IL PRETORE Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa n. 1274/93 r.g.l. promossa da Baistrocchi Emma, con l'avv. M. Ziveri, contro l'Istituto Nazionale della Previdenza sociale (I.N.P.S.), con l'avv. D. Liveri; Osservando quanto segue in: F A T T O Con ricorso del 31 agosto 1993 diretto al pretore di Parma in funzione di giudice del lavoro, la signora Baistrocchi Emma conveniva in giudizio l'I.N.P.S. per sentire accogliere le conclusioni di cui in epigrafe, all'uopo deducendo: che essendo titolare, con decorrenza dal gennaio 1968, di pensione cat. VO/Art. n. 1036719 e di altro trattamento I.N.P.S. n. 3036870, cat. SO/art., con decorrenza dall'agosto 1968, quest'ultimo non integrato al trattamento minimo, aveva presentato alla sede I.N.P.S. di Parma piu' domande di adeguamento al minimo della prestazione indiretta e conseguente riliquidazione della pensione SO, come da numerose pronunce della Corte costituzionale che tale diritto hanno riconosciuto; nella specie in forza della sentenza 3 marzo 1989, n. 81; che l'I.N.P.S. aveva respinto le domande stesse e da ultimo quella in data 14 gennaio 1991 sul presupposto che essa era stata avanzata oltre il decennio dalla liquidazione originaria, essendosi gia' verificata la decadenza di cui all'art. 47 del d.P.R. n. 639/1970; che erano stati presentati i ricorsi in sede amministrativa; che essa ricorrente ritiene di aver diritto alla integrazione al minimo della propria pensione SO/Art. sia pure nella misura "cristallizzata", come riconosciuto da numerose sentenze della Cassazione e della Corte costituzionale, in applicazione dell'art. 6, settimo comma, della legge n. 628/1983. Dopo la notifica del ricorso e del decreto, l'I.N.P.S. si e' costituito in giudizio a mezzo di memoria difensiva, eccependo, in via preliminare, la decadenza decennale di cui all'art. 6 della legge n. 166/1991 di conversione del d.l. n. 103/1991 e all'art. 4 della legge n. 438/1992 di conversione del d.l. n. 384/1992. Nel merito l'Istituto ha eccepito la infondatezza della doppia integrazione al minimo sia pure nella misura "cristallizzata" di uno dei due trattamenti. All'udienza di discussione del 16 febbraio 1994, il pretore ha pronunciato sentenza non definitiva con la quale ha dichiarato infondata l'eccezione di decadenza prospettata dall'I.N.P.S., in ordine all'esercizio dell'azione giudiziaria attinente alla domanda di integrazione al minimo della pensione SO/Art. e per il merito ha sollevato questione di legittimita' costituzionale del combinato disposto dell'art. 6, settimo comma, del d.l. n. 463/1983, convertito dalla legge n. 638/1983 e dell'art. 11, ventiduesimo comma, della legge n. 537/1993, sopravvenuta nelle more del presente giudizio, come dalla presente separata ordinanza di remissione alla Corte costituzionale. CONSIDERAZIONI IN DIRITTO 1. - Questo giudice, a riguardo della eccezione preliminare di decadenza sollevata dall'I.N.P.S., con la sentenza non definitiva in pari data, ha dichiarato infondata l'eccezione medesima di decadenza, sia decennale che triennale, in ordine all'esercizio dell'azione giudiziaria attinente alla domanda di integrazione al minimo della pensione SO/Art. di cui e' titolare la ricorrente. Nella citata sentenza non definitiva si e' ritenuto, infatti, che "e' dal momento di definizione della fase amministrativa aperta dalla domanda nuova dell'assicurato per integrazione al trattamento minimo della sua pensione, avente titolo giuridico abilitativo in una sentenza della Corte costituzionale che rimuove la norma ostativa alla integrazione stessa, che prende corpo e quindi comincia a decorrere il termine decennale di decadenza sostanziale, di cui all'art. 47, secondo comma, del d.P.R. n. 639/1970, come integrato dall'art. 6, primo comma, del d.l. n. 103/1991, convertito nella legge n. 166/1991 ai fini della proposizione dell'azione giudiziaria". 