IL TRIBUNALE
    Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa penale di I grado
 contro Giammaria Mirella, nata a Roma  l'11  gennaio  1948,  detenuta
 agli  arresti  domiciliari  in  Roma, via Andersen, 128, imputata del
 reato di cui agli artt. 110 del c.p. 73 del d.P.R.  n.  309/1990  per
 avere illecitamente detenuto al fine di spaccio sostanza stupefacente
 del  tipo  cocaina per un peso lordo complessivo di grammi 835,750 da
 cui si possono ricavare complessivamente n. 3501 d.m.g.  commesso  in
 Roma il 4 novembre 1993.
    Tratti  a giudizio per rispondere del reato in epigrafe, Giammaria
 Mirella e Corini Bernardino richiedevano il giudizio  abbreviato,  al
 quale il pubblico ministero prestava consenso per il solo Corini. Nei
 confronti  della  Giammaria  si e' pertanto proceduto a dibattimento,
 assumendo le prove  richieste  dal  pubblico  ministero  (deposizione
 testimoniale  degli  agenti operanti, perizia su tracce di cocaina su
 bilancine rinvenute nella abitazione degli imputati).  A  conclusione
 del  dibattimento  si  riproduce  pertanto  la stessa situazione gia'
 rimessa al giudizio di codesta Corte  con  ordinanza  dell'8  gennaio
 1991 (r.o. n. 408/1991).
    In  estrema  sintesi,  nella predetta ordinanza - alle cui diffuse
 argomentazioni  si  fa  integrale  rinvio   -   si   prospettava   la
 illegittimita'  dell'art.  452,  secondo  comma,  del c.p.p. inquanto
 subordina la instaurazione del giudizio abbreviato, e la  conseguente
 riduzione  della pena, al consenso del pubblico ministero che, con le
 sue discrezionali scelte investigative, e' arbitro di determinare  la
 decidibilita'  allo  stato  degli  atti  e quindi di precostituire le
 condizioni per negare (legittimamente alla stregua della sentenza  di
 codesta  Corte  n.  183/1990)  il  consenso  alla  trasformazione del
 giudizio direttissimo in  giudizio  abbreviato,  trasformazione  alla
 quale  peraltro,  contraddittoriamente,  la  decidibilita' allo stato
 degli atti non e' di ostacolo in via di principio,  atteso  che  essa
 puo'  essere  colmata  con  la integrazione probatoria prevista dalla
 norma impugnata.
   Con sentenza del 13/22 aprile 1992, n. 187, la Corte costituzionale
 dichiarava l'inammissibilita' della predetta questione, unitamente ad
 altra  analoga  sollevata  dal  tribunale  di Milano, in quanto dalle
 stesse prospettazioni dei giudici a quibus risultava che  al  quesito
 proposto avrebbero potuto darsi ben quattro soluzioni tra loro alter-
 native,  sicche'  si  verteva  in  materia di scelte rientranti nella
 discrezionalita' del legislatore.
    Nella  citata  sentenza,  peraltro,  la   Corte   rinviava   "alla
 complessiva  riconsiderazione  del  giudizio  abbreviato" che sarebbe
 potuta scaturire dalla precedente sentenza 21 febbraio/9 marzo  1992,
 n. 92 con la quale la stessa Corte segnalava al legislatore l'urgenza
 "di ricondurre la normativa impugnata a piena coerenza con i principi
 costituzionali".
    Giova  riportare  alcuni passi salienti della predetta sentenza n.
 92:  "Resta  evidentemente   fermo,   e   va   anzi   ribadito,   che
 l'introduzione,  o  meno,  di un rito avente automatici effetti sulla
 determinazione  della  pena  non  puo'  farsi  discendere  da  scelte
 discrezionali  del  pubblico  ministero.  Tali  sono,  indubbiamente,
 quelle con le quali costui decide quali, e quante, indagini  esperire
 per  porle  a  base  della  richiesta di rinvio a giudizio e, piu' in
 generale, quelle connesse alla sua strategia  processuale:  la  quale
 puo' fargli preferire - in quanto li ritenga non necessari a tal fine
 -   di  rinviare  a  dibattimento  l'esperimento  di  certi  mezzi  o
 l'acquisizione di determinate prove.
