale  della magistratura dalla legge 8
 agosto 1991, n. 265, che ne ha, peraltro,  delimitato  il  contenuto.
 L'art.  1  di  questa  legge  ha,  infatti,  escluso l'applicabilita'
 dell'allineamento stipendiale con trattamenti economici conseguiti in
 settori diversi dalle carriere dirigenziali dello Stato o equiparate,
 nonche', in caso di accesso alla magistratura  mediante  concorso  di
 primo  grado,  la  valutazione  di  trattamenti  gia' acquisiti nella
 precedente carriera mediante allineamento. Ad avviso  del  giudice  a
 quo  nessuna  di queste limitazioni puo' applicarsi ai casi in esame,
 dal momento che la  carriera  di  referendario  al  Senato  e'  stata
 equiparata  dalla giurisprudenza amministrativa a quella dirigenziale
 (v. Cons.  St.,  sez.  IV,  n.  64/1985)  e  il  miglior  trattamento
 retributivo conservato dal magistrato gia' referendario al Senato non
 e'   derivato   da   un  allineamento  stipendiale  conseguito  nella
 precedente carriera, ma solo  dalla  maggiore  entita'  del  relativo
 stipendio.    Al  riconoscimento  del  diritto non sarebbe neppure di
 ostacolo l'art. 2, quarto comma, del decreto-legge 11 luglio 1992, n.
 333, emanato nelle more del  giudizio  e  convertito  dalla  legge  8
 agosto    1992,   n.   359,   che   ha   abrogato   le   disposizioni
 sull'allineamento. Tale abrogazione non aveva eliminato,  infatti,  i
 diritti  sorti  prima  della  sua  entrata  in  vigore,  dei quali si
 controverte nei giudizi a quo. Il riconoscimento dell'allineamento e'
 stato, invece, precluso dalla norma impugnata  che  ha  abrogato  con
 effetto  retroattivo  il diritto all'allineamento o che, comunque, ha
 vietato   all'amministrazione   di   procedere   ad   operazioni   di
 allineamento stipendiale riferite a situazioni pregresse.
    Di  conseguenza, secondo il giudice remittente, la norma impugnata
 risulterebbe lesiva dell'art. 3 della Costituzione, dal  momento  che
 con  la  sua  emanazione  il  legislatore  ha  inteso  bloccare  ogni
 ulteriore  applicazione  dell'istituto  dell'allineamento,  anche  se
 fondata  su  diritti  acquisiti  derivanti  dalle  norme abrogate. La
 disposizione   in   questione,    pur    essendo    formulata    come
 un'interpretazione    autentica,   avrebbe   in   realta'   carattere
 innovativo, dal momento che  ha  esteso  la  decorrenza  della  legge
 interpretata.  Nell'ordinanza si afferma anche che l'irretroattivita'
 costituisce  un  principio generale dell'ordinamento, derogabile solo
 per cause eccezionali, non rilevabili nel caso di  specie.  La  norma
 retroattiva   in   questione  produrrebbe  inoltre  un'ingiustificata
 disparita'  di  trattamento  tra  coloro  che,  in  base  al medesimo
 presupposto - costituito dall'accesso in  magistratura  del  suddetto
 referendario  del  Senato  -  abbiano  gia'  ottenuto  l'applicazione
 amministrativa dell'allineamento o una sentenza favorevole passata in
 giudicato e tutti gli altri.
    Infine, nelle ordinanze si riconosce che la Costituzione non  pone
 un  divieto alle leggi retroattive (salvo che per la materia penale),
 ma si ribadisce che  tali  leggi  devono  corrispondere  al  generale
 criterio  di  ragionevolezza  e  non  devono  violare  altri principi
 costituzionali. Nel caso di specie, la norma  impugnata  risulterebbe
 lesiva, oltre che dell'uguaglianza, dei principi di imparzialita', di
 buon  andamento  e  di  pienezza  della  tutela  giurisdizionale,  in
 violazione degli artt. 97 e 113 della Costituzione.
  2. - Con otto ordinanze di contenuto identico a quelle del Tribunale
 amministrativo regionale della Lombardia sopra  ricordate  (R.O.  nn.
 382,  384,  385,  386,  395,  455,  456 e 457 del 1993), il Tribunale
 amministrativo  regionale  del  Veneto  ha  sollevato   la   medesima
 questione di legittimita' costituzionale gia' sollevata dal Tribunale
 amministrativo  regionale  della Lombardia nei confronti dell'art. 7,
 settimo comma, del decreto-legge n. 384 del  1992,  convertito  dalla
 legge  n.  438  del  1992.    3.  - Anche il Tribunale amministrativo
 regionale della Sicilia, con due ordinanze del 18 dicembre  1992,  di
 identico  contenuto (R.O.   nn. 586 e 587 del 1993), ha sollevato, in
 riferimento agli artt.  3,  24,  97  e  113  della  Costituzione,  la
 questione  di  costituzionalita'  della disposizione impugnata con le
 ordinanze sopra richiamate.   Condividendo i  dubbi  di  legittimita'
 costituzionale  avanzati  dai  ricorrenti  -  magistrati ordinari che
 richiedono il riconoscimento  dell'allineamento  stipendiale  con  il
 medesimo magistrato proveniente dalla carriera del Senato considerato
 nelle  altre ordinanze - il Tribunale remittente espone che l'intento
 perseguito dal legislatore con la norma  impugnata  e'  evidentemente
 quello   di   bloccare   ogni  ulteriore  applicazione  dell'istituto
 dell'allineamento fondato su norme  abrogate.  Per  raggiungere  tale
 effetto   si   e'   introdotta   una   disposizione   formulata  come
 un'interpretazione  autentica,  ma  avente   in   realta'   carattere
 innovativo,  consistente nell'estensione della decorrenza retroattiva
 della legge interpretata. Si osserva anche, a questo  proposito,  che
 se  la  norma  impugnata  fosse  di  interpretazione autentica la sua
 retroattivita' dovrebbe arrestarsi al momento dell'entrata in  vigore
 della  disposizione interpretata.   Anche il Tribunale amministrativo
 regionale della Sicilia sottolinea che l'irretroattivita' costituisce
 un principio dell'ordinamento, derogabile solo per cause  eccezionali
 considerate   prevalenti  sui  rapporti  preteriti  e  sul  principio
 dell'affidamento.    Nel  caso  di  specie,  non  rinvenendosi   tali
 presupposti,  si  rileva  la violazione di vari principi di rilevanza
 costituzionale, come  quelli  dell'affidamento,  della  certezza  dei
 diritti  maturati  e della correttezza della funzione giurisdizionale
 che, a causa della norma impugnata, sarebbe impedita nel suo  lineare
 svolgimento.    Con  argomentazioni  analoghe  a  quelle svolte nelle
 precedenti ordinanze, anche  il  Tribunale  amministrativo  regionale
 della  Sicilia  censura  la  disparita' di trattamento prodotta dalla
 disposizione in questione tra coloro che, alla stregua  del  medesimo
 presupposto  verificatosi  prima della sua entrata in vigore, avevano
 gia'  ottenuto  il  richiesto  allineamento   stipendiale   per   via
 amministrativa  o in base a sentenza passata in giudicato e gli altri
 aventi diritto che, invece, non hanno ottenuto l'allineamento.  Sotto
 tali profili la disposizione di cui all'art. 7,  settimo  comma,  del
 decreto-legge  n.  384  del  1992  e' ritenuta lesiva dei principi di
 uguaglianza, di ragionevolezza, di imparzialita' e di buon  andamento
 dell'amministrazione,    nonche'    di    pienezza    della    tutela
 giurisdizionale.
