IL TRIBUNALE
    Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa civile del lavoro
 promossa dall'I.N.P.S. rappresentato e difeso dall'avv.  P.  Regaldo,
 contro Zuppa Maria, rappresentata e difesa dall'avv. V. Fiorio;
    Premesso  che  con  ricorso depositato in data 4 settembre 1990 la
 sig.ra Zuppa Maria in Lopez, titolare di pensione di invalidita'  con
 decorrenza  1ø  settembre  1974  e  di pensione di reversibilita' con
 decorrenza 1ø marzo  1975  a  carico  dell'I.N.P.S.,  ha  chiesto  al
 pretore  di  Torino  di dichiarare, in applicazione della sentenza n.
 314/1985 della Corte  costituzionale,  il  suo  diritto  ad  ottenere
 l'integrazione  al  trattamento  minimo sulla pensione indiretta, con
 decorrenza  di  dieci  anni   dalla   presentazione   della   domanda
 amministrativa    (anziche'    cinque    come    gia'    riconosciuto
 dall'I.N.P.S.),  nonche'  il  suo  diritto  alla  "cristallizzazione"
 dell'importo  della  predetta pensione nell'importo corrisposto al 30
 settembre 1983;
    L'I.N.P.S., costituendosi in giudizio, riconosceva il diritto alla
 integrazione al trattamento minimo fino al 30 settembre  1983  e  nei
 limiti della prescrizione decennale, contestando invece la fondatezza
 della   domanda   volta   alla   "cristallizzazione"  della  pensione
 indiretta;
    Con sentenza del 17 dicembre 1991 il pretore di Torino  dichiarava
 cessata  la  materia  del  contendere  relativamente  alla domanda di
 integrazione al minimo e, accogliendo  l'ulteriore  domanda  proposta
 dalla   Zuppa,   riconosceva   il  diritto  di  questa  alla  pretesa
 "cristallizzazione";
    Con ricorso depositato in data 3 marzo 1992 l'I.N.P.S. interponeva
 appello   avverso   l'anzidetta   sentenza   sul   capo   concernente
 l'accoglimento  della  domanda  di  "cristallizzazione", a suo avviso
 precluso dal disposto di cui all'art. 6, settimo comma, del d.l.  12
 settembre 1983, n. 463, convertito in legge 11 novembre 1983, n. 638;
    Costituendosi  con  memoria  depositata  il  15 gennaio 1994 Zuppa
 Maria, preso atto che medio tempore  era  sopravvenuta  la  legge  24
 dicembre   1993,  n.  537,  che,  all'art.  11,  ventiduesimo  comma,
 interpretando autenticamente l'art. 6, quinto, sesto, settimo  comma,
 del    d.l.    sopracitato,    aveva   escluso   il   diritto   alla
 "cristallizzazione", chiedeva al tribunale di dichiarare rilevante  e
 non  manifestamente  infondata,  con  riferimento  agli artt. 3 e 38,
 secondo comma,  della  Costituzione,  la  questione  di  legittimita'
 costituzionale del combinato disposto dell'art. 6, settimo comma, del
 d.l.  cit.  e  dell'art.  11,  ventiduesimo  comma,  della  legge n.
 537/1993 cit.;
                          RITENUTO IN DIRITTO
    L'Istituto  nazionale  della previdenza sociale (I.N.P.S.) censura
 la sentenza impugnata per avere ritenuto che - anche nell'ipotesi del
 concorso  di  piu'  pensioni  -  trovi  applicazione   la   cosidetta
 "cristallizzazione"  del  trattamento  non  piu' integrabile, sebbene
 questa sia prevista soltanto per  il  caso  di  perdita  del  diritto
 all'integrazione   -   su  un'unica  pensione  -  in  dipendenza  del
 superamento del previsto limite di reddito.
    L'interpretazione della disposizione che viene  in  considerazione
 (art.  6,  settimo  comma,  del  d.l. n. 463, convertito in legge n.
 638/1983), proposta dal pretore, risulta conforme alla giurisprudenza
 costante della Corte di cassazione (v. sentenze nn. 9664, 8015, 6192,
 4963, 3331, 2747, 2458, 1469, 1438, 1436, 842 del 1991, 7315  e  3749
 del  1990),  sostanzialmente  condivisa  dalla  Corte  costituzionale
 (sentenza n.  418/1991, ordinanza n. 21/1992, sentenza n. 164/1992).
    Nelle more del presente giudizio e'  tuttavia  intervenuto  l'art.
