IL PRETORE
    Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa n. 1274/93 r.g.l.
 promossa da Baistrocchi Emma, con
 l'avv.  M.  Ziveri,  contro  l'Istituto  Nazionale  della  Previdenza
 sociale (I.N.P.S.), con l'avv. D. Liveri;
    Osservando quanto segue in:
                               F A T T O
    Con  ricorso  del  31  agosto  1993 diretto al pretore di Parma in
 funzione di giudice del lavoro, la signora Baistrocchi Emma conveniva
 in giudizio l'I.N.P.S. per sentire accogliere le conclusioni  di  cui
 in epigrafe, all'uopo deducendo:
      che  essendo  titolare,  con  decorrenza  dal  gennaio  1968, di
 pensione cat. VO/Art. n. 1036719 e di altro trattamento  I.N.P.S.  n.
 3036870,  cat. SO/art., con decorrenza dall'agosto 1968, quest'ultimo
 non integrato al  trattamento  minimo,  aveva  presentato  alla  sede
 I.N.P.S.  di  Parma  piu'  domande  di  adeguamento  al  minimo della
 prestazione indiretta e conseguente riliquidazione della pensione SO,
 come da numerose pronunce della Corte costituzionale che tale diritto
 hanno riconosciuto; nella specie in  forza  della  sentenza  3  marzo
 1989, n. 81;
      che  l'I.N.P.S.  aveva  respinto  le  domande stesse e da ultimo
 quella in data 14 gennaio 1991 sul presupposto  che  essa  era  stata
 avanzata  oltre  il decennio dalla liquidazione originaria, essendosi
 gia' verificata la  decadenza  di  cui  all'art.  47  del  d.P.R.  n.
 639/1970;
      che erano stati presentati i ricorsi in sede amministrativa; che
 essa  ricorrente  ritiene di aver diritto alla integrazione al minimo
 della   propria   pensione   SO/Art.   sia    pure    nella    misura
 "cristallizzata",   come  riconosciuto  da  numerose  sentenze  della
 Cassazione e della Corte costituzionale, in applicazione dell'art. 6,
 settimo comma, della legge n. 628/1983.
    Dopo la notifica del ricorso  e  del  decreto,  l'I.N.P.S.  si  e'
 costituito  in  giudizio  a mezzo di memoria difensiva, eccependo, in
 via preliminare, la decadenza decennale di cui all'art. 6 della legge
 n. 166/1991 di conversione del d.l. n. 103/1991 e all'art.  4  della
 legge n. 438/1992 di conversione del d.l. n. 384/1992.
    Nel  merito  l'Istituto  ha  eccepito la infondatezza della doppia
 integrazione al minimo sia pure nella misura "cristallizzata" di  uno
 dei due trattamenti.
    All'udienza  di  discussione  del  16 febbraio 1994, il pretore ha
 pronunciato sentenza  non  definitiva  con  la  quale  ha  dichiarato
 infondata  l'eccezione  di  decadenza  prospettata  dall'I.N.P.S., in
 ordine all'esercizio dell'azione giudiziaria attinente  alla  domanda
 di  integrazione  al minimo della pensione SO/Art. e per il merito ha
 sollevato questione  di  legittimita'  costituzionale  del  combinato
 disposto   dell'art.   6,  settimo  comma,  del  d.l.  n.  463/1983,
 convertito dalla legge  n.  638/1983  e  dell'art.  11,  ventiduesimo
 comma,  della legge n. 537/1993, sopravvenuta nelle more del presente
 giudizio, come dalla presente separata ordinanza di  remissione  alla
 Corte costituzionale.
                       CONSIDERAZIONI IN DIRITTO
    1.  -  Questo  giudice,  a riguardo della eccezione preliminare di
 decadenza sollevata dall'I.N.P.S., con la sentenza non definitiva  in
 pari data, ha dichiarato infondata l'eccezione medesima di decadenza,
 sia  decennale  che  triennale,  in  ordine all'esercizio dell'azione
 giudiziaria attinente alla domanda di integrazione  al  minimo  della
 pensione SO/Art. di cui e' titolare la ricorrente.