    4. - Con ordinanza 15 luglio-18 novembre 1992  (R.O.  n.  358  del
 1993),  il Tribunale amministrativo regionale del Lazio ha sollevato,
 in riferimento agli artt. 3, 24, 36, 73, 97, 101,  108  e  113  della
 Costituzione, le questioni di legittimita' costituzionale degli artt.
 7, settimo comma del decreto- legge n. 384 del 1992, convertito dalla
 legge n. 438 del 1992, e dell'art. 2, quarto comma, del decreto-legge
 n. 333 del 1992, convertito dalla legge n. 359 del 1992.
    Il  giudice  remittente  premette  che  nel  corso  di un giudizio
 instaurato da alcuni magistrati ordinari nei confronti del  Ministero
 di  grazia  e giustizia per richiedere l'allineamento stipendiale con
 il trattamento economico riconosciuto ad altro magistrato proveniente
 dalla carriera di referendario del Senato, era  dapprima  intervenuto
 il  decreto-legge  n.  333  del  1992,  che all'art. 2, quarto comma,
 conteneva modifiche al sistema previgente di allineamento stipendiale
 - basato sull'art. 4, terzo comma, della legge n. 869 del 1982  -  e,
 successivamente,  il  decreto-legge n. 384 del 1992, che, all'art. 7,
 settimo comma, (mediante interpretazione autentica del citato art. 2,
 quarto comma, del precedente  decreto)  ha  disposto  che  dalla  sua
 entrata  in  vigore non possono piu' essere adottati provvedimenti di
 allineamento  stipendiale,   ancorche'   aventi   effetti   anteriori
 all'entrata in vigore del decreto-legge n. 333 del 1992. Il giudice a
 quo puntualizza quindi che al momento della decisione della causa non
 si  puo'  prescindere  dall'esame  della  nuova  normativa, della cui
 costituzionalita' si dubita.  Un primo profilo esaminato concerne  la
 violazione  degli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione. Ad avviso del
 giudice  remittente  la  norma  impugnata   inibirebbe   al   giudice
 amministrativo  la  pronuncia  su  questioni  gia'  sottoposte al suo
 giudizio e lederebbe l'art. 113,  secondo  comma,  la  cui  finalita'
 sarebbe  quella  di  evitare  che  il  legislatore possa sottrarre da
 rapporti giuridici  complessi  ed  articolati  aree  nelle  quali  e'
 esclusa la tutela giurisdizionale.  In secondo luogo, si dubita della
 legittimita'  della  norma  in questione in riferimento agli artt. 3,
 101 e 108 della Costituzione,  dal  momento  che  essa,  inibendo  al
 giudice  di  tener  conto della legislazione vigente al momento della
 presentazione del ricorso, lederebbe l'indipendenza, l'autonomia e la
 pienezza della giurisdizione amministrativa ed avrebbe  lo  scopo  di
 elidere  indirizzi  giurisprudenziali  consolidati.    Altro  aspetto
 considerato nell'ordinanza e'  quello  della  incidenza  sui  diritti
 quesiti  dei  ricorrenti, operata con una norma retroattiva, idonea a
 determinare  discriminazioni  lesive  degli  artt.    3  e  73  della
 Costituzione.
    Un'  ulteriore  violazione  del principio di ragionevolezza di cui
 all'art. 3 della Costituzione consisterebbe nell'assoluta mancanza di
 contenuto interpretativo della norma  in  esame,  attraverso  cui  si
 realizzerebbe un'ipotesi di eccesso di potere legislativo.
    Infine,  il  Tribunale  amministrativo  regionale del Lazio dubita
 anche della costituzionalita' della disciplina  sostanziale  prevista
 dall'art.  2,  quarto  comma,  del decreto-legge n. 333 del 1992, dal
 momento che il mantenimento di meccanismi  di  "trascinamento"  delle
 anzianita'  pregresse  suscettibili  di  determinare forti differenze
 retributive all'interno della magistratura, verrebbe a  incidere  sul
 principio  di  unicita'  della  giurisdizione  e  sulla necessita' di
 uniformita' di trattamento economico  dei  magistrati  a  parita'  di
 funzioni.  E  questo  in violazione degli artt. 3, 36, 97 e 101 della
 Costituzione.
    5. - Con altra ordinanza del 25 gennaio  1993  (R.O.  n.  585  del
 1993),   il  Tribunale  amministrativo  regionale  della  Sicilia  ha
 sollevato, nel corso di un giudizio  proposto  da  alcuni  magistrati
 amministrativi,  la  stessa  questione di costituzionalita' sollevata
 con le ordinanze nn. 586 e 587 del 1993, sopra richiamate al punto 3.
 In questa ordinanza si premette che i ricorrenti precedono  in  ruolo
 un  loro collega che gode di un piu' favorevole trattamento economico
 attribuitogli in  relazione  al  servizio  prestato,  precedentemente
 all'ingresso  nella  magistratura  amministrativa,  nel  ruolo legale
 della  Banca  d'Italia.    Il  giudice  remittente  osserva  che   la
 limitazione  al  riconoscimento  dell'allineamento di cui all'art. 1,
 primo comma, della legge n. 265 del  1991  non  rileva  nel  caso  in
 esame,  dal  momento  che la qualifica di legale della Banca d'Italia
 abilitato a patrocinare in Cassazione e'  da  ritenere  equiparata  a
 quella  dirigenziale  dello Stato, dato il carattere di "ente-organo"
 che va riconosciuto alla Banca d'Italia.  Inoltre, il giudice  a  quo
 ritiene  che  l'art. 1 della legge n. 265 del 1991 e l'art. 2, quarto
 comma, del decreto-legge  n.  333  del  1992  non  abbiano  carattere
 retroattivo  ma  siano  innovativi,  e  come  tali  non applicabili a
 situazioni  in  cui  i  presupposti  per  l'allineamento   si   erano
 compiutamente realizzati in precedenza.  Il giudice remittente svolge
 poi  argomentazioni  analoghe  a  quelle esposte nelle sue precedenti
 ordinanze concernenti la medesima norma impugnata.
    6. - Con ordinanza dell'8 gennaio 1993  (R.O.  n.  380  del  1993)
 anche   il   Tribunale  amministrativo  regionale  della  Liguria  ha
 sollevato, in riferimento agli  artt.  3  e  97  della  Costituzione,
 questione  di  legittimita' nei confronti dell'art. 7, settimo comma,
 del decreto-legge n. 438 del 1992.
    Dopo  aver  sottolineato,  ai  fini  della   rilevanza,   che   la
 disposizione  impugnata sarebbe ostativa all'accoglimento del ricorso
 con il quale un primo dirigente dell'amministrazione  periferica  del
 Ministero  delle finanze ha richiesto l'equiparazione stipendiale con
 colleghi di pari o minore anzianita', il  giudice  remittente  espone
 che  la  disposizione medesima inciderebbe negativamente su posizioni
 giuridiche  aventi  natura  di  diritti  soggettivi  perfetti.   Tale
 disposizione  avrebbe  un  evidente carattere innovativo, dal momento
 che nessun dubbio interpretativo emergeva dal testo dell'art.  2  del
 decreto-legge  n.  333  del 1992, che si limitava a sopprimere, dalla
 sua entrata in vigore, l'istituto dell'allineamento  stipendiale.  Il
 Tribunale  amministrativo  regionale  della Liguria rileva poi che la
 norma impugnata violerebbe l'art. 3 della  Costituzione,  comportando
 una   ingiustificata  disparita'  di  trattamento  tra  i  dipendenti
 pubblici che abbiano gia' ottenuto un provvedimento  di  allineamento
 stipendiale  prima dell'entrata in vigore della disposizione in esame
 e coloro che, magari a causa di ritardi burocratici, si  siano  visti
 negare il beneficio.