    Rispetto al  giudizio  abbreviato  cio'  comporta  l'inaccettabile
 paradosso   per   cui   il  pubblico  ministero  puo'  legittimamente
 precluderne l'instaurazione allegando lacune probatorie da lui stesso
 discrezionalmente determinate".
    "Escluso quindi che si possano ricavare  dall'ordinamento  vigente
 correttivi  idonei a sanare la situazione qui evidenziata, e' percio'
 necessario, al fine di ricondurre l'istituto a piena sintonia  con  i
 principi  costituzionali,  che  il vincolo derivante dalle scelte del
 pubblico ministero sia  reso  superabile  con  l'introduzione  di  un
 meccanismo di integrazione probatoria".
    A circa due anni dal monito della Corte - che in termini del tutto
 espliciti  qualifica  illegittima  l'attuale  disciplina del giudizio
 abbreviato - il legislatore non ha provveduto ne' prevedibilmente, e'
 stato in grado  di  provvedere  in  tempi  brevi,  a  "ricondurre  la
 normativa  impugnata a piena coerenza con i principi costituzionali".
 Questo giudice  pertanto,  ritenendo,  da  un  lato,  di  non  potere
 ulteriormente  protrarre  l'attesa delle auspicate modifiche legisla-
 tive, dall'altro  lato  di  avere  l'imprescindibile  dovere  di  non
 applicare  norme  ordinarie  che  la  stessa  Corte costituzionale ha
 manifestamente  qualificato  illegittime,  non  puo'  che   rimettere
 nuovamente la questione alla decisione del giudice delle leggi.
    Ovviamente, in questa sede non si puo' (ne' si vuole) censurare la
 giurisprudenza  della  Corte  secondo  la  quale  il potere/dovere di
 dichiarare la illegittimita' costituzionale della legge ordinaria non
 puo' essere esercitato quando la  materia  e'  suscettibile  di  piu'
 soluzioni  alternative  compatibili  con  la  Costituzione. Vedra' la
 stessa Corte se con un ordinamento a costituzione rigida e  governato
 dal  principio  di  stretta  legalita' delle pene, sia compatibile il
 "paradosso - rilevato dalla dottrina  proprio  con  riferimento  alla
 decisione  de  qua  -  per  cui una norma riconosciuta invalida dalla
 Corte costituzionale rimane vigente nell'ordinamento".
    Ritiene  peraltro  il  tribunale  che, a ben vedere, delle quattro
 soluzioni alternative a suo tempo prospettate dai giudici remittenti,
 una sola e' quella che puo',  in  termini  razionali,  ricondurre  la
 disciplina   del  giudizio  abbreviato  a  coerenza  con  i  principi
 costituzionali.
    Invero, la prima delle  soluzioni  prospettate  dal  tribunale  di
 Milano,  secondo  la  quale  "dovrebbe  imporsi al pubblico ministero
 (incidendo sull'art. 449) di compiere prima della  instaurazione  del
 giudizio  direttissimo  gli  accertamenti  necessari  ad integrare il
 requisito della decidibilita' allo  stato  degli  atti",  trova  gia'
 risposta  nella  citata  sentenza  n. 92/1992, la' dove codesta Corte
 rileva che un sindacato del giudice sulle  scelte  investigative  del
 pubblico  ministero  "non e' concretamente possibile" sia perche' "la
 natura  eminentemente  soggettiva  e  discrezionale  di  tali  scelte
 comporta  che analoghe caratteristiche finirebbe fatalmente per avere
 il sindacato del giudice"  sia  perche'  un  tale  sindacato  non  e'
 armonizzabile con il sistema del codice, nel quale il principio della
 "completezza"  delle  indagini  va  misurato  sul  metro  non  di  un
 accertamento pieno ma "di quanto necessario all'esercizio dell'azione
 penale".