 11,  ventiduesimo  comma,  della  legge  24  dicembre  1993,  n.  537
 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 303 del 28  dicembre  1993  -
 Suppl.  ord.  n.  121)  che  stabilisce:  "L'art.  6, quinto, sesto e
 settimo comma, del d.l. 12 settembre 1983, n. 463,  convertito,  con
 modificazioni,  dalla  legge  11 novembre 1983, n. 638, si interpreta
 nel senso che nel caso di concorso di due o piu'  pensioni  integrate
 al  trattamento  minimo, liquidate con decorrenza anteriore alla data
 di entrata in  vigore  del  predetto  decreto-legge,  il  trattamento
 minimo  spetta su una sola delle pensioni, come individuata secondo i
 criteri previsti al terzo comma dello stesso articolo, mentre l'altra
 o le altre pensioni spettano  nell'importo  a  calcolo  senza  alcuna
 integrazione".
    Non  pare  dubbia  la  natura  di  interpretazione  autentica e la
 connaturale efficacia retroattiva della sopracitata disposizione (che
 costituisce,  peraltro  la  reiterazione   della   disposizione,   di
 contenuto  pressoche'  identico, prevista da precedenti decreti-legge
 non convertiti).
    Ne  risulta,  allora,  che  -  in  contrasto  con   la   ricordata
 giurisprudenza  costante  della  Corte  di cassazione sostanzialmente
 condivisa dalla Corte costituzionale (sentenza n. 418/1991,  cit.)  -
 la legge, con la disposizione in esame (art. 11, ventiduesimo comma),
 intende  proporre  una  piu'  restrittiva  interpretazione  autentica
 (dell'art. 6, settimo comma, del d.l. n. 463, convertito in legge n.
 638/1983), nel senso  di  escludere  duplicita'  di  integrazioni  al
 minimo, nel caso di piu' pensioni.
    La  norma de qua, dunque, prevede - per l'ipotesi di piu' pensioni
 integrate al trattamento minimo - la "conservazione" del  trattamento
 minimo  su  una sola pensione (individuata in base ai criteri, di cui
 al terzo comma del d.l. n. 463, convertito in  legge  n.  638/1983),
 mentre le altre pensioni concorrenti vanno corrisposte nella misura -
 inferiore   ai   minimi   pensionistici  -  a  calcolo  senza  alcuna
 integrazione.
    Ne   risulta   una   riduzione   del   trattamento   pensionistico
 complessivo,  "vigente"  alla data considerata (entrata in vigore del
 d.l. n. 463/1983).
    Ad avviso di questo tribunale e' rilevante e  "non  manifestamente
 infondata"   la   questione   di  legittimita'  costituzionale  -  in
 riferimento agli artt. 3 e 38  della  Costituzione  -  del  combinato
 disposto  della  norma interpretata (art. 6, settimo comma, del d.l.
 n.  463,  convertito  in  legge  n.  638/1983)   e   di   quella   di
 interpretazione  autentica  (art. 11, ventiduesimo comma, della legge
 n. 537/1993), sollevata dalla difesa dell'appellata.
    Quanto  alla  rilevanza  e' sufficiente osservare che, nel caso di
 specie, la decisione del ricorso dipende dall'applicazione  dell'art.
 6,  terzo  e  settimo comma, del d.l. n. 463, convertito in legge n.
 638/1983, nella "interpretazione  autentica"  fornita  dall'art.  11,
 ventiduesimo comma, della legge n. 537/1993.
    Di  tale  interpretazione,  che  comporterebbe  l'accoglimento del
 ricorso d'appello pare, tuttavia,  non  manifestamente  infondata  la
 questione  di  legittimita' costituzionale, in riferimento agli artt.
 38, secondo comma, e 3 della Costituzione.
    Va a questo punto rammentato che la stessa Corte di cassazione  ha
 sollevato  questioni di costituzionalita', con riferimento agli artt.
 3 e 38, secondo comma, della Costituzione, delle  analoghe  norme  di
 interpretazione  autentica del cit. art. 6 del d.l. n. 463/1983 cit.
 contenute in precedenti decreti-legge non convertiti: v. ordinanza 26
 maggio 1992, n. 355 (in Gazzetta  Ufficiale,  parte  speciale  n.  29
 dell'8 luglio 1992) e ordinanza dell'11 febbraio 1992, n. 142.
    Le   autorevoli   considerazioni   svolte   dalla  suprema  Corte,
 pienamente condivise da questo  tribunale,  vengono  in  questa  sede
 sinteticamente richiamate.