    La   situazione   di   sperequazione  cosi'  realizzatasi  avrebbe
 conseguenze   negative   anche   sull'efficienza    della    pubblica
 amministrazione  -  con  violazione dell'art. 97 della Costituzione -
 poiche'  il  rendimento  del  dipendente  al  quale  non   e'   stato
 riconosciuto  l'allineamento  sarebbe  influenzato  negativamente dal
 constatare che altri colleghi per ragioni casuali si sono giovati del
 beneficio in questione.
    7. - In tutti i giudizi ha spiegato intervento il  Presidente  del
 Consiglio   dei  ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura
 generale  dello  Stato,  per  richiedere  che  le   questioni   siano
 dichiarate   inammissibili  o  infondate.    In  linea  pregiudiziale
 l'Avvocatura eccepisce la non rilevanza della questione nei giudizi a
 quo, dal momento che  le  particolari  disposizioni  applicabili  con
 riferimento   all'allineamento   stipendiale   non   consentirebbero,
 comunque,  ai  ricorrenti  di  ottenere   il   beneficio   richiesto.
 Riferendosi  alla  posizione  dei magistrati ordinari la difesa dello
 Stato osserva che per tale  categoria  trova  applicazione  l'art.  1
 della  legge  n.  265  del  1991,  che  al  primo  comma  esclude  la
 valutazione di elementi retributivi derivanti da posizioni  personali
 di  stato,  ovvero  derivanti  dal  mantenimento  di  piu' favorevoli
 trattamenti economici comunque conseguiti in  settori  diversi  dalle
 carriere  dirigenziali dell'Amministrazione dello Stato o equiparate.
 Poiche'  nel  caso   di   specie   i   ricorrenti   hanno   richiesto
 l'allineamento  con  lo stipendio percepito da un collega proveniente
 da un settore (ruolo del Senato della Repubblica) non equiparato alle
 carriere dirigenziali dello Stato,  non  sarebbe  potuto  sorgere  il
 diritto  al  beneficio invocato.   Si sostiene, inoltre, che l'art. 1
 della legge n. 265  del  1991  avrebbe  natura  retroattiva,  essendo
 destinato  a  fornire  l'interpretazione corretta della normativa ivi
 citata,    in    passato    oggetto    di    contrastanti    pronunce
 giurisprudenziali.   Nel merito, l'Avvocatura precisa che gia' l'art.
 2, quarto comma, del decreto-legge  n.  333  del  1992  era  volto  a
 precludere la possibilita' di procedere ulteriormente ad allineamenti
 stipendiali,  ma  poiche' tale norma ha dato luogo ad interpretazioni
 difformi, si e' chiarito  con  la  disposizione  impugnata  il  reale
 contenuto  del  precetto, senza con questo voler minimamente incidere
 sui presupposti dell'istituto che si era inteso abrogare e sull'epoca
 di maturazione dei  presupposti  stessi.    Nell'atto  di  intervento
 relativo  al  giudizio  di costituzionalita' instaurato dal Tribunale
 amministrativo regionale del Lazio (R.O. n.   358  del  1993),  oltre
 alle  argomentazioni  gia'  descritte,  l'Avvocatura contesta anche i
 dubbi di costituzionalita' concernenti l'art. 2,  quarto  comma,  del
 decreto-legge  n.  333  del  1992 - impugnato solo nell'ordinanza del
 Tribunale amministrativo regionale  del  Lazio  -  rilevando  che  la
 diversificazione   nel   tempo   di   trattamenti  economici  non  e'
 censurabile allorquando, come nella specie, non incida sulle esigenze
 essenziali di vita del lavoratore e della sua famiglia.
    8. - Nel giudizio davanti alla Corte  si  sono  costituiti  alcuni
 magistrati  ricorrenti  nel  giudizio instaurato dinanzi al Tribunale
 amministrativo regionale del  Lazio,  insistendo  per  l'accoglimento
 delle questioni sollevate.  In primo luogo, le parti private rilevano
 che lo strumento dell'allineamento stipendiale - introdotto dall'art.
 4,  terzo  comma, del decreto-legge n. 681 del 1982, ma espressamente
 previsto  per  il personale della magistratura dalla legge n. 265 del
 1991 - costituisce un rimedio  di  carattere  generale  volto  a  far
 rispettare  il  principio del pari trattamento a parita' di funzioni.
 Dopo  aver  ribadito  le  censure  gia'  svolte   nell'ordinanza   di
 remissione,  relative  alla  violazione  del  diritto di difesa ed al
 principio di uguaglianza, si riafferma il carattere innovativo  della
 disposizione dell'art. 7, settimo comma, del decreto-legge n. 384 del
 1992,  dal  momento che il chiaro disposto dell'art. 2, quarto comma,
 del decreto-legge n.  333  del  1992  non  rendeva  necessario  alcun
 intervento   interpretativo   del   legislatore.     La  disposizione
 impugnata, ad avviso dei ricorrenti, modificherebbe integralmente  il
 dato  testuale  dell'art.  2,  quarto comma, del decreto-legge n. 333
 allo scopo di impedire al giudice amministrativo  l'accoglimento  dei
 ricorsi  proposti  dai magistrati interessati. In tal modo si sarebbe
 realizzato uno "sviamento strumentale  della  funzione  legislativa",
 non  conforme  al  sistema costituzionale.   Sotto diverso profilo le
 parti private affermano che  il  carattere  retroattivo  della  norma
 contenuta   nel   decreto-legge   n.   384  del  1992  violerebbe  il
 fondamentale principio di civilta' giuridica in virtu' del  quale  la
 legge  non  dispone che per l'avvenire, nonche' i diritti quesiti dei
 magistrati interessati.
    9. - Nel giudizio instaurato  con  l'ord.  n.  385  del  1993  del
 Tribunale  amministrativo  regionale  del  Veneto si e' costituito il
 ricorrente, per chiedere l'accoglimento della questione.
    Nell'atto di costituzione si osserva in  via  preliminare  che  le
 norme    abrogative   dell'istituto   dell'allineamento   stipendiale
 contenute nell'art. 2, quarto comma, del  decreto-legge  n.  333  del
 1992  e nell'art. 7, settimo comma, del decreto-legge n. 384 del 1992
 non dovrebbero ritenersi applicabili nel giudizio a quo, dal  momento
 che  tali  disposizioni  non  fanno  alcun riferimento esplicito alle
 leggi nn. 425 del 1984  e  265  del  1991  che  hanno  dettato  norme
 speciali per i magistrati.
    Ad  avviso della parte privata, gli artt. 4 della legge n. 425 e 1
 della legge n. 265 realizzerebbero una forma di produzione  normativa
 mediante  rinvio materiale o recettizio all'art. 4 della legge n. 869
 del  1982,  del  cui  contenuto  si  sarebbero  appropriati  in  modo
 definitivo.  La regolamentazione dell'allineamento stipendiale per il
 settore delle carriere dei  magistrati  avrebbe,  quindi,  avuto  fin
 dall'emanazione   della   legge  n.  425  un  carattere  di  assoluta
 specialita', cosi' da non poter essere abrogato da  una  disposizione
 successiva   di  carattere  generale,  quale  quella  risultante  dal
 combinato disposto degli artt. 2, quarto comma, del decreto-legge  n.