    La seconda delle soluzioni prospettate dallo stesso  tribunale  di
 Milano,  secondo  la  quale  dovrebbe  "prevedersi  che  il  consenso
 dell'organo dell'accusa alla instaurazione  del  giudizio  abbreviato
 possa  essere  condizionato  all'espletamento  da  parte del giudice"
 degli accertamenti necessari ad integrare la dedicibilita', presta il
 fianco a piu' di una obiezione.
    Anzitutto il giudice, di fronte  ad  una  richiesta  del  pubblico
 ministero condizionata all'assunzione di una prova, potrebbe trovarsi
 costretto   nell'alternativa   o   di  assumere  una  prova  ritenuta
 manifestamente superflua o irrilevante (art. 190,  primo  comma,  del
 c.p.p.)  ovvero  di precludere il giudizio abbreviato pur in presenza
 di una situazione processuale che consentirebbe, a suo  giudizio,  la
 decisione allo stato degli atti.
    In secondo luogo, la predetta soluzione si risolverebbe in realta'
 in  una  previsione  di  immanente ingiustificatezza del dissenso del
 pubblico ministero.
    Invero, in presenza di una  norma  che  attribuisse  a  costui  il
 potere/dovere di condizionare il suo consenso allo espletamento delle
 attivita'  integrative,  il  dissenso  sarebbe sempre ingiustificato,
 giacche' il meccanismo previsto dall'art.  452,  secondo  comma,  del
 c.p.p.  -  che, secondo l'interpretazione prevalente richiamata dalla
 stessa Corte nella sentenza n. 92/1992, consente l'assunzione di ogni
 tipo di prova  -  costituirebbe  risorsa  normativa  sufficiente  per
 realizzare  in  qualunque  situazione  processuale il requisito della
 decidibilita' e quindi per superare il vincolo derivante dalle scelte
 investigative  del  pubblico  ministero  (cfr.  la  citata  sent.  n.
 92/1992).
    In  altre  parole,  nell'ipotetico quadro normativo in discorso la
 decidibilita'  allo  stato  degli  atti   non   potrebbe   costituire
 condizione  giustificatrice  del dissenso del pubblico ministero, con
 la  conseguenza  che   il   giudice   dovrebbe   sempre   dichiararlo
 ingiustificato ed applicare la riduzione della pena a conclusione del
 dibattimento.  Tale  quadro  normativo  percio'  non sarebbe idoneo a
 riportare il giudizio abbreviato a razionale coerenza con i  principi
 costituzionali   perche'   non   salvaguarderebbe   "quel   nesso  di
 inscindibilita' tra riduzione della pena  ed  effettiva  celebrazione
 del  giudizio  abbreviato"  che codesta Corte "ha riconosciuto essere
 nota  caratterizzante  il  nuovo  istituto"  (sent.  n.  92/1992  che
 richiama le precedenti n. 27/1990 e n. 176/1991).
    Agli  stessi  rilievi si presta la soluzione prospettata da questo
 giudice nella ordinanza  8  gennaio  1991  in  alternativa  a  quella
 fondata sulla secca eliminazione del consenso del pubblico ministero.
    A  ben  guardare,  in realta', il tribunale prospettava alla Corte
 una "interpretazione di rigetto" che, da un lato, avrebbe consentito,
 nell'immediato, di ricondurre il giudizio abbreviato al rispetto  del
 principio  costituzionale di legalita' delle pene e, dall'altro lato,
 avrebbe potuto costituire un efficace stimolo per il legislatore, che
 non avrebbe non potuto avvertire l'urgenza di intervenire  una  volta
 che  la  Corte  - interpretando l'art. 452, secondo comma, del c.p.p.
 nel senso prospettato dal giudice remittente  -  fosse  pervenuta  in
 pratica  all'affermazione,  normativamente  vincolante,  di immanente
 infondatezza del diniego del pubblico ministero.