2. - Questo stesso giudice, quanto alla distinzione dell'efficacia temporale fra vecchio e nuovo termine, decennale e triennale, di decadenza rispettivamente previsti dall'art. 47, secondo comma, del d.P.R. n. 639/1970, come sostituito dall'art. 6 della legge n. 166/1991, di conversione del d.l. n. 103/1991 e dall'art. 4, primo comma, della legge n. 438/1992, di conversione del d.l. n. 384/1992, con la stessa sentenza non definitiva in pari data, si e' adeguato alla interpretazione recata dalla sentenza n. 20 del 3 febbraio 1994 della Corte costituzionale secondo la quale il regime applicabile, fra vecchio e nuovo termine di decadenza, e' determinato dalla legge in vigore nel momento in cui comincia a decorrere il termine stesso. Talche' nel caso in cui il procedimento amministrativo sia gia' esaurito, come nella specie, alla data di entrata in vigore del d.l. n. 384/1992 (19 settembre 1992) e quindi il dies a quo del termine di decadenza per l'esercizio dell'azione giudiziaria cominci a decorrere da data anteriore a quella sopra citata di entrata in vigore del d.l., si applichera' il vecchio termine decadenziale di dieci anni, posto che anteriormente a tale data si sono verificati i presupposti di decorrenza del termine previsto dalla legge precedente per la proposizione della domanda giudiziale. Nelle specie il dies a quo di tale termine si colloca, come deciso nella sentenza non definitiva, alla data dell'11 maggio 1991, anteriore a quella di entrata in vigore del d.l. n. 384/1992 (19 settembre 1992), con la conseguenza che risulta applicabile il vecchio termine decennale di decadenza, non scaduto alla data di presentazione del ricorso in sede giurisdizionale (31 agosto 1993). Pertanto, e' stato deciso (v. sentenza non definitiva nella presente causa) che non si e' verificato alcun tipo di decadenza. 3. - In relazione alle considerazioni sopra svolte e soprattutto in relazione alle statuizioni contenute nella sentenza non definitiva in pari data, pronunciata fra le stesse parti, emerge che le une e le altre si sono rese necessarie per poter ritenere ammissibile, nella presente controversia, l'esame del merito, posto che lo scrutinio di costituzionalita' della normativa de qua attiene al merito della domanda attrice, rispetto al quale soltanto la questione di legittimita' assume giuridica rilevanza. E' evidente, infatti, che se fosse fondata l'eccezione di decadenza della domanda medesima non avrebbe piu' alcuna "rilevanza" la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 11, ventiduesimo comma, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, con riguardo al merito della domanda stessa. La rilevanza, invero, della questione di legittimita' e' rimessa, come e' noto, alla motivata valutazione del giudice a quo espressa nell'ordinanza di rimessione (v. in tal senso: Corte costituzionale n. 297 e 246 del 1988, 228 e 165 del 1985 e 293/1984) e si risolve, appunto, nell'influenza, ai fini della definizione del giudizio a quo, delle disposizioni o delle norme che risultino investite della questione medesima (Cass. n. 4389/87 e n. 5694/86). D'altra parte, e' stato anche ritenuto che ai fini della rilevanza della questione di legittimita' costituzionale e' sufficiente che la norma impugnata sia direttamente o indirettamente applicabile nel giudizio a quo; mentre e' ininfluente il possibile esito finale di tale giudizio (Cfr. Corte costituzionale 12 novembre 1991, n. 409). Nella specie, la ricorrente ha chiesto il riconoscimento del diritto alla doppia integrazione al minimo, sia pure nella misura cristallizzata, a norma dell'art. 8, settimo comma, della legge n. 638/1988, talche' cio' appare sufficiente per affermare la rilevanza della questione di legittimita' della norma censurata, dopo la decisione di rigetto della eccezione di decadenza pronunciata nella presente causa. 4. - Quest'ultima norma e' recata dall'art. 11, ventiduesimo comma, della legge (finanziaria) 24 dicembre 1993, n. 537, che cosi' recita: "L'art. 6, quinto, sesto e settimo comma, del d.l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 1988, n. 638, si interpreta nel senso che nel caso di concorso di due o piu' pensioni integrate al trattamento minimo, liquidate con decorrenza anteriore alla data di entrata in vigore del predetto decreto-legge, il trattamento minimo spetta su una sola delle pensioni, come individuata secondo i criteri previsti al terzo comma dello stesso articolo, mentre l'altra o le altre pensioni spettano nell'importo a calcolo