 333 e 7, settimo comma, del decreto-legge n. 384. La peculiarita' del
 regime  giuridico  della  carriera dei magistrati rispetto agli altri
 pubblici  impiegati  sarebbe,  d'altro  canto,   giustificata   dalla
 necessita'  di garantire la loro indipendenza, assicurata dagli artt.
 106, 107 e 108 della Costituzione.
    Passando all'esame del merito della questione sollevata, nell'atto
 di costituzione si ribadisce che la  norma  impugnata  violerebbe  il
 principio  di  uguaglianza  e  che  non sussisterebbe una ragionevole
 giustificazione per la sua efficacia retroattiva. Se  il  legislatore
 ha   facolta'   di   dettare  disposizioni  retroattive,  queste  non
 potrebbero,   comunque,   pregiudicare   valori    costituzionalmente
 garantiti  - quali quelli in tema di pari trattamento retributivo del
 personale di magistratura a parita' di progressione in carriera - ne'
 l'affidamento creatosi sotto la vigenza della normativa anteriore.
    La  norma  impugnata  contrasterebbe,  pertanto, in riferimento al
 rapporto di impiego  pubblico,  con  gli  artt.  3,  36  e  97  della
 Costituzione   e,   in   relazione   allo   specifico  settore  della
 magistratura, con gli artt. 101, 102 e 107 della Costituzione.
    10. - Si sono, infine, costituiti alcuni magistrati ricorrenti nel
 giudizio instaurato davanti  al  Tribunale  amministrativo  regionale
 della  Sicilia, che ha dato luogo alla questione di costituzionalita'
 sollevata con l'ord. n. 385 del 1993.
    Nell'atto di costituzione  si  osserva  che  la  norma  impugnata,
 avendo   indubbio   carattere   innovativo,   non  potrebbe  comunque
 applicarsi ai giudizi in corso.
    Le parti private rilevano, a questo proposito, che il legislatore,
 quando  ha  voluto  negare  con  effetto   retroattivo   il   diritto
 all'azione,  ha  esplicitamente  disposto l'estinzione dei giudizi in
 corso. Poiche' nella specie non si e' provveduto  in  tal  senso,  si
 dovrebbe  ritenere  che  la  norma  in  questione  si  sia limitata a
 disporre il limite temporale dopo il quale non  possono  piu'  essere
 proposte  nuove domande in sede giurisdizionale. Per converso, pero',
 proprio perche' nulla il legislatore ha previsto in ordine ai giudizi
 in corso, non potrebbe dubitarsi che gli stessi debbano essere decisi
 sulla scorta della disciplina in precedenza vigente.
    11. - In prossimita' dell'udienza sia l'Avvocatura generale  dello
 Stato sia le parti private ricorrenti nel giudizio instaurato davanti
 al  Tribunale  amministrativo  regionale  del  Lazio hanno presentato
 memoria, dove vengono ribadite e approfondite le rispettive tesi.
                        Considerato in diritto
    1. - Le ordinanze sopra richiamate sollevano questioni che sono  o
 identiche  o connesse o analoghe. I giudizi relativi vanno, pertanto,
 riuniti al fine di poter adottare un'unica pronuncia.
    2. - Tutte le questioni  di  costituzionalita'  di  cui  e'  causa
 investono  l'art.  7,  settimo  comma, del decreto-legge 19 settembre
 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di  sanita'  e
 di  pubblico  impiego, nonche' disposizioni fiscali), convertito, con
 modificazioni, dalla legge 14 novembre 1992, n. 438, dove si  dispone
 che  "l'art.  2,  comma  quarto, del decreto-legge 11 luglio 1992, n.
 333, convertito con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359,
 va interpretato nel senso che dalla data di  entrata  in  vigore  del
 predetto decreto-legge non possono essere piu' adottati provvedimenti
 di  allineamento  stipendiale,  ancorche'  aventi  effetti  anteriori
 all'11 luglio 1992".
    In  un  caso  (ordinanza  n.  358/93,   promossa   dal   Tribunale
 amministrativo  regionale del Lazio) l'impugnativa viene estesa anche
 alla norma "interpretata" (art. 2, comma quarto, del decreto-legge n.
 333 del 1992), dove e'  statuito  che  "a  decorrere  dalla  data  di
 entrata  in  vigore  del  presente decreto sono soppressi: il secondo
 periodo del terzo comma dell'art. 4 del  decreto-legge  27  settembre
 1982,  n. 681, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre
 1982, n. 869 ..".
    Le questioni sono state  sollevate  dai  Tribunali  amministrativi
 regionali  della  Lombardia,  del  Veneto, del Lazio, della Sicilia e
 della Liguria nel corso di giudizi promossi da magistrati ordinari  e
 amministrativi  (e,  in un caso, da un dirigente dell'Amministrazione
 finanziaria)   al   fine   di   sentirsi   riconoscere   il   diritto
 all'allineamento stipendiale con colleghi che, pur  inquadrati  nella
 stessa  qualifica con minore o pari anzianita', godono di trattamenti
 economici piu' favorevoli  maturati  in  precedenti  carriere  (quali
 quella   di   referendario   parlamentare   presso  il  Senato  della
 Repubblica, cui fanno riferimento i ricorrenti magistrati ordinari; o
 di funzionario dell'ufficio legale della Banca  d'Italia,  cui  fanno
 riferimento  i ricorrenti magistrati amministrativi) e conservati "ad
 personam" nel nuovo inquadramento in magistratura.
    4. - L'istituto dell'allineamento stipendiale -  come  si  ricorda
 nelle  ordinanze  di  rimessione  - e' stato introdotto, per la prima
 volta, a favore del personale militare dall'art. 4, terzo comma,  del
 decreto-legge  27  settembre  1982, n. 681 (convertito dalla legge 20
 novembre 1982, n. 869), dove  si  disponeva  che  "al  personale  con
 stipendio  inferiore  a quello spettante al collega con pari o minore
 anzianita' di servizio, ma promosso successivamente, e' attribuito lo
 stipendio di quest'ultimo".
    Dopo l'entrata in vigore di questa disposizione numerose  pronunce
 della  giurisprudenza  amministrativa e contabile individuavano nella
 stessa un principio di carattere generale, suscettibile di valere per
 l'intera sfera del pubblico impiego, in quanto idoneo ad evitare, tra
 gli appartenenti alla medesima qualifica  in  possesso  della  stessa
 anzianita',  disparita' di trattamento derivanti dalla conservazione,
 a favore  di  alcuni,  di  trattamenti  retributivi  "personalizzati"
 maturati in ruoli e qualifiche diverse.  Tale principio, diversamente
 interpretato  e  applicato  nelle varie pronunce adottate in materia,
 veniva, infine,  per  il  personale  di  magistratura,  espressamente
 riconosciuto  e positivamente regolato con la legge 8 agosto 1991, n.