    Nella  citata sentenza non definitiva si e' ritenuto, infatti, che
 "e' dal momento di definizione della fase amministrativa aperta dalla
 domanda nuova dell'assicurato per integrazione al trattamento  minimo
 della  sua  pensione,  avente  titolo  giuridico  abilitativo  in una
 sentenza della Corte costituzionale che  rimuove  la  norma  ostativa
 alla  integrazione  stessa,  che  prende  corpo  e  quindi comincia a
 decorrere il termine  decennale  di  decadenza  sostanziale,  di  cui
 all'art.  47,  secondo  comma, del d.P.R. n. 639/1970, come integrato
 dall'art. 6, primo comma, del d.l.  n.  103/1991,  convertito  nella
 legge   n.   166/1991   ai   fini   della   proposizione  dell'azione
 giudiziaria".
    2. - Questo stesso giudice, quanto alla distinzione dell'efficacia
 temporale fra vecchio e nuovo  termine,  decennale  e  triennale,  di
 decadenza  rispettivamente  previsti dall'art. 47, secondo comma, del
 d.P.R. n. 639/1970,  come  sostituito  dall'art.  6  della  legge  n.
 166/1991,  di  conversione del d.l. n. 103/1991 e dall'art. 4, primo
 comma, della legge n. 438/1992, di conversione del d.l. n. 384/1992,
 con la stessa sentenza non definitiva in pari data,  si  e'  adeguato
 alla  interpretazione recata dalla sentenza n. 20 del 3 febbraio 1994
 della Corte costituzionale secondo la quale  il  regime  applicabile,
 fra  vecchio e nuovo termine di decadenza, e' determinato dalla legge
 in vigore nel momento in cui comincia a decorrere il termine  stesso.
 Talche'  nel  caso  in  cui  il  procedimento amministrativo sia gia'
 esaurito, come nella specie, alla data di entrata in vigore del d.l.
 n. 384/1992 (19 settembre 1992) e quindi il dies a quo del termine di
 decadenza per l'esercizio dell'azione giudiziaria cominci a decorrere
 da data anteriore a quella sopra citata  di  entrata  in  vigore  del
 d.l.,  si applichera' il vecchio termine decadenziale di dieci anni,
 posto che anteriormente a tale data si sono verificati i  presupposti
 di  decorrenza  del  termine  previsto  dalla legge precedente per la
 proposizione della domanda giudiziale.
    Nelle specie il dies a quo di tale termine si colloca, come deciso
 nella  sentenza  non  definitiva,  alla  data  dell'11  maggio  1991,
 anteriore  a  quella  di  entrata in vigore del d.l. n. 384/1992 (19
 settembre 1992),  con  la  conseguenza  che  risulta  applicabile  il
 vecchio  termine  decennale  di  decadenza,  non scaduto alla data di
 presentazione del ricorso in sede giurisdizionale (31 agosto 1993).
    Pertanto, e'  stato  deciso  (v.  sentenza  non  definitiva  nella
 presente causa) che non si e' verificato alcun tipo di decadenza.
    3.  -  In relazione alle considerazioni sopra svolte e soprattutto
 in relazione alle statuizioni contenute nella sentenza non definitiva
 in pari data, pronunciata fra le stesse parti, emerge che le une e le
 altre si sono rese necessarie per poter ritenere  ammissibile,  nella
 presente  controversia, l'esame del merito, posto che lo scrutinio di
 costituzionalita' della normativa de  qua  attiene  al  merito  della
 domanda   attrice,   rispetto  al  quale  soltanto  la  questione  di
 legittimita' assume giuridica rilevanza.  E' evidente,  infatti,  che
 se  fosse fondata l'eccezione di decadenza della domanda medesima non
 avrebbe  piu'  alcuna  "rilevanza"  la  questione   di   legittimita'
 costituzionale  dell'art.  11,  ventiduesimo  comma,  della  legge 24
 dicembre 1993, n. 537, con riguardo al merito della  domanda  stessa.
 La  rilevanza,  invero,  della  questione di legittimita' e' rimessa,
 come e' noto, alla motivata valutazione del giudice  a  quo  espressa
 nell'ordinanza  di  rimessione (v. in tal senso: Corte costituzionale
 n. 297 e 246 del 1988, 228 e 165 del 1985 e 293/1984) e  si  risolve,
 appunto,  nell'influenza,  ai  fini  della definizione del giudizio a
 quo, delle disposizioni o delle norme che risultino  investite  della
 questione  medesima  (Cass. n. 4389/87 e n. 5694/86).  D'altra parte,
 e' stato anche ritenuto che ai fini della rilevanza  della  questione
 di  legittimita' costituzionale e' sufficiente che la norma impugnata
 sia direttamente o indirettamente applicabile  nel  giudizio  a  quo;
 mentre  e'  ininfluente  il  possibile  esito finale di tale giudizio
 (Cfr. Corte costituzionale 12 novembre 1991, n. 409).