senza alcuna integrazione". Si tratta di norma sostanzialmente identica a quella recata dai d.l. n. 14/1992 e n. 232/1992 non convertiti. Il significato palese di siffatta "interpretazione" pare essere nel senso che nel caso di piu' pensioni integrate al trattamento minimo, la "conservazione" di tale integrazione va operata su una sola pensione (come individuata in base al terzo comma dell'art. 6 cit.); mentre le altre pensioni concorrenti vanno corrisposte nella misura - anche inferiore ai minimi pensionistici - c.d. "a calcolo", determinata cioe' sulla base della posizione contributiva dell'assicurato. Ne risulta cosi' una evidente riduzione del trattamento pensionistico complessivo rispetto a quello vigente alla data di entrata in vigore del d.l. n. 463/1983. 5. - Cio' posto, ritiene il giudicante che e' ammissibile, rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale, in riferimento agli artt. 38, 3 e 101 della Costituzione, del combinato disposto della norma interpretata e di quella di interpretazione autentica. In relazione alla sollevata questione mette conto rilevare, in via di principio, esser vero che la legge di interpretazione autentica e' costituzionalmente ammissibile, poiche' il legislatore puo', nell'esercizio della sua discrezionalita', imporre un certo significato, con effetto retroattivo, a una qualsiasi norma esistente nell'ordinamento, senza che con cio' debba necessariamente interferire nella sfera della giurisdizione (cfr. Corte costituzionale n. 283/1989, n. 754/1988 e n. 123/1988). E' anche vero, pero', che non puo' essere escluso qualsiasi sindacato di costituzionalita' sul contenuto sostanziale della legge di interpretazione autentica, le quante volte questa risulti in contrasto con precetti costituzionali. La verifica deve, quindi, avere per oggetto il tema della compatibilita' della disposizione interpretativa con norme, principi e valori di ordine costituzionale. 6. - E' noto che in tema di integrazione al minimo numerose sentenze della Corte costituzionale hanno costantemente perseguito l'intento di eliminare ogni preclusione dell'integrazione al minimo per i titolari di piu' pensioni, ove, per effetto del cumulo, venissse superato il trattamento minimo garantito, cosi' rendendo possibile la titolarita' di piu' integrazioni fino all'entrata in vigore del d.l. n. 463/1983, che poi ha disciplinato ex novo la materia, a decorrere dal 1 ottobre 1983. L'art. 6, terzo comma, del d.l. cit. dispone che nel concorso di due o piu' pensioni l'integrazione al minimo spetta una sola volta; mentre il settimo comma dello stesso articolo stabilisce che l'importo erogato alla data di cessazione del diritto all'integrazione "viene conservato" fino al suo superamento per effetto delle disposizioni sulla perequazione automatica. Tali disposizioni, con giurisprudenza costante e consolidata, sono state sempre interpretate nel senso che in ipotesi di cumulo di pensioni sussiste il diritto dell'assicurato ad un solo trattamento di integrazione al minimo, se non vi ostino i limiti di reddito previsti nel primo comma; ma consentono la "Conservazione" del trattamento economico corrispondente alla doppia integrazione al minimo nella misura ("cristallizzata") corrisposta al 30 settembre 1983, salvo riassorbimento per effetto di perequazione (cfr.: Cass. n. 5720/1989; n. 3749/1990; Cass. n. 7315/1990; Cass. n. 1335/1992; Cass. n. 10833/1991; e da ultimo: Cass. n. 8630 dell'11 agosto 1993). In definitiva, con l'art. 6, settimo comma, della legge n. 638/1983 si e' dato spazio al generale principio della "Cristallizzazione" dell'importo erogato alla data della cessazione del diritto all'integrazione; sicche' dal 1 ottobre 1983 il titolare di due pensioni integrate al minimo conserva su un solo trattamento il diritto all'integrazione; ma per l'altro la misura della stessa resta ferma all'importo percepito alla data del 30 settembre 1983 per essere poi assorbita gradualmente in virtu' degli aumenti per effetto della perequazione automatica. Tale interpretazione e' avallata con giurisprudenza altrettanto costante della Corte costituzionale (sentenze nn. 184 e 503 del 1988); e, soprattutto, con la sentenza n. 418 del 19 novembre 1991, la quale ha dichiarato infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 6, settimo comma, della legge n. 638/1983 negli esatti termini di cui sopra. (Conforme, da ultimo: Corte costituzionale 3 febbraio 1994, n. 15, in tema di "cristallizzazione"). 