 265, dove, all'art. 1, si estendeva  a  questo  personale  l'istituto
 dell'allineamento  previsto  dall'art.  4,  terzo comma, del decreto-
 legge n. 681 del 1982, escludendosi, di contro,  "la  valutazione  di
 elementi  retributivi  derivanti  da  posizioni  personali  di stato,
 ovvero spettanti per effetto  di  incarichi  o  funzioni  non  aventi
 carattere  di  generalita', ovvero derivanti dal mantenimento di piu'
 favorevoli  trattamenti  economici  comunque  conseguiti  in  settori
 diversi  dalle carriere dirigenziali dell'amministrazione dello Stato
 o equiparate, ovvero dalle carriere di cui alla legge 2 aprile  1979,
 n.  97".    Nel  corso  dei  giudizi  di  cui e' causa interveniva il
 decreto-legge  n.  333  del  1992  che,  all'art.  2,  quarto  comma,
 disponeva  la  soppressione,  a  decorrere  dalla  data di entrata in
 vigore  dello  stesso  decreto  (11   luglio   1992),   dell'istituto
 dell'allineamento  stipendiale  cosi'  come  previsto dal terzo comma
 dell'art. 4 del decreto-legge n. 681 del  1982.  Nelle  ordinanze  di
 rimessione si rileva che questa norma, in quanto destinata ad operare
 soltanto   per   il   futuro,   non  avrebbe  rappresentato  ostacolo
 all'accoglimento delle domande  dei  ricorrenti,  essendo  le  stesse
 fondate  su  un  presupposto  (collocamento  nello stesso ruolo di un
 collega  dotato  di  anzianita'  minore,  ma   di   piu'   favorevole
 trattamento  economico) verificatosi prima di questa data. Cosi' come
 - aggiungono le stesse ordinanze - non avrebbero potuto rappresentare
 ostacolo all'accoglimento le condizioni poste  per  il  personale  di
 magistratura dall'art. 1 della legge n. 265 del 1991, dal momento che
 anche  questa  legge  e'  intervenuta  successivamente all'evento che
 avrebbe   determinato  nei  ricorrenti  la  maturazione  del  diritto
 all'allineamento e dal momento che tale  evento  potrebbe,  comunque,
 ricondursi  entro  i  limiti  tracciati per i magistrati dallo stesso
 art. 1 della legge n. 265.  Un ostacolo al riconoscimento del diritto
 sarebbe, invece, derivato - sempre ad avviso dei giudici remittenti -
 dalla norma "interpretativa" introdotta con l'art. 7, settimo  comma,
 del  decreto  legge  n.  384  del  1992, che ha sanzionato un divieto
 assoluto e generalizzato di adottare  provvedimenti  di  allineamento
 stipendiale  "ancorche' aventi effetti anteriori all'11 luglio 1992".
 Senonche' tale norma - per il suo contenuto retroattivo (e falsamente
 interpretativo) - verrebbe a violare gli artt. 3,  24,  36,  73,  97,
 101,  108 e 113 della Costituzione in quanto: a) risulterebbe viziata
 da irragionevolezza e da eccesso di potere legislativo,  non  essendo
 fondata  su  di  una  adeguata  causa  giustificativa  e  risultando,
 comunque, priva di natura interpretativa; b) si presenterebbe  lesiva
 di   vari   principi   di   rilievo   costituzionale,   quali  quelli
 dell'affidamento,  della  trasparenza  dei  rapporti  tra   Stato   e
 cittadini,  della  certezza  dei  diritti  maturati,  del  diritto di
 difesa,   della    sindacabilita'    degli    atti    amministrativi,
 dell'indipendenza  e  dell'autonomia  della funzione giurisdizionale,
 dell'imparzialita' e buon andamento della amministrazione; c) sarebbe
 suscettibile di produrre un'ingiustificata disparita' di  trattamento
 tra  coloro  che  hanno  gia'  conseguito,  in  sede amministrativo o
 giurisdizionale,  l'allineamento  stipendiale  e  coloro   che,   pur
 trovandosi   nella  stessa  situazione,  non  possono,  invece,  piu'
 conseguirlo.  Nell'ordinanza del Tribunale  amministrativo  regionale
 del  Lazio  l'impugnativa  viene  altresi'  estesa all'art. 2, quarto
 comma, del decreto legge n. 333 del 1992,  nei  cui  confronti  viene
 contestata   la  violazione  degli  artt.  3,  36,  97  e  101  della
 Costituzione, dal momento che la  stessa  disposizione,  mediante  la
 soppressione  dell'istituto dell'allineamento, ma non dei trattamenti
 "personalizzati", avrebbe reintrodotto la  possibilita',  nell'ambito
 della  magistratura,  di  forti  differenze  retributive,  lesive dei
 principi  di  unicita'  della  giurisdizione  e  di  uniformita'  del
 trattamento  economico  a  parita'  di funzioni e di anzianita' nella
 funzione.
    5.  -  Vanno  preliminarmente  prese  in  esame  le  eccezioni  di
 inammissibilita'per  difetto  di  rilevanza  che - con riferimento ai
 ricorsi proposti da magistrati - sono state sollevate, sotto  profili
 diversi, sia dall'Avvocatura dello Stato che da alcune parti private.
 Ad   avviso   dell'Avvocatura   la   non  rilevanza  delle  questioni
 discenderebbe dal fatto che la disciplina sanzionata, con riferimento
 al personale di magistratura, dalla legge 8 agosto 1991, n. 265,  non
 consentirebbe  ai  ricorrenti  di ottenere l'allineamento stipendiale
 richiesto: e questo in relazione ai divieti posti nell'art. 1 di tale
 legge, dove, ai  fini  del  riconoscimento  dell'allineamento,  viene
 esclusa la possibilita' di valutare elementi retributivi derivanti da
 posizioni  personali  di  stato ovvero da piu' favorevoli trattamenti
 economici conseguiti in settori diversi dalle  carriere  dirigenziali
 dell'amministrazione  statale (primo comma), mentre, d'altro canto, -
 nel caso di accesso alla  magistratura  mediante  concorso  di  primo
 grado  -  viene  preclusa  anche  l'applicabilita'  di trattamenti di
 maggior favore maturati in conseguenza di allineamenti conseguiti  in
 precedenti  carriere  (terzo  comma).  Limiti  questi che - ad avviso
 dell'Avvocatura - si verrebbero tutti a manifestare in relazione alla
 posizione  dei  ricorrenti  ed  a  quella  dei  loro  colleghi  (gia'
 appartenenti uno al ruolo dei  referendari  presso  il  Senato  della
 Repubblica e l'altro al ruolo legale presso la Banca d'Italia) il cui
 trattamento   stipendiale   e'   stato   assunto  come  parametro  di
 riferimento.  Tali  limiti  -  sempre  ad  avviso  dell'Avvocatura  -
 verrebbero  a  operare nonostante che, rispetto alle domande avanzate
 nei giudizi a quibus, i presupposti per l'allineamento fossero venuti
 a maturare anteriormente alla data di entrata  in  vigore  di  questa
 legge, dal momento che alla legge n. 265 del 1991 andrebbe, comunque,
 riconosciuta  una  natura  interpretativa  e,  pertanto, un'efficacia
 retroattiva.
    L'eccezione non puo' essere accolta.
    In  proposito,  si  puo'  solo  osservare  che  le  ordinanze   di
 rimessione  hanno  adeguatamente  motivato  in  ordine alla rilevanza
 delle questioni sollevate,  escludendo  che  le  limitazioni  di  cui
 all'art.  1  della  legge  n.  265  del 1991 potessero applicarsi nei
 giudizi a quibus: e questo in  relazione  sia  alla  possibilita'  di
 equiparare  - alla luce degli indirizzi espressi dalla giurisprudenza
 amministrativa - le carriere svolte  presso  il  Senato  e  la  Banca
 d'Italia   alle   carriere   dirigenziali   dello   Stato,  sia  alla
 legittimita' del riferimento, anche per quanto concerne il  personale
 di  magistratura,  a  migliori  trattamenti retributivi conseguiti da
 colleghi in precedenti carriere e conservati  ad  personam  ai  sensi
 dell'art.  202  del  d.P.R.  10 gennaio 1957, n. 3 e dell'art. 12 del
 d.P.R. 28 dicembre 1970 n. 1079. A tale rilievo va aggiunto il  fatto
 che  le  condizioni  fatte  valere  dai ricorrenti a fondamento delle
 proprie domande sono venute a maturare prima dell'entrata  in  vigore
 della  legge  n.  265  del  1991, la cui disciplina - a differenza di
 quanto affermato  dalla  difesa  dello  Stato  -  non  ha  assunto  i
 caratteri  della  legge  interpretativa  dotata di forza retroattiva.
