LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
    Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso  proposto  da  Lo
 Iacono   Giovanni,   nato  a  Palermo  il  26  luglio  1924,  avverso
 l'ordinanza 31 marzo 1993 del g.i.p. del tribunale di Roma in sede di
 riesame  del  decreto  13  marzo  1993  del   procuratore   nazionale
 antimafia;
    Sentita la relazione fatta dal consigliere dott. Genesio;
    Lette  le  conclusioni  del  p.m.,  il  quale  chiede  dichiararsi
 manifestamente infondate le proposte questioni di costituzionalita' e
 respingersi il ricorso con condanna alle spese;
                             RILEVATO CHE
    Il difensore di Loiacono Giovanni ricorre  contro  l'ordinanza  in
 data  31  marzo 1993 del g.i.p. del tribunale di Roma, che in sede di
 riesame ha confermato  il  decreto  13  marzo  1993  del  procuratore
 nazionale  antimafia  con  cui e' stato imposto al Loiacono stesso il
 soggiorno cautelare ai sensi dell'art. 25-quater del d.l.  8  giugno
 1992, n. 306, convertito in legge 7 agosto 1992, n. 356.
    Il   ricorrente   deduce  che  erronea  applicazione  della  norma
 anzidetta,  di  cui  eccepisce  comunque   l'incostituzionalita'   in
 relazione  agli  artt.  13 (ingiustificata limitazione della liberta'
 personale), 24  (lesione  del  diritto  di  difesa)  e  27  (funzione
 rieducativa della pena) della Costituzione.
    La  questione  e' senza dubbio rilevante ai fini della definizione
 del giudizio, avendo ad oggetto la norma  in  forza  della  quale  e'
 stata applicata al ricorrente la misura di prevenzione di cui esso si
 duole.
    La   questione  e'  anche  non  manifestamente  infondata.  L'art.
 25-quater  del  d.l.  8  giugno  1992,  n.   306,   convertito   con
 modificazioni  dalla  legge  7  agosto  1992,  n. 356, attribuisce al
 procuratore nazionale antimafia il potere di "disporre  il  soggiorno
 cautelare di coloro nei cui confronti abbia motivo di ritenere che si
 accingano a compiere taluno dei delitti indicati nell'art. 275, terzo
 comma,  del  codice  di procedura penale avvalendosi delle condizioni
 previste nell'art. 416- bis del codice penale o al fine di  agevolare
 l'attivita'  delle  associazioni  indicate nel medesimo art. 416- bis
 (primo comma). Lo stesso  articolo  stabilisce  (quinto  comma)  che,
 entro   dieci   giorni   dalla   notificazione   del   provvedimento,
 l'interessato puo' proporre richiesta di riesame al  giudice  per  le
 indagini  preliminari  presso il tribunale di Roma, il quale provvede
 nei dieci giorni successivi alla ricezione della richiesta,  "sentito
 il  procuratore  nazionale antimafia il quale trasmette senza ritardo
 gli elementi su cui si fonda il decreto".  Contro  la  decisione  del
 giudice  e' ammesso il ricorso per cassazione. Peraltro "la richiesta
 di riesame e il ricorso per cassazione  non  sospendono  l'esecuzione
 del decreto".
    La  problematica  delle  misure  di prevenzione e' stata gia' piu'
 volte affrontata dalla Corte costituzionale in rapporto alle norme di
 cui agli artt. 157, primo comma, e 164-176 t.u.l.p.s., all'art. 1, n.
 3, legge 27 dicembre 1956, n. 1423, nonche' all'art. 18, n. 1,  legge
 22 maggio 1975, n. 152.
    Nella   lunga   serie   di  pronuncie,  con  l'affermazione  della
 legittimita' costituzionale di "un sistema di misure  di  prevenzione
 dei  fatti  illeciti", a difesa "dell'ordinato e pacifico svolgimento
 dei  rapporti  fra  i  cittadini",   risultano   consolidati   alcuni
 importanti  principi,  quali l'obbligo della garanzia giurisdizionale
 per ogni provvedimento limitativo della liberta' personale e il netto
 rifiuto del sospetto come presupposto per l'applicazione di  siffatti
 provvedimenti,  in  tanto  legittimi  in  quanto  motivati  da  fatti
 specifici: norme costituzionali di riferimento, gli artt.  13,  16  e
 25,  terzo  comma (stante il riconosciuto parallelismo, per i dedotti
 profili, fra misure di  prevenzione  e  misure  di  sicurezza)  della
 Costituzione.