7. - La Corte costituzionale ha escluso il potere del legislatore di modificare l'ordinamento delle pensioni in modo discrezionale e, in particolare, di intervenire con una modifica normativa in una fase avanzata del rapporto di lavoro o nella fase di quiescenza per peggiorare in misura notevole e in modo definitivo il trattamento pensionistico gia' acquisito in base alla precedente normativa (cfr. Corte costituzionale n. 822/1988). Con la norma ora censurata, invero, viene disattesa e contrastata la interpretazione "adeguatrice" sin qui proposta dalla conforme e costante giurisprudenza della Corte suprema e della Corte costituzionale. Rispetto alla norma qui impugnata, i parametri di costituzionalita' (artt. 3 e 38 della Costituzione) possono desumersi, infatti, dalla stessa pronuncia di rigetto della Corte costituzionale (sentenza n. 418/1991 cit.) che ha negato il contrasto con quei precetti costituzionali dell'art. 6, settimo comma, del d.l. n. 463/1983, solo se questo venga interpretato nel senso che ora risulta disatteso dalla norma di interpretazione autentica di cui all'art. 11, ventiduesimo comma, della legge n. 537/1993. D'altra parte, la incompatibilita' con gli stessi precetti costituzionali (artt. 3 e 38 della Costituzione) della norma anzidetta discende dalla stessa natura dell'istituto del minimo pensionistico, che non ha natura assistenziale, ma essenzialmente previdenziale. (V. Corte costituzionale n. 31/1986). E corentemente con tale natura (art. 38 della Costituzione), oltre che con il principio di uguaglianza (art. 3 della Costituzione) sono le numerose pronunce della Corte costituzionale che hanno nel tempo dichiarato illegittime le norme che recavano il divieto di cumulo della integrazione al minimo nell'ipotesi del concorso di due o piu' pensioni (V. Corte costituzionale nn. 230/1974), 263/1976, 34/1981, 102/1982, 314/1985, 114/1992, ecc. e, da ultimo, n. 15/1994). Ne discende allora che il "diritto alla previdenza" (art. 38, secondo comma, della Costituzione) risulta violato dalla negazione della "cristallizzazione" delle integrazioni al minimo "cumulate" alla data del 30 settembre 1983, posto che il relativo importo - alla luce del regime allora vigente - rappresentava il minimo indispensabile per garantire ai lavoratori "mezzi adeguati alle loro esigenze di vita". Ma appare vulnerato anche il principio di "ragionevolezza", perche' la negazione della "cristallizzazione" degli importi gia' maturati del trattamento minimo e quindi gia' acquisiti, con la riduzione conseguente del trattamento pensionistico complessivo, determinato "a calcolo", al di sotto del livello che nel regime vigente nel periodo di sua maturazione era stato ritenuto appena sufficiente alle esigenze di vita, non puo' non comportare che violazione dei principi costituzionali (v. Corte costituzionale n. 169/1986). 8. - La disposizione interpretativa in esame si pone in contrasto anche con l'art. 101 della Costituzione. Infatti, tenuto conto dell'interpretazione in sede giurisprudenziale da lungo tempo adottata senza contrasti con riferimento all'art. 6 della legge n. 638/1983, nel senso sopra indicato, tanto da divenire (quella interpretazione) "diritto vivente", non si puo' non affermare che il legislatore attribuendo ad una norma (art. 11, ventiduesimo comma, della legge n. 527/1993) sostanzialmente innovativa una falsa veste interpretativa, senza alcuna giustificazione logico-giuridica, se non di economia finanziaria, ha finito con l'invadere un'area operativa riservata alla giurisdizione a qualsiasi livello, che gia' una interpretazione senza incertezze aveva dato alla norma interpretata anche a livello costituzionale (cfr. Corte costituzionale n. 283/1989). Invero, non pare rispondente a giustizia che a mezzo di norma solo formalmente interpretativa, ci si debba opporre alle istanze degli assicurati e alla interpretazione giurisprudenziale loro favorevole. (V. sentenza