 Questa natura e questa forza risultano, infatti, escluse dagli stessi
 contenuti innovativi della legge, che, nei primi tre commi  dell'art.
 1,  ha,  per la prima volta, esteso al personale di magistratura, con
 una serie di limitazioni particolari,  l'operativita'  del  principio
 gia'  introdotto  per il personale militare dall'art. 4, terzo comma,
 del decreto-legge  n.  681  del  1982  (mentre  una  disposizione  di
 contenuto   interpretativo   e'   stata,  di  contro,  esplicitamente
 enunciata soltanto  nel  quarto  comma  dello  stesso  articolo,  con
 riferimento specifico all'art. 5 della legge 6 agosto 1984, n. 425).
    Alcune  parti  private  (costituitesi  nei  giudizi  promossi  dal
 Tribunale  amministrativo  regionale  del  Veneto  e  dal   Tribunale
 amministrativo   regionale  della  Sicilia,  rispettivamente  con  le
 ordinanze nn. 385 e 587 del 1993) hanno, a loro volta, contestato  la
 rilevanza  delle questioni sollevate facendo riferimento al carattere
 speciale della disciplina che e' stata posta, in tema di allineamento
 stipendiale dei magistrati, dalla legge 6 agosto  1991,  n.  265  (e,
 gia'  in  precedenza,  in  tema  di  riconoscimento  dell'anzianita',
 dall'art. 4,  nono  comma,  della  legge  6  agosto  1984,  n.  425):
 disciplina  che, in assenza di una abrogazione esplicita, non sarebbe
 stata   intaccata   dalle   disposizioni   di   carattere    generale
 successivamente introdotte sia dall'art. 2, quarto comma, del decreto
 legge  n.  333  del  1992 che dall'art. 7, settimo comma, del decreto
 legge n. 384 del 1992, oggetto di impugnativa.
    Anche questa eccezione non puo' essere accolta.
    Se  e'  vero, infatti, che la legge n. 265 del 1991 ha dettato una
 disciplina di  carattere  speciale  riferita  al  solo  personale  di
 magistratura,  e'  anche  vero che il primo comma dell'art. 1 di tale
 legge, nell'estendere l'applicazione dell'art. 4,  terzo  comma,  del
 decreto legge n. 681 del 1982 al personale di cui alla legge 2 aprile
 1979,  n.  97 (magistrati ordinari e amministrativi; magistrati della
 giustizia militare; avvocati dello Stato) ha operato un  rinvio  alla
 precedente   normativa  che  non  puo'  essere  qualificato  di  tipo
 materiale  (o  fisso),  bensi'  di   tipo   formale   (o   dinamico).
 Interpretazione  questa  che  viene  a  trovare fondamento, oltre che
 nella lettera della norma di  richiamo,  nei  contenuti  della  norma
 richiamata,  suscettibili di essere trasposti nell'ambito della prima
 non nella integralita' del testo formulato con l'art. 4, terzo comma,
 del  decreto-legge  n.   681,   quanto   con   riferimento   generale
 all'istituto  dell'allineamento  stipendiale  che  in  tale  norma ha
 trovato  la  sua  applicazione   originaria.   Di   conseguenza,   la
 soppressione  di tale istituto operata dall'art. 2, quarto comma, del
 decreto-legge  n.  333  del  1992  (soppressione  poi  confermata  ed
 ampliata  nei  suoi  effetti dall'art. 7, settimo comma, del decreto-
 legge n. 384 del 1992) non puo' non avere inciso anche nel  contenuto
 della  disciplina  posta  dall'art.  1  della  legge n. 265 del 1991,
 determinando l'abrogazione implicita e  indiretta  di  questa  norma,
 nella parte in cui a tale istituto aveva fatto riferimento.
    Si  deve,  dunque, riconoscere che le norme della cui legittimita'
 costituzionale si controverte - in quanto applicabili  nei  confronti
 delle  posizioni  fatte valere dai ricorrenti - assumono rilevanza ai
 fini della definizione dei giudizi a quibus.
    6. - Nel merito, le questioni non sono fondate.
    Per quanto concerne l'art. 7, settimo comma, del decreto-legge  19
 settembre  1992,  n.  384,  tutte  le censure prospettate nelle varie
 ordinanze trovano la loro premessa comune nel  carattere  retroattivo
 della  disciplina  posta  con tale disposizione o, piu' precisamente,
 nel fatto che la  stessa  disposizione,  pur  utilizzando  il  modulo
 formale   proprio  della  norma  interpretativa  abbia,  in  realta',
 introdotto  una  disciplina  del  tutto  nuova,   dotata   di   forza
 retroattiva.   Tale   disciplina,   proprio  in  relazione  alla  sua
 retroattivita'  -  oltre  a  incorrere  in  un  eccesso   di   potere
 conseguente  all'uso  deviato  dello  strumento  dell'interpretazione
 autentica  -  avrebbe  operato   una   lesione   di   alcuni   valori
 costituzionali  (affidamento  e  certezza dei rapporti giuridici, per
 quanto concerne l'incidenza della norma  su  diritti  gia'  maturati;
 diritto  di  difesa  e  autonomia della funzione giurisdizionale, per
 quanto concerne gli effetti preclusivi prodotti  dalla  stessa  norma
 sulle   controversie   giudiziarie   gia'  iniziate),  configurandosi
 altresi' viziata da irragionevolezza, anche in relazione ai  principi
 di  eguaglianza e di buon andamento della pubblica amministrazione di
 cui agli artt. 3 e 97 della Costituzione.
    Di tale prospettazione possono essere condivise  le  premesse,  ma
 non le conseguenze.
   In  realta',  nessun  dubbio puo' sussistere in ordine al fatto che
 l'art. 7, settimo comma, del decreto-legge n. 384 non  configuri,  al
 di la' della formula lessicale adottata, una norma di interpretazione
 autentica,  bensi'  una  norma del tutto nuova destinata a svolgere i
 propri  effetti  ex  tunc,  mediante  un'estensione retroattiva della
 sfera di efficacia dell'art. 2, quarto comma,  del  decreto-legge  n.