    Senonche' la Corte  non  ha  ritenuto  di  poter  aderire  a  tale
 prospettazione - che avrebbe comunque lasciato irrisolta la questione
 del  nesso fra effettivita' del giudizio abbreviato e riduzione della
 pena - richiamando  l'invito  al  legislatore  gia'  formulato  nella
 sentenza n. 92/1992.
    Ma,  come  s'e'  detto,  il  legislatore  e' rimasto inerte, cosi'
 rilegittimando una nuova verifica della  non  manifesta  infondatezza
 della questione da parte di codesta Corte, che ha piu' volte ammonito
 che le misure normative giustificate da situazioni transitorie - tale
 poteva  considerarsi,  nel  marzo 1992, la fase di "assestamento" dei
 nuovi istituti del codice processuale e in particolare  del  giudizio
 abbreviato,  inciso  con le pronunce di illegittimita' costituzionale
 proprio sul punto del consenso  del  pubblico  ministero  -  "perdono
 legittimita'  se  ingiustificatamente  protratte  nel  tempo"  (Corte
 costituzionale 1 febbraio 1982, n. 15).
    La riconsiderazione della questione - palesemente rilevante per la
 decisione del caso di specie, in cui all'imputata potrebbe applicarsi
 la riduzione della pena nonostante il dissenso del pubblico ministero
 alla trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio  abbreviato
 -  appare  del  resto necessaria anche alla stregua dei nuovi profili
 sopra illustrati e che portano alla conclusione che  la  eliminazione
 del consenso del pubblico ministero e' l'unica via per conciliare con
 i  principi costituzionali di uguaglianza (art. 3 della Costituzione)
 e di stretta legalita' (art. 25 della Costituzione) la permanenza del
 giudizio abbreviato nell'ordinamento processuale.
    Tale  eliminazione  puo'   agevolmente   ottenersi   mediante   la
 dichiarazione  di illegittimita' dell'inciso contenuto nell'art. 452,
 secondo comma, del c.p.p. "e il pubblico ministero vi consente".
    Cosi' rimodellata, la  predetta  norma  consentirebbe,  merce'  il
 meccanismo   di   integrazione   probatoria   in  essa  previsto,  la
 trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato anche
 nei casi in cui le scelte investigative e  processuali  del  pubblico
 ministero  determinino  una  situazione  immediata di indecidibilita'
 allo  stato  degli  atti.  Il  che  consentirebbe  di  conciliare  il
 principio   di   discrezionalita'  della  strategia  processuale  del
 pubblico ministero con i principi di uguaglianza e di legalita' delle
 pene  che  -  come  diffusamente illustrato nella ordinanza 8 gennaio
 1991 - sono  violati  dall'attuale  assetto  normativo  del  giudizio
 abbreviato,  con  particolare  riferimento  alla  trasformazione  del
 giudizio direttissimo nel predetto rito alternativo.
    Per  altro  verso,  l'assetto  normativo  che  risulterebbe  dalla
 dichiarazione  di  illegittimita'  della  norma  sopra indicata - che
 comporterebbe  la  instaurazione  del  giudizio  abbreviato  sol  che
 l'imputato  lo  richieda - risulterebbe pur sempre molto proficuo per
 l'effetto deflattivo che giustifica la riduzione della pena.  Infatti
 anche  nei  casi di non immediata decidibilita', sarebbero pur sempre
 utilizzabili gli atti di indagine della  polizia  giudiziaria  e  del
 pubblico  ministero,  sicche'  l'assunzione delle prove - nelle forme
 semplificate  della  camera  di  consiglio  -  sarebbe  limitata   ai
 necessari  atti  integrativi,  non  evidente ed incisivo profitto per
 l'economia processuale. Ancora piu' evidente e incisivo  sarebbe  poi
 il  benefico  effetto  di  economia  processuale  per  i  casi in cui
 attualmente il giudice,  ritenendo  ingiustificato  il  dissenso  del
 pubblico ministero, accordi all'imputato la riduzione della pena dopo
 la integrale assunzione delle prove nelle forme del dibattimento.