    Tale  posizione,  enunciata  gia'  con  la  sentenza n. 2/1956, fu
 riaffermata  nella  successiva  sentenza  n.  11  del  medesimo  anno
 argomentandosi    che   "il   grave   problema   di   assicurare   il
 contemperamento tra le due fondamentali  esigenze  di  non  frapporre
 ostacoli  all'attivita'  di  prevenzione  dei reati e di garantire il
 rispetto degli inviolabili diritti della  persona  umana,  appare  ..
 risolto  attraverso  il  riconoscimento  dei  tradizionali diritti di
 habeas corpus nell'ambito del principio di stretta legalita'",  cosi'
 che "in nessun caso l'uomo potra' essere privato o limitato nella sua
 liberta'  (personale)  se questa privazione o restrizione non risulti
 astrattamente prevista dalla legge, se un regolare giudizio non sia a
 tal  fine  instaurato,  se non vi sia un provvedimento dell'autorita'
 giudiziaria che ne dia le ragioni".
    Piu' specificamente, nella motivazione della sentenza  n.  23  del
 1964,  che ebbe a dichiarare non fondata la questione di legittimita'
 costituzionale dell'art. 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423,  si
 dava  atto  che "nella descrizione delle fattispecie (di prevenzione)
 il legislatore debba normalmente procedere  con  criteri  diversi  da
 quelli   con   cui   procede   nella  determinazione  degli  elementi
 costitutivi di una figura criminosa, e possa far riferimento anche  a
 elementi  presuntivi,  corrispondenti,  pero', sempre a comportamenti
 obiettivamente identificabili". Con specifico riguardo ai nn. 2, 3  e
 4  della  norma impugnata la Corte escludeva quindi che "le misure di
 prevenzione  possano  essere  adottate  sul  fondamento  di  semplici
 sospetti",  richiedendosi  invece "una oggettiva valutazione di fatti
 ..   che   siano   manifestazione   concreta"    della    proclivita'
 delinquenziale  del  soggetto "e che siano stati accertati in modo da
 escludere valutazioni puramente soggettive e incontrollabili da parte
 di chi promuove o applica le misure di prevenzione".
    Nella piu' recente sentenza n. 177/1980 la Corte ha  ribadito  che
 "la  legittimita'  costituzionale  delle  misure  di prevenzione - in
 quanto limitative, a diversi gradi, della  liberta'  personale  -  e'
 necessariamente subordinata all'osservanza del principio di legalita'
 e  all'esistenza  della garanzia giurisdizionale": requisiti, questi,
 "ugualmente essenziali ed intimamente connessi, perche'  la  mancanza
 dell'uno   vanifica  l'altro,  rendendolo  meramente  illusorio".  In
 particolare,  secondo  le  parole  della  Corte,  "il  principio   di
 legalita'  in  materia  di  prevenzione .. implica che l'applicazione
 della misura, ancorche' legata, nella maggioranza  dei  casi,  ad  un
 giudizio  prognostico, trovi il presupposto necessario in fattispecie
 di pericolosita' previste -  descritte  -  dalla  legge:  fattispecie
 destinate  a  costituire il parametro dell'accertamento giudiziale e,
 insieme, il fondamento di una prognosi di pericolosita', che solo  su
 questa   base   puo'   dirsi   legalmente  fondata".  D'altra  parte,
 "l'intervento del  giudice  (e  la  presenza  della  difesa,  la  cui
 necessita'  e'  stata  affermata  senza riserve) nel procedimento per
 l'applicazione delle misure di prevenzione  non  avrebbe  significato
 sostanziale (o ne avrebbe uno pericolosamente distorcente la funzione
 giurisdizionale  nel  campo  della  liberta'  personale) se non fosse
 preordinato   a   garantire,   nel   contraddittorio   delle   parti,
 l'accertamento di fattispecie legali predeterminate". Su questa base,
 la  Corte  ha  dichiarato  incostituzionale la norma dell'art. 1 n. 3
 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, nella parte in  cui  elencava,
 fra i soggetti passibili di misure di prevenzione "coloro che, per le
 manifestazioni  cui  abbiano  dato  luogo,  diano  fondato  motivo di
 ritenere che siano proclivi a delinquere", poiche' la formula  legale
 non  svolge  ....  la  funzione  di  una  autentica  fattispecie,  di
 individuazione, cioe', di "casi" (come vogliono  sia  l'art.  13  che
 l'art.  25, terzo comma, della Costituzione), ma offre agli operatori
 uno spazio di incontrollabile discrezionalita'". Ha  ritenuto  invece
 legittima  la  norma dell'art.  18, n. 1, della legge 22 maggio 1975,
 n. 152, che prevede la sottoposizione  a  misure  di  prevenzione  di
 "coloro  che  ..  pongono  in  essere atti preparatori obiettivamente
 rilevanti, diretti a sovvertire l'ordinamento  dello  Stato,  con  la
 commissione  di  uno  dei reati" ivi elencati tassativamente, poiche'
 "l'atto preparatorio  consiste  in  una  manifestazione  esterna"  di
 rilevabilita'  obiettiva,  per  cui  sufficientemente  determinata ne
 risulta la fattispecie di pericolosita'.