 333  del  1992.  Concorrono  a  convalidare  questa  lettura tanto il
 rilievo che  la  norma  "interpretata"  -  molto  lineare  nella  sua
 enunciazione  -  non  dava  adito a divergenze tali da richiedere una
 soluzione in via normativa, quanto la  considerazione  che  la  norma
 "interpretante",  anziche' far emergere uno dei possibili significati
 della norma "interpretata", ha aggiunto un elemento del  tutto  nuovo
 ed estraneo alla norma "interpretata", consistente nel conferimento a
 tale norma di una forza retroattiva: con la conseguenza - estranea di
 massima  ai  caratteri  propri  dell'interpretazione  autentica  - di
 estendere la propria efficacia non  fino  alla  data  di  entrata  in
 vigore  della norma "interpretata" (e cioe' fino all'11 luglio 1992),
 ma anche ai rapporti insorti anteriormente a  tale  data.    Da  tale
 natura,  innovativa e retroattiva, della norma impugnata non possono,
 peraltro, farsi discendere le conseguenze di  illegittimita'  che  le
 ordinanze  di  rinvio  hanno  inteso  affermare.    Questa  Corte  ha
 ripetutamente riconosciuto sia la legittimita' di  norme  legislative
 dotate  di  efficacia  retroattiva,  dal  momento che il principio di
 irretroattivita'  della  legge  -  pur  riconosciuto  come  principio
 generale  dall'art.  11,  primo comma, delle disposizioni preliminari
 del codice civile - non ha ottenuto  in  sede  costituzionale  (salvo
 quanto  espresso nell'art. 25 della Costituzione con riferimento alla
 materia penale) una garanzia specifica: di talche' -  come  e'  stato
 piu' volte sottolineato (v. sentt. n. 283 del 1993; nn. 190 e 822 del
 1988;  n.  36 del 1985) - la possibilita' di adottare norme dotate di
 efficacia retroattiva (anche  indipendentemente  dal  loro  eventuale
 carattere  interpretativo)  non  puo'  essere  esclusa,  ove le norme
 stesse vengano a trovare un'adeguata giustificazione sul piano  della
 ragionevolezza  e  non  si  pongano in contrasto con altri principi o
 valori costituzionali specificamente protetti, cosi' da  evitare  che
 la  disposizione  retroattiva  possa  "trasmodare  in  un regolamento
 irrazionale ed arbitrariamente incidere sulle situazioni  sostanziali
 poste  in  essere  da leggi precedenti" (v. sentt. nn. 822 del 1988 e
 349 del 1985).  D'altro canto, rispetto alla  fattispecie  in  esame,
 non  puo'  assumere  rilievo  il  fatto che la norma impugnata si sia
 venuta, nella sostanza, a configurare come norma innovativa dotata di
 forza retroattiva anziche' come vera e propria norma  interpretativa.
 Questo  elemento, assunto isolatamente, non appare, infatti, idoneo a
 integrare  un  vizio  della  legge  (sotto  il   profilo   denunciato
 dell'eccesso  di  potere legislativo), ove si consideri che tanto nel
 caso della norma retroattivamente  innovativa  che  in  quello  della
 norma  propriamente  interpretativa (equivalenti nei loro effetti: v.
 sentt. nn. 118 del 1957, 36 del 1985 e 123 del 1988), la legge e' pur
 sempre  "soggetta  al  controllo  di  conformita'  al  principio   di
 ragionevolezza  secondo criteri analoghi" (v. sent. n. 402 del 1993).
 E questo tanto piu'  ove  si  constati  -  come  e'  dato  constatare
 attraverso  l'interpretazione  logica  e  sistematica  della norma in
 questione -  che,  nella  specie,  l'impiego  della  formula  propria
 dell'interpretazione   autentica  e'  stato  operato  non  tanto  per
 aggirare il principio di irretroattivita'  della  legge,  quanto  per
 rendere  piu' generali e incondizionati gli effetti di abrogazione in
 precedenza disposti.
    7.  -  Poste  queste  premesse,  occorre, dunque, verificare se la
 norma in esame, in relazione alla sua  efficacia  retroattiva,  possa
 aver apportato lesione ai principi e valori costituzionali richiamati
 dalle ordinanze.  Su questo piano, va innanzitutto escluso che l'art.
 7,  settimo  comma,  del  decreto-legge  n.  384  possa  aver leso un
 principio costituzionale di affidamento o di  certezza  dei  rapporti
 giuridici  per  il  fatto  di avere inciso su diritti gia' maturati o
 "quesiti".  Anche a voler ammettere la possibilita' di configurare  -
 secondo  taluni  indirizzi  emersi  nella giurisprudenza - un diritto
 all'allineamento stipendiale maturato prima  dell'entrata  in  vigore
 della legge n. 265 del 1991 (che, come si ricordava, ha, per la prima
 volta,  regolato  l'istituto a favore del personale di magistratura),
 resta pur sempre il fatto  che  dalla  disciplina  costituzionale  in
 vigore  non  e'  dato  desumere,  per  i  diritti di natura economica
 connessi al rapporto di pubblico impiego, una particolare  protezione
 contro l'eventualita' di norme retroattive: di talche', su questo pi-
 ano,  il  vero  limite nei confronti di norme di tale natura non puo'
 essere ricercato altro che nell'esigenza del rispetto  del  principio
 generale di ragionevolezza.
    Ma   va  anche  escluso  che  la  norma  impugnata  -  per  quanto
 suscettibile di trovare applicazione nei giudizi  in  corso  -  possa
 aver  violato  il  diritto di difesa dei ricorrenti o l'autonomia del
 potere giurisdizionale.  Il  legislatore,  nel  formulare  l'art.  7,
 settimo   comma,   del  decreto-legge  n.  384,  ha  agito,  infatti,
 nell'ambito naturale della sua funzione di produzione normativa senza
 ledere, di contro, la sfera propria del potere giurisdizionale. Basti
 solo  considerare  che   la   disciplina   adottata   mediante   tale
 disposizione  -  oltre  a  non  risultare  lesiva  di  giudicati gia'
 formatisi - non ha sottratto ai ricorrenti alcun strumento di  tutela
 giurisdizionale    nei    confronti   degli   atti   della   pubblica
 amministrazione, ne' ha menomato l'autonomia riconosciuta  al  potere
 giurisdizionale nell'applicazione del diritto oggettivo ai fini della
 definizione  delle  singole  controversie (v. sentt. nn. 39 del 1993;
 455 del 1992; 155 del 1990).
    Vanno, pertanto, disattese le censure  formulate  con  riferimento
 agli artt. 24, 73, 101, 108 e 113 della Costituzione.
    8. - La norma impugnata non appare, d'altro canto, viziata neppure
 sotto  il profilo della irragionevolezza o della lesione dei principi
 di eguaglianza e di buon andamento di cui agli artt.  3  e  97  della
 Costituzione.
    In   proposito   va  ricordato  che  l'istituto  dell'allineamento
 stipendiale veniva introdotto con l'art. 4, terzo comma, del decreto-
 legge  n.  681  del  1982  -  inizialmente  con  riferimento  ad  una
 particolare  e limitata categoria di pubblici dipendenti - proprio al
 fine di ovviare a situazioni di disparita' di trattamento retributivo
 determinatesi, nell'ambito di una stessa qualifica, in  relazione  al
 riconoscimento  di  trattamenti  "personalizzati",  non  collegati  a
 specifiche situazioni di stato  del  beneficiario  e  conseguenti  al
 "trascinamento"  di  anzianita'  pregresse  maturate  in qualifiche e
 ruoli diversi. Con l'applicazione di tale istituto s'intendeva  cioe'
 restaurare  il principio di eguaglianza (individuabile, nella specie,
 nella parita' di retribuzione a parita' di funzioni e di anzianita'),
 principio che si riteneva leso dal fatto che  soggetti  dotati  nella
 qualifica  di  anzianita'  pari  o  maggiore  potessero godere di una
 retribuzione  inferiore a quella di fatto goduta da soggetti inseriti
 nella stessa qualifica con anzianita' pari o minore.