Corte costituzionale n. 123 del 10 aprile 1987). A tal riguardo, autorevole dottrina ha affermato .."puo' darsi che non ricorra il presupposto consistente nella incertezza della legge antecedente e che sotto specie di 'interpretazione' si introducano norme in realta' innovative affinche' l'innovazione riesca meno appariscente o che per mezzo della retroattivita' si eserciti da altri organi statali una indebita ingerenza nella decisione di cause prendenti o future cosi' da minacciare l'indipendenza degli organi giurisdizionali". E nella specie alla norma censurata non puo' essere riconosciuto carattere di interpretazione autentica; carattere che, invece, va attribuito soltanto ad una legge che fermo il tenore testuale della norma interpretata, ne chiarisce il significato normativo ovvero ne privilegia una fra le tante interpretazioni possibili (cfr. Corte costituzionale nn. 155/1990, 233/1988, 123/1987 e 454/1992). Cosi' non e' nel caso in esame, posto che l'art. 11, ventiduesimo comma, della legge n. 537/1993 attribuisce un significato normativo nuovo e diverso alla norma interpretata; sicche' il legislatore facendo mal governo della sua prerogativa d'interprete d'autorita' del diritto, ha interferito nella giurisdizione. Invero, nello stato di diritto, il giudice e' "soggetto" alla legge (art. 101 della Costituzione) e anzi "soltanto alla legge" e non anche al legislatore. E cio' comporta che potendo la legge essere anche retroattiva (salvi i limiti costituzionali), il legislatore che dispone retroattivamente, si impone per cio' stesso anche in tal caso al giudice che la legge deve applicare indefettibilmente. Torna allora opportuno rammentare quanto rilevato da codesta Corte nella sentenza n. 123/1987: "il giudice, per costituzione soggetto alla legge, per cio' stesso, ma solo in questo senso, in auctoritate legislatoris, e' tenuto ad interpretare il ius superveniens applicandolo al caso singolo sottoposto alla sua cognizione, per deciderne in merito". Ma, proprio perche' il vincolo del giudice (l'unico vincolo) e' quello dell'applicazione della legge cui e' soggetto al fine della decisione delle controversie, ne discendono dei limiti insuperabili per il legislatore anche ove esso legiferi retroattivamente e con norma di interpretazione autentica. Uno di questi limiti e' quello che essa "soddisfi l'esigenza sociale della certezza e dell'eguaglianza di trattamento giuridico, sempre che ne ricorra il presupposto nell'incertezza e conseguente possibilita' di interpretazioni divergenti". Infatti, allora, non si puo' dire che essa violi, col suo sopravvenire, aspettative certe o interessi sicuramente protetti, giacche' le aspettative che trovano fondamento in interpretazioni dubbie non acquistano mai certezza: la certezza che caratterizza i c.d. "diritti acquisiti". Tali concetti sono anche propri della Corte costituzionale, quando afferma che il legislatore allorche' definisce interpretativa una disciplina che, invece, ha natura innovativa, oltrepassa i limiti di ragionevolezza. Talche', come espressamente afferma la stessa Corte, questa e' in ogni caso chiamata a verificare se, di fronte a una legge che si autoqualifica interpretativa, "la qualificazione e la formulazione siano realmente rispondenti al contenuto dispositivo della legge medesima". Si afferma, cosi', che il discrimine tra disposizioni interpretative e innovative si ricollega al fenomeno abrogativo; la vera interpretazione autentica non e' idonea, come tale, a produrre alcun effetto di questo genere, facendo rimanere in vigore le norme alle quali si ricollega (cfr. in tal senso: Corte costituzionale nn. 283/1989, 233/1988 e 155/1990). 9. - Pertanto, cosi' ritenuta ammissibile, rilevante e non manifestamente infondata la prospettata questione di legittimita' costituzionale, va ordinata la immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospeso il presente giudizio. Va, quindi, disposto che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa, nonche' al Presidente del Consiglio dei Ministri e sia comunicata al Presidente della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, ai sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87