    Nella specie, la  ricorrente  ha  chiesto  il  riconoscimento  del
 diritto  alla  doppia  integrazione  al minimo, sia pure nella misura
 cristallizzata, a norma dell'art. 8, settimo comma,  della  legge  n.
 638/1988,  talche' cio' appare sufficiente per affermare la rilevanza
 della questione  di  legittimita'  della  norma  censurata,  dopo  la
 decisione  di  rigetto della eccezione di decadenza pronunciata nella
 presente causa.
    4. - Quest'ultima  norma  e'  recata  dall'art.  11,  ventiduesimo
 comma,  della legge (finanziaria) 24 dicembre 1993, n. 537, che cosi'
 recita: "L'art. 6, quinto,  sesto  e  settimo  comma,  del  d.l.  12
 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, dalla legge 11
 novembre  1988,  n.  638,  si  interpreta  nel  senso che nel caso di
 concorso di due o piu'  pensioni  integrate  al  trattamento  minimo,
 liquidate con decorrenza anteriore alla data di entrata in vigore del
 predetto  decreto-legge,  il  trattamento  minimo  spetta su una sola
 delle pensioni, come individuata secondo i criteri previsti al  terzo
 comma  dello  stesso  articolo,  mentre  l'altra  o le altre pensioni
 spettano nell'importo a calcolo senza alcuna integrazione". Si tratta
 di norma sostanzialmente  identica  a  quella  recata  dai  d.l.  n.
 14/1992 e n. 232/1992 non convertiti.
    Il  significato  palese  di siffatta "interpretazione" pare essere
 nel senso che nel caso di  piu'  pensioni  integrate  al  trattamento
 minimo,  la  "conservazione"  di  tale integrazione va operata su una
 sola pensione (come individuata in base al terzo  comma  dell'art.  6
 cit.);  mentre  le altre pensioni concorrenti vanno corrisposte nella
 misura  - anche inferiore ai minimi pensionistici - c.d. "a calcolo",
 determinata   cioe'   sulla   base   della   posizione   contributiva
 dell'assicurato.
    Ne   risulta   cosi'   una   evidente  riduzione  del  trattamento
 pensionistico complessivo rispetto a  quello  vigente  alla  data  di
 entrata in vigore del d.l. n. 463/1983.
    5.  -  Cio'  posto,  ritiene  il  giudicante  che  e' ammissibile,
 rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita'
 costituzionale,  in  riferimento  agli  artt.  38,  3  e  101   della
 Costituzione,  del  combinato  disposto della norma interpretata e di
 quella di interpretazione autentica.   In  relazione  alla  sollevata
 questione  mette  conto rilevare, in via di principio, esser vero che
 la  legge  di   interpretazione   autentica   e'   costituzionalmente
 ammissibile,  poiche'  il  legislatore puo', nell'esercizio della sua
 discrezionalita',  imporre  un   certo   significato,   con   effetto
 retroattivo,  a una qualsiasi norma esistente nell'ordinamento, senza
 che con cio' debba  necessariamente  interferire  nella  sfera  della
 giurisdizione  (cfr.  Corte costituzionale n. 283/1989, n. 754/1988 e
 n. 123/1988).   E' anche vero, pero', che  non  puo'  essere  escluso
 qualsiasi  sindacato  di  costituzionalita' sul contenuto sostanziale
 della legge di interpretazione  autentica,  le  quante  volte  questa
 risulti  in contrasto con precetti costituzionali.  La verifica deve,
 quindi,  avere  per  oggetto  il  tema  della  compatibilita'   della
 disposizione  interpretativa  con  norme, principi e valori di ordine
 costituzionale.