    Senonche' tale istituto, nella sua applicazione  pratica,  mentre,
 da  un  lato,  mirava  a eliminare diseguaglianze insorte nell'ambito
 delle singole qualifiche, dall'altro faceva emergere nuove e maggiori
 diseguaglianze tra le diverse  qualifiche  e  le  diverse  categorie:
 diseguaglianze, per di piu', determinate da fattori del tutto casuali
 (oltre  che imprevedibili e incontrollabili) quali quelli conseguenti
 all'assunzione nell'ambito di una determinata categoria  o  qualifica
 di  soggetti  dotati  di trattamenti di maggiore favore conservati ad
 personam.   In altri termini, se  il  riconoscimento  di  trattamenti
 "personalizzati",  nell'ambito  del  pubblico  impiego,  puo' trovare
 giustificazione in relazione alla giusta  esigenza  di  evitare,  nei
 confronti di singoli dipendenti, arretramenti retributivi conseguenti
 da  sviluppi  e  mutamenti  delle loro carriere, piu' difficile resta
 giustificare l'estensione di un trattamento riconosciuto ad  personam
 ad una intera categoria di dipendenti conseguente al fatto, del tutto
 accidentale,    che    un   soggetto   dotato   di   un   trattamento
 "personalizzato" piu' favorevole venga  a  inserirsi  nell'ambito  di
 tale  categoria,  affiancandosi a colleghi che, se pur in possesso di
 una maggiore anzianita', godono di una  retribuzione  minore.  Questa
 estensione,  pur  diretta  a eliminare una diseguaglianza, ha finito,
 infatti, per creare  -  come  sopra  si  accennava  -  diseguaglianze
 ulteriori e per alterare il principio secondo cui la progressione nel
 trattamento  economico  deve corrispondere a criteri prefissati nella
 legge o nei contratti collettivi,  e  collegarsi,  in  ogni  caso,  a
 miglioramenti   nella   qualita'   e   quantita'   delle  prestazioni
 effettuate.
    9.  -  L'irrazionalita'  della  situazione  che   si   e'   andata
 determinando   a   mano   a  mano  che  l'istituto  dell'allineamento
 stipendiale si e'  esteso  nelle  sue  applicazioni  pratiche  -  con
 conseguenti  difficolta'  di  controllo,  previsione e programmazione
 della spesa per il settore del pubblico impiego - inducevano, dunque,
 il legislatore ad adottare la norma soppressiva di  cui  all'art.  2,
 quarto  comma,  del decreto-legge n. 333 del 1992: norma collegata al
 disegno generale di riforma del pubblico impiego - anche in vista del
 riequilibrio della finanza pubblica - che  ha  condotto  all'adozione
 sia  della  legge  di  delegazione  23  ottobre 1992, n. 421, che del
 decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29,  dove,  tra  l'altro,  e'
 stata  disposta  l'abrogazione di tutte le disposizioni che prevedono
 "automatismi" suscettibili di influenzare  il  trattamento  economico
 fondamentale  ed accessorio dei dipendenti pubblici (art. 2, lett. o,
 L. n. 421/92 e art. 72, secondo comma, d.lgs. n. 29/93).
    Senonche', con l'art. 2, quarto comma, del  decreto-legge  n.  333
 del 1992, la soppressione dell'istituto dell'allineamento stipendiale
 veniva  prevista  "a decorrere dalla data di entrata in vigore" dello
 stesso decreto (e cioe' dall'11 luglio  1992),  con  una  limitazione
 temporale che, riducendo la portata generale della scelta abrogativa,
 rischiava,  in pratica, di determinare "una parziale neutralizzazione
 degli effetti" della riforma (v. Relazione al  disegno  di  legge  n.
 1581  presentato dal Governo alla Camera dei deputati il 19 settembre
 1992). Da  qui  l'esigenza  di  intervenire  nuovamente  sulla  norma
 abrogatrice,  ampliandone  la  portata  anche alle situazioni "aventi
 effetti anteriori all'11 luglio 1992".
    Questa  ulteriore scelta, operata con l'art. 7, settimo comma, del
 decreto-legge n. 384 del 1992 - verso cui s'incentra  la  censura  in
 esame  -  non  puo',  dunque,  ritenersi viziata da irragionevolezza,
 essendo stata determinata dall'esigenza di impedire, con  il  massimo
 di  efficacia  generale, l'ulteriore applicazione di un istituto che,
 nella pratica, aveva determinato inconvenienti e distorsioni maggiori
 di quelle cui si intendeva ovviare. Inconvenienti e  distorsioni  che
 l'ulteriore  sopravvivenza  dell'istituto  - per quanto limitata alle
 sole situazioni maturate prima dell'11  luglio  1992  -  non  avrebbe
 fatto altro che estendere ed aggravare.
    Ne'  -  rispetto  alla  particolarita'  della  situazione  che  il
 legislatore si e' trovato a dover affrontare - puo' assumere  rilievo
 il  richiamo  al  principio  di  eguaglianza  di cui all'art. 3 della
 Costituzione, principio che risulterebbe violato in conseguenza della
 disparita' di trattamento determinatasi tra coloro che  hanno  potuto
 gia'  acquisire  l'allineamento  (in  conseguenza di un provvedimento
 amministrativo o di una sentenza definitiva che abbia riconosciuto il
 diritto) e coloro che, invece, pur trovandosi in  posizione  identica
 ai  primi,  non  sono  piu' in grado di ottenere lo stesso vantaggio.
 Tale disparita' - oltre a fondarsi  su  evenienze  di  fatto  la  cui
 esistenza   non   risulta   dimostrata   -   non  potrebbe,  infatti,
 giustificare la sopravvivenza, sia pure limitata, di un istituto  che
 si  e'  voluto  espungere  radicalmente  dall'ordinamento  proprio in
 relazione  alla  sua  intrinseca  irrazionalita'  ed   agli   effetti
 sperequativi che andava determinando.
    Risultano,  di  conseguenza,  infondate  anche le censure riferite
 all'art. 3 (sotto i profili della ragionevolezza e  dell'eguaglianza)
 ed all'art. 97 della Costituzione.
    10.   -   Si   presenta,   infine,   infondata   la  questione  di
 costituzionalita' sollevata dal  Tribunale  amministrativo  regionale
 del Lazio (R.O. n. 358/1993) nei confronti dell'art. 2, quarto comma,
 del  decreto-legge n. 333 del 1992, per violazione degli artt. 3, 36,
 97 e 101 della Costituzione.
    Ad avviso del giudice  remittente,  questa  norma,  disponendo  la
 soppressione     dell'istituto     dell'allineamento     stipendiale,
 risulterebbe lesiva della necessaria uniformita' di  trattamento  dei
 magistrati   -   conseguente   dal   principio   di   unicita'  della
 giurisdizione - dal momento che e' rimasta in vita  la  possibilita',
 nell'ambito  della  magistratura, di meccanismi di "trascinamento" di
 anzianita' pregresse  e  di  trattamenti  economici  "personalizzati"
 maturati prima dell'accesso alla funzione giurisdizionale.
    In  proposito  puo' valere il richiamo a quanto sopra si osservava
 in ordine alla ragionevolezza delle scelte  operate  in  materia  dal
 legislatore  sia con il decreto-legge n. 333 che con il decreto-legge
 n. 384 del 1992: e cioe' al fatto che la  soppressione  dell'istituto
 dell'allineamento, operata con tali norme, si era imposta - oltre che
 per esigenze di contenimento della spesa pubblica - per la necessita'
 di  evitare  sperequazioni  ancora  piu'  gravi  di  quelle  cui,  in
 partenza,  si  voleva  rimediare.  Ed  e'  proprio  il  rispetto  del
 principio di eguaglianza e di ragionevolezza a non consentire che una
 particolare  disparita' di trattamento possa essere superata mediante
 l'adozione  di  strumenti  suscettibili  di  aggravare  l'area  della
 diseguaglianza,  determinando  disparita'  ulteriori,  piu' diffuse e
 piu' irrazionali.
    Anche  rispetto  alla norma in esame non possono, pertanto, valere
 le censure formulate dalla ordinanza di rinvio sotto i profili  sopra
 richiamati.