    Se e' vero, anzitutto, che la legge di "interpretazione autentica"
 non  e',  di  per  se',  in  contrasto con i precetti costituzionali,
 potendo, di regola,  il  legislatore,  nell'esercizio  della  propria
 "discrezionalita'",  imporre  un  significato determinato - anche con
 effetto retroattivo - a disposizioni  precedenti,  senza  interferire
 con  cio',  nella  sfera  riservata al potere giudiziario (vedi Corte
 costituzionale nn. 175/1974, 68/1984, 36/1985, 167 e  236  del  1986,
 123,  233  e  754  del  1988,  283/1989,  cio' non esclude, tuttavia,
 qualsiasi scrutinio di costituzionalita' delle  singole  disposizioni
 legislative, appunto, di "interpretazione autentica".
    Al  pari  di  qualsiasi  altra  disposizione,  infatti,  anche  le
 disposizioni "interpretative"  possono  risultare  in  contrasto  con
 precetti costituzionali.
    Per  quel che qui interessa, c'e' da domandarsi, se discostandosi,
 per quanto si e' detto, dalla ricordata  sentenza  interpretativa  di
 rigetto  della  Corte costituzionale (sentenza n. 418/1991, cit.), la
 disposizione di interpretazione autentica di cui si discute,  risulta
 compatibile con norme, principi e valori costituzionali.
    A  tale riguardo basta ricordare che la piu' volte citata sentenza
 della Corte costituzionale n. 418/1991 ha  condiviso  sostanzialmente
 l'interpretazione  "adeguatrice"  dell'art.  6, del d.l. n. 463/1983
 cit.  accolta  dalla   giurisprudenza   costante   della   Corte   di
 casssazione.
    Pertanto  la disposizione "interpretativa" in esame, discostandosi
 dalla interpretazione "adeguatrice" di  una  disposizione  precedente
 (art.  6,  settimo  comma,  del  d.l. n. 463, convertito in legge n.
 638/1983), accolta in pronuncia interpretativa di rigetto della Corte
 costituzionale (sentenza n. 418/1991, cit.) puo'  dar  luogo  ad  una
 successiva  pronuncia di accoglimento della stessa Corte, concernente
 il combinato disposto di quella norma di "interpretazione  autentica"
 e della disposizione interpretata.
    I parametri di costituzionalita' (artt. 3 e 38 della Costituzione)
 possono desumersi, poi, dalla stessa pronuncia di rigetto della Corte
 costituzionale  (sentenza  n.  418/1991,  cit.),  che  ha  negato  il
 contrasto - con quei precetti  costituzionali  -  della  disposizione
 impugnata  (art.  6,  settimo  comma, del d.l. n. 463, convertito in
 legge n. 638/1983), solo se questa venga interpretata nel senso,  che
 risulta,  ora,  disatteso  dalla norma di "interpretazione autentica"
 (art. 11, ventiduesimo comma, della legge n. 537/1993).
    Tale conclusione risulta avvalorata ove si consideri che la  Corte
 costituzionale  (sentenza  n. 164 del 30 marzo-8 aprile 1992, cit.) -
 anche dopo la analoga norma di interpretazione  autentica  (contenuta
 all'art.  4,  primo  comma,  del  d.l. n. 14 e n. 237 del 1992) - ha
 ribadito che successivamente (alla data  di  entrata  in  vigore  del
 d.l.  n.  463,  convertito  in legge n. 638/1982) opera di principio
 della integrabilita' di un'unica pensione, con cristallizzazione  del
 trattamento non integrato.
    Tanto   basta  per  ritenere  "non  manifestamente  infondata"  la
 prospettata questione di  legittimia'  costituzionale.  Nella  citata
 ordinanza  della  Corte di cassazione 26 maggio 1992, n. 355 (con cui
 e' stata sollevata la questione di  legittimita'  costituzionale  del
 combinato  disposto dell'art. 6, settimo comma, del d.l. n. 466 cit.
 e dell'art. 4, primo comma, del d.l. 20 maggio 1992, n. 293), si  e'
 poi  testualmente  affermato:  "La  incompatibilita'  con  i medesimi
 precetti costituzionali (artt. 3 e  38)  del  combinato  disposto  in
 esame,  tuttavia,  discende  dalla  stessa "natura" dell'istituto del
 trattamento  pensionistico  minimo  (vedi  Corte  costituzionale   n.
 31/1986).