    In coerenza con le suindicate decisioni non puo' non  prospettarsi
 la  incostituzionalita'  del citato art. 25-quater del d.l. 8 giugno
 1992, n. 306, convertito in legge 7 agosto 1992, n. 356,  sotto  vari
 profili anche non specificamente dedotti dal ricorrente.
    Anzitutto  quello  inerente al principio di legalita', incorporato
 negli artt. 13, primo e secondo  comma,  e  25,  terzo  comma,  della
 Costituzione,  in  quanto la formula legale "coloro nei cui confronti
 (il procuratore nazionale antimafia) abbia motivo di ritenere che  si
 accingano   a  compiere  taluno  dei  delitti  indicati"  non  sembra
 rispondere       all'inderogabile       esigenza       costituzionale
 dell'individuazione di una fattispecie determinata, tale da escludere
 valutazioni  puramente  soggettive  e  da  poter  formare  oggetto di
 concreto accertamento giudiziario. Parrebbe infatti  che  la  formula
 "abbia  motivo  di ritenere" offra al procuratore nazionale antimafia
 "uno spazio di incontrollabile  discrezionalita'",  ancorato  ad  una
 valutazione  essenzialmente soggettiva, e cio' tanto piu' in rapporto
 all'estrema  genericita'  dell'indicazione   ("si   accinga")   della
 condotta,   apparentemente  svincolata  da  qualsiasi  manifestazione
 esteriore, cui si riferisce la valutazione anzidetta.
    Vi e' poi, non meno rilevante  e  forse  anche  piu'  marcato,  il
 profilo   della  violazione  della  garanzia  giurisdizionale,  quale
 prevista dallo stesso art. 13,  secondo  comma  ("per  atto  motivato
 dall'autorita'   giudiziaria")   e   necessariamente   integrata  dal
 riconoscimento del diritto di difesa, di  cui  all'art.  24,  secondo
 comma,  della  Costituzione.  Invero,  come si e' visto, la "garanzia
 giurisdizionale" quale requisito di legittimita' del procedimento  di
 applicazione  delle  misure  di prevenzione implica una decisione del
 giudice conseguente ad accertamento nel contraddittorio delle  parti,
 che  dia spazio anche all'esercizio della difesa. Per contro, secondo
 la norma in esame: 1) il potere di disporre il soggiorno cautelare e'
 attribuito   al   procuratore   generale   antimafia,   organo    non
 giurisdizionale,  in  assenza  di qualsiasi formalita' o prescrizione
 procedurale; 2) l'intervento del giudice e' previsto solo in sede  di
 riesame  su  ricorso, percio' in via meramente eventuale, comunque in
 una fase successiva  all'adozione  del  provvedimento,  e  oltretutto
 senza  che  il  ricorso abbia effetti sospensivi; 3) la decisione del
 g.i.p., in sede di  riesame  segue  la  procedura  c.d.  "de  plano",
 sentito il procuratore nazionale antimafia e in base agli elementi da
 esso  forniti,  percio' senza contraddittorio e senza possibilita' di
 esplicazione del diritto di difesa.
    Vi e' infine un terzo profilo per cui sembra  potersi  configurare
 una  illegittimita' della norma considerata, ed e' quello che attiene
 al principio  di  inderogabilita'  del  giudice  naturale,  affermato
 dall'art.  25, primo comma, della Costituzione, in quanto il giudizio
 di riesame e' affidato in esclusiva al g.i.p. del tribunale  di  Roma
 ("tribunale del luogo ove ha sede il procuratore generale antimafia")
 per  tutto  il  territorio nazionale: cio' che, anche per la brevita'
 dei  termini  concessi,  puo'  rappresentare   un'ulteriore   e   non
 secondaria  limitazione,  sul  piano  pratico,  del diritto di difesa
 degli  interessati.  Incidentalmente  si  rileva  che,  per   effetto
 dell'art.  1, terzo comma, della legge 24 luglio 1993, n. 256, che ha
 abrogato il sesto comma dell'art. 25-quater  citato,  l'istituto  del
 soggiorno cautelare, introdotto come eccezionale misura di lotta alla
 mafia  per un periodo di tempo limitato (tre anni), entra a far parte
 in modo ormai permanente del nostro ordinamento giuridico.