    6. - E' noto che  in  tema  di  integrazione  al  minimo  numerose
 sentenze  della  Corte  costituzionale hanno costantemente perseguito
 l'intento di eliminare ogni preclusione dell'integrazione  al  minimo
 per  i  titolari  di  piu'  pensioni,  ove,  per  effetto del cumulo,
 venissse superato il trattamento  minimo  garantito,  cosi'  rendendo
 possibile  la  titolarita'  di  piu' integrazioni fino all'entrata in
 vigore del d.l. n. 463/1983, che poi  ha  disciplinato  ex  novo  la
 materia, a decorrere dal 1 ottobre 1983.
    L'art.  6, terzo comma, del d.l. cit. dispone che nel concorso di
 due o piu' pensioni l'integrazione al minimo spetta una  sola  volta;
 mentre   il  settimo  comma  dello  stesso  articolo  stabilisce  che
 l'importo   erogato   alla   data   di   cessazione    del    diritto
 all'integrazione  "viene  conservato"  fino  al  suo  superamento per
 effetto delle disposizioni sulla perequazione automatica.
    Tali disposizioni, con giurisprudenza costante e consolidata, sono
 state sempre interpretate nel senso  che  in  ipotesi  di  cumulo  di
 pensioni  sussiste  il diritto dell'assicurato ad un solo trattamento
 di integrazione al minimo, se non  vi  ostino  i  limiti  di  reddito
 previsti  nel  primo  comma;  ma  consentono  la  "Conservazione" del
 trattamento economico  corrispondente  alla  doppia  integrazione  al
 minimo  nella  misura  ("cristallizzata") corrisposta al 30 settembre
 1983, salvo riassorbimento per effetto di perequazione  (cfr.:  Cass.
 n.  5720/1989;  n. 3749/1990; Cass. n. 7315/1990; Cass. n. 1335/1992;
 Cass. n. 10833/1991; e da ultimo: Cass. n. 8630 dell'11 agosto 1993).
    In definitiva,  con  l'art.  6,  settimo  comma,  della  legge  n.
 638/1983   si   e'   dato   spazio   al   generale   principio  della
 "Cristallizzazione" dell'importo erogato alla data  della  cessazione
 del  diritto all'integrazione; sicche' dal 1 ottobre 1983 il titolare
 di due pensioni integrate al minimo conserva su un  solo  trattamento
 il  diritto  all'integrazione;  ma per l'altro la misura della stessa
 resta ferma all'importo percepito alla data del 30 settembre 1983 per
 essere poi assorbita gradualmente in virtu' degli aumenti per effetto
 della perequazione automatica.
    Tale interpretazione e' avallata  con  giurisprudenza  altrettanto
 costante  della  Corte  costituzionale  (sentenze  nn.  184 e 503 del
 1988); e, soprattutto, con la sentenza n. 418 del 19  novembre  1991,
 la  quale  ha  dichiarato  infondata  la  questione  di  legittimita'
 costituzionale dell'art. 6, settimo comma, della  legge  n.  638/1983
 negli  esatti  termini  di  cui  sopra.  (Conforme,  da ultimo: Corte
 costituzionale   3   febbraio   1994,   n.    15,    in    tema    di
 "cristallizzazione").
    7.  - La Corte costituzionale ha escluso il potere del legislatore
 di modificare l'ordinamento delle pensioni in modo  discrezionale  e,
 in particolare, di intervenire con una modifica normativa in una fase
 avanzata  del  rapporto  di  lavoro  o  nella  fase di quiescenza per
 peggiorare in misura notevole e in  modo  definitivo  il  trattamento
 pensionistico  gia' acquisito in base alla precedente normativa (cfr.
 Corte costituzionale n. 822/1988).
    Con la norma ora censurata, invero, viene disattesa e  contrastata
 la  interpretazione  "adeguatrice"  sin qui proposta dalla conforme e
 costante  giurisprudenza  della   Corte   suprema   e   della   Corte
 costituzionale.    Rispetto  alla norma qui impugnata, i parametri di
 costituzionalita'  (artt.  3  e  38   della   Costituzione)   possono
 desumersi,  infatti,  dalla  stessa  pronuncia di rigetto della Corte
 costituzionale (sentenza n. 418/1991 cit.) che ha negato il contrasto
 con quei precetti costituzionali  dell'art.  6,  settimo  comma,  del
 d.l.  n.  463/1983,  solo se questo venga interpretato nel senso che
 ora risulta disatteso dalla norma di interpretazione autentica di cui
 all'art. 11, ventiduesimo comma, della legge n.  537/1993.    D'altra
 parte,  la  incompatibilita'  con  gli stessi precetti costituzionali
 (artt. 3 e 38 della  Costituzione)  della  norma  anzidetta  discende
 dalla  stessa  natura dell'istituto del minimo pensionistico, che non
 ha natura assistenziale, ma essenzialmente previdenziale.  (V.  Corte
 costituzionale  n. 31/1986).  E corentemente con tale natura (art. 38
 della Costituzione), oltre che con il principio di uguaglianza  (art.