    Essendo   volto   a   garantire   ai  "lavoratori"  (non  gia'  ai
 "cittadini") "mezzi adeguati alle loro esigenze di  vita"  (ai  sensi
 dell'art.  38,  secondo  comma,  della  Costituzione), sia pure senza
 soggiacere alla  logica  del  sistema  mutualistico-assicurativo,  il
 trattamento  pensionistico  minimo  non  ha  "natura  prevalentemente
 assistenziale" - gli viene attribuita (dalle ricordate  relazioni  ai
 d.d.l.  di conversione dei precedenti d.l. 14 e 237 del 1992 - ma ha
 natura  essenzialmente  previdenziale  (v.  Corte  costituzionale  n.
 31/1986, cit.).
    Coerenti   con   tale   natura,   oltreche'   con   il   principio
 costituzionale di uguaglianza  (art.  3  della  Costituzione),  anche
 sotto il profilo della "ragionevolezza" (sulla quale vedi, da ultima,
 Corte  costituzionale  n.  24/1992)  risultano,  quindi,  le numerose
 pronunce della Corte costituzionale, che - sin dal 1974 (sentenza  n.
 230/1974)   -   hanno   dichiarato   costituzionalmente   illegittime
 disposizioni di legge (art. 2, secondo comma, della legge n.  1338/62
 e  23  della legge n. 153/1969, art. 1, secondo comma, della legge n.
 9/1963; art.  19,  secondo  comma,  della  legge  n.  613/1966),  che
 recavano,   appunto,   il  divieto  di  cumulo  dell'integrazione  al
 trattamento minimo, nelle previste ipotesi del concorso di due o piu'
 pensioni (con riferimento alla prima delle disposizioni citate, vedi:
 Corte nn. 230/1974, 263/1976, 34/1981,  102/1982,  nonche'  314/1985,
 anche  per ipotesi residue di cumulo non contemplate dalle precedenti
 pronunce; con riferimento alla  seconda  delle  disposizioni  citate,
 vedi  Corte  costituzionale  n.  34/1981,  184/1988, nonche' 81/1989,
 anche per ipotesi residue di cumulo non  contemplate  dalle  pronunce
 precedenti;  con  riferimento  alla  terza  disposizione  vedi  Corte
 costituzionale nn. 102/1982, 1144/1988, 142/1983, 373, 488 e 502  del
 1989,  69,  70  e 547 del 1990, 165/1992; con riferimento alla quarta
 disposizione, vedi: Corte costituzionale nn. 102 del 1982, 184 e 1086
 del 1988, 179, 250, 502 e 504 del 1989, 182/1990, 114 e 164 del 1992,
 cit.).
    Peraltro  cio'  non  ha  impedito  che - in attuazione di "monito"
 della  stessa  Corte  costituzionale  (sentenza  n.  102/1982)  -  il
 legislatore  (art.  6,  terzo  comma, del d.l. n. 463, convertito in
 legge n. 638/1983 cit.) introducesse - per l'avvenire (a  far  tempo,
 cioe',  dal 1ø ottobre 1983) - il divieto di cumulo dell'integrazione
 al trattamento minimo - nel caso di concorso di due o piu' pensioni -
 ferme restando in via transitoria, le situazioni  pregresse  (siccome
 e'  confermato,  tra  l'altro, dalle ricordate pronunce successive di
 incostituzionalita' dei pregressi divieti di cumulo).
    Il divieto di cumulo (di cui all'art. 6, terzo comma, del d.l. n.
 463, convertito in legge n. 638/1983), poi, ha superato lo  scrutinio
 di  costituzionalita'  (Corte  costituzionale n. 184/1988).  Volto, a
 "razionalizzare" il regime  dell'integrazione  al  minimo  -  siccome
 auspicato dalla stessa Corte costituzionale - quel divieto di cumulo,
 infatti,  e'  stato  ritenuto  "espressione di quella valutazione del
 rapporto tra esigenze di vita e predisposizione di  mezzi  idonei  ..
 riservata   alla   discrezionalita'   legislativa,   pur  avvertendo,
 peraltro, che tali mezzi non sono soltanto 'quelli che  soddisfano  i
 bisogni  elementari  e  vitali,  ma  anche  quelli che siano idonei a
 realizzare le esigenze relative al tenore di  vita  conseguito  dallo
 stesso  lavoratore  in  rapporto al reddito ed alla posizione sociale
 raggiunta  in  seno  alla  categoria  di  appartenenza  per   effetto
 dell'attivita'  lavorativa svolta' (sentenza n. 173/1986) .." (cosi',
 testualmente, Corte costituzionale n. 184/1988 cit.).
    Infatti la norma allora denunciata (art. 6, terzo comma, del d.l.
 n.  463,  convertito  in  legge  n.  638/1983)  -   come   la   Corte
 costituzionale  sottolinea  (nella  stessa  sentenza  n.  184/1988) -
 "sancisce una generale regola in ordine alla scelta della pensione da
 integrare al minimo, consentendo, pero', la  perequazione  automatica
 del  trattamento  non  integrato  (e)  si  colloca nel divenire di un
 processo che, a partire dal 1ø ottobre 1983, tende a rendere uniforme
 l'istituto del trattamento minimo in  presenza  del  cumulo  di  piu'
 pensioni".
    Tuttavia   restano   impregiudicate   -  anche  secondo  la  Corte
 costituzionale (sentenza  n.  184/1988)  -  le  situazioni  pregresse
 (anteriori, cioe', al 1ø ottobre 1983).
    Nel  regime  vigente  fino  a  tale  data  -  quale  risulta dalle
 disposizioni di legge e dalle relative pronunce di accoglimento della
 Corte  costituzionale  (in   tema,   appunto,   di   "cumulo"   delle
 integrazioni  al  minimo)  -  il  diritto  del lavoratore a che siano
 garantiti mezzi adeguati alle esigenze  di  vita  (art.  38,  secondo
 comma,  della  Costituzione  - nel senso precisato dalla stessa Corte
 costituzionale (sentenza n.  173/1986,  cit.)  -  veniva  assicurato,
 infatti,  soltanto  dal  cumulo  di  piu'  integrazioni,  nel caso di
 concorso di due o piu' pensioni.
    Il "diritto alla previdenza" (di cui all'art. 38,  secondo  comma,
 della  Costituzione)  risulta,  quindi,  leso  dalla  negazione della
 "cristallizzazione" - sia pure  in  via  transitoria  -  dell'importo
 delle  integrazioni  al  minimo "cumulate" - che fosse stato maturato
 alla data del 30 settembre 1983 - una volta che tale importo  -  alla
 luce   del   regime   allora   vigente   -  rappresentava  il  minimo
 indispensabile per garantire ai lavoratori, appunto, "mezzi  adeguati
 alle loro esigenze di vita".
    In  difetto  della  garanzia  del  "minimo",  infatti,  "non  sono
 legittime norme  che  implichino  una  sostanziale  decurtazione  del
 complessivo  trattamento  pensionistico"  (v. Corte costituzionale n.
 204/1992). Prevedendo, quindi, la integrazione al trattamento  minimo
 -  soltanto  per  una  delle  pensioni concorrenti (individuata con i
 criteri all'uopo stabiliti)  -  il  combinato  disposto  della  norma
 "interpretativa"  in  esame  (art.  4,  primo  comma,  del  d.l.  n.
 293/1992) e della disposizione, che ne risulta interpretata (art.  6,
 settimo  comma,  del  d.l.  n. 463, convertito in legge n. 638/1983)
 comporta, appunto,  una  "sostanziale  decurtazione  del  complessivo
 trattamento  pensionistico"  al  di sotto del "minimo" indispensabile
 per garantire ai lavoratori "mezzi adeguati  alle  loro  esigenze  di
 vita"   e,   percio',   risulta   incompatibile   con   il   precetto
 costituzionale   ricordato   (art.   38,   secondo    comma,    della
 Costituzione).
    Ne  risulta  violato, altresi', il principio di "ragionevolezza" (
 ex art. 3 della Costituzione).
    Appare   sprovvista,    infatti,    di    qualsiasi    ragionevole
 giustificazione  la  negazione  -  risultante dal combinato disposto,
 investito    dell'incidente    di    costituzionalita'    -     della
 "cristallizzazione",  sia pure in via transitoria, degli importi gia'
 maturati  del  trattamento  minimo,  per   le   pensioni   non   piu'
 integrabili,  e  la  riduzione  -  che  ne consegue - del trattamento
 pensionistico complessivo, al disotto del livello che  -  secondo  il
 regime vigente nel periodo della sua maturazione - era stato ritenuto
 appena  sufficiente  per  garantire ai lavoratori mezzi adeguati alle
 loro esigenze di vita.
    Alla luce delle argomentazioni di cui sopra ritiene  il  tribunale
 che   la  questione  di  costituzionalita'  prospettata  dalla  parte
 appellata  debba  essere  ritenuta  rilevante  e  non  manifestamente
 infondata.
    Va  pertanto  ordinata  la  immedaita trasmissione degli atti alla
 Corte costituzionale e, sospeso il giudizio, va disposto che, a  cura
 della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle parti in
 causa,  nonche'  al  Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri  e sia
 comunicata al Presidente della Camera dei deputati e del Senato della
 Repubblica (ai sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87).