 3   della   Costituzione)  sono  le  numerose  pronunce  della  Corte
 costituzionale che hanno nel tempo dichiarato  illegittime  le  norme
 che  recavano  il  divieto  di  cumulo  della  integrazione al minimo
 nell'ipotesi  del  concorso  di  due  o  piu'  pensioni   (V.   Corte
 costituzionale  nn. 230/1974), 263/1976, 34/1981, 102/1982, 314/1985,
 114/1992, ecc. e, da ultimo, n. 15/1994).
    Ne discende allora che il  "diritto  alla  previdenza"  (art.  38,
 secondo  comma,  della  Costituzione) risulta violato dalla negazione
 della "cristallizzazione" delle  integrazioni  al  minimo  "cumulate"
 alla data del 30 settembre 1983, posto che il relativo importo - alla
 luce   del   regime   allora   vigente   -  rappresentava  il  minimo
 indispensabile per garantire ai lavoratori "mezzi adeguati alle  loro
 esigenze di vita".
    Ma  appare  vulnerato  anche  il  principio  di  "ragionevolezza",
 perche' la negazione della  "cristallizzazione"  degli  importi  gia'
 maturati  del  trattamento  minimo  e  quindi  gia' acquisiti, con la
 riduzione  conseguente  del  trattamento  pensionistico  complessivo,
 determinato  "a  calcolo",  al  di  sotto  del livello che nel regime
 vigente  nel  periodo  di  sua  maturazione era stato ritenuto appena
 sufficiente alle esigenze  di  vita,  non  puo'  non  comportare  che
 violazione  dei  principi  costituzionali (v. Corte costituzionale n.
 169/1986).
    8. - La disposizione interpretativa in esame si pone in  contrasto
 anche con l'art. 101 della Costituzione.
    Infatti,     tenuto    conto    dell'interpretazione    in    sede
 giurisprudenziale  da  lungo  tempo  adottata  senza  contrasti   con
 riferimento  all'art.  6  della  legge  n.  638/1983, nel senso sopra
 indicato,  tanto  da  divenire  (quella   interpretazione)   "diritto
 vivente", non si puo' non affermare che il legislatore attribuendo ad
 una  norma  (art.  11,  ventiduesimo  comma, della legge n. 527/1993)
 sostanzialmente innovativa  una  falsa  veste  interpretativa,  senza
 alcuna   giustificazione   logico-giuridica,   se   non  di  economia
 finanziaria, ha finito con  l'invadere  un'area  operativa  riservata
 alla  giurisdizione a qualsiasi livello, che gia' una interpretazione
 senza incertezze aveva dato alla norma interpretata anche  a  livello
 costituzionale (cfr. Corte costituzionale n. 283/1989).
    Invero, non pare rispondente a giustizia che a mezzo di norma solo
 formalmente  interpretativa,  ci  si debba opporre alle istanze degli
 assicurati e alla interpretazione giurisprudenziale loro  favorevole.
 (V.  sentenza Corte costituzionale n. 123 del 10 aprile 1987).  A tal
 riguardo, autorevole dottrina ha  affermato  .."puo'  darsi  che  non
 ricorra  il  presupposto  consistente  nella  incertezza  della legge
 antecedente e che sotto specie di  'interpretazione'  si  introducano
 norme  in  realta'  innovative  affinche'  l'innovazione  riesca meno
 appariscente o che per mezzo  della  retroattivita'  si  eserciti  da
 altri  organi statali una indebita ingerenza nella decisione di cause
 prendenti o future cosi' da minacciare  l'indipendenza  degli  organi
 giurisdizionali".    E  nella  specie  alla  norma censurata non puo'
 essere riconosciuto carattere di interpretazione autentica; carattere
 che, invece, va attribuito soltanto ad una legge che fermo il  tenore
 testuale  della  norma  interpretata,  ne  chiarisce  il  significato
 normativo ovvero ne  privilegia  una  fra  le  tante  interpretazioni
 possibili (cfr. Corte costituzionale nn. 155/1990, 233/1988, 123/1987
 e  454/1992).    Cosi' non e' nel caso in esame, posto che l'art. 11,
 ventiduesimo  comma,  della  legge   n.   537/1993   attribuisce   un
 significato  normativo  nuovo  e  diverso  alla  norma  interpretata;
 sicche' il legislatore facendo  mal  governo  della  sua  prerogativa
 d'interprete   d'autorita'   del   diritto,   ha   interferito  nella
 giurisdizione.
    Invero, nello stato di diritto,  il  giudice  e'  "soggetto"  alla
 legge  (art.  101  della Costituzione) e anzi "soltanto alla legge" e
 non anche al legislatore. E cio' comporta che potendo la legge essere
 anche retroattiva (salvi i limiti costituzionali), il legislatore che
 dispone retroattivamente, si impone per cio' stesso anche in tal caso
 al giudice che la legge deve applicare indefettibilmente.
    Torna allora opportuno rammentare quanto rilevato da codesta Corte
 nella sentenza n. 123/1987: "il giudice,  per  costituzione  soggetto
 alla  legge, per cio' stesso, ma solo in questo senso, in auctoritate
 legislatoris,  e'  tenuto  ad  interpretare   il   ius   superveniens
 applicandolo  al  caso  singolo  sottoposto  alla sua cognizione, per
 deciderne in merito".
    Ma,  proprio  perche'  il vincolo del giudice (l'unico vincolo) e'
 quello dell'applicazione della legge cui e' soggetto  al  fine  della
 decisione  delle  controversie, ne discendono dei limiti insuperabili
 per il legislatore anche ove esso  legiferi  retroattivamente  e  con
 norma  di  interpretazione autentica.  Uno di questi limiti e' quello
 che   essa   "soddisfi   l'esigenza   sociale   della   certezza    e
 dell'eguaglianza  di  trattamento giuridico, sempre che ne ricorra il
 presupposto   nell'incertezza   e   conseguente    possibilita'    di
 interpretazioni  divergenti".  Infatti,  allora, non si puo' dire che
 essa violi, col  suo  sopravvenire,  aspettative  certe  o  interessi
 sicuramente  protetti, giacche' le aspettative che trovano fondamento
 in interpretazioni dubbie non acquistano mai  certezza:  la  certezza
 che  caratterizza  i  c.d.  "diritti acquisiti".   Tali concetti sono
 anche propri  della  Corte  costituzionale,  quando  afferma  che  il
 legislatore  allorche'  definisce  interpretativa una disciplina che,
 invece, ha natura innovativa, oltrepassa i limiti di  ragionevolezza.
 Talche',  come  espressamente  afferma  la stessa Corte, questa e' in
 ogni caso chiamata a verificare se, di fronte  a  una  legge  che  si
 autoqualifica  interpretativa,  "la  qualificazione e la formulazione
 siano realmente rispondenti  al  contenuto  dispositivo  della  legge
 medesima".
    Si   afferma,   cosi',   che   il   discrimine   tra  disposizioni
 interpretative e innovative si ricollega al fenomeno  abrogativo;  la
 vera  interpretazione  autentica non e' idonea, come tale, a produrre
 alcun effetto di questo genere, facendo rimanere in vigore  le  norme
 alle  quali si ricollega (cfr. in tal senso: Corte costituzionale nn.
 283/1989, 233/1988 e 155/1990).
    9.  -  Pertanto,  cosi'  ritenuta  ammissibile,  rilevante  e  non
 manifestamente  infondata  la  prospettata  questione di legittimita'
 costituzionale, va ordinata la immediata trasmissione degli atti alla
 Corte costituzionale e sospeso  il  presente  giudizio.  Va,  quindi,
 disposto  che,  a  cura  della cancelleria, la presente ordinanza sia
 notificata alle parti in causa, nonche' al Presidente  del  Consiglio
 dei Ministri e sia comunicata al Presidente della Camera dei deputati
 e  del  Senato della Repubblica, ai sensi dell'art. 23 della legge 11
 marzo 1953, n. 87