IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI Vista la richiesta del p.m. di emissione di un provvedimento di custodia cautelare in carcere a carico di Musumeci Silvio, e la contestuale richiesta di promovimento della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 286- bis del c.p.p. nella parte in cui impedisce l'adozione del citato provvedimento a carico dell'indagato; Ritenuto di dover condividere la richiesta del p.m., e rilevato; IN FATTO Per illustrare il concreto rilievo della questione che costituisce l'oggetto della presente denuncia di incostituzionalita' appare opportuno premettere quanto segue: 1) Musumeci Silvio e' soggetto con reiterati precedenti penali per violazione della normativa in materia di armi, della legislazione sugli stupefacenti, per estorsione ed altro; 2) egli e' attualmente sottoposto a giudizio, dinanzi all'A.G. di Lucca, per i reati di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, di estorsione continuata, di omicidio tentato ed altro; 3) copia degli atti del predetto procedimento - che detiene, come si vedra', interesse anche ai fini della questione che qui si solleva - e' stata acquisita dal p.m., ai sensi dell'art. 371 del c.p.p., al presente procedimento; 4) dall'esame di quegli atti si ricava che il Musumeci e' accusato di essere esponente di spicco del tristemente noto "clan Musumeci", operante da alcuni anni nella fascia costiera della Toscana, il quale, avvalendosi della condizione di assoggettamento e di omerta' originata dall'abituale ricorso alla violenza da parte dei suoi affiliati, ha posto in essere una sistematica attivita' di taglieggiamento soprattutto ai danni dei titolari di pubblici esercizi operanti in questa parte della regione; 5) sempre dall'esame di quegli atti si ricava che l'odierno indagato, raggiunto da un provvedimento di custodia cautelare in carcere emesso il 18 ottobre 1991 da quel g.i.p., con successivo provvedimento in data 11 febbraio 1992 fu scarcerato e collocato agli arresti domiciliari in quanto risultato affetto da A.I.D.S. conclamata. L'art. 286- bis del c.p.p. pone infatti un indifferenziato divieto di custodia cautelare in carcere a carico di indagati i quali risultino affetti, come appunto il Musumeci, da "A.I.D.S. conclamata". Questo premesso, e venendo ora ai fatti che costituiscono oggetto del presente procedimento, si deve ricordare che sono stati raccolti elementi di prova, rappresentati da indagini di p.g., dichiarazioni di persone informate sui fatti e confessioni di coindagati, che hanno illustrato come subito dopo il collocamento agli arresti domiciliari concessogli dall'a.g. di Lucca il Musumeci abbia ripreso a gestire una sistematica attivita' estorsiva, stavolta attuata soprattutto in danno dei titolari di alcune case da gioco clandestine operanti su Pisa (alcuni dei quali, peraltro, gia' vittime di pregressi episodi estorsivi riferibili sempre all'odierno indagato, per i quali pende il citato procedimento lucchese). Risulta, in particolare, che gia' in data 20 aprile 1993, e quindi ad appena due mesi di distanza dalla sua scarcerazione, il Musumeci convoco' presso il suo domicilio i gestori di due di codeste case da gioco - che ivi furono casualmente trovati dalla p.g. in occasione di un controllo - per imporre loro il pagamento di una determinata percentuale sugli incassi settimanali. Risulta altresi' che da allora l'indagato inizio' a riscuotere le somme provento della sua attivita' estorsiva servendosi dell'operato di correi - quasi tutti sottoposti a custodia cautelare nell'ambito del presente procedimento, e confessi - e perfino dell'operato di sua moglie, anch'essa affetta da infezione da H.I.V., ma sottoposta, a differenza del marito, a custodia cautelare in carcere in quanto risultata portatrice di un numero di linfociti T/CD4 compatibile con l'accennata coercitiva. Allo stato, dunque, mentre sono ristretti in carcere i gregari dell'organizzazione criminosa facente capo all'attuale indagato, e perfino la moglie di questi, pure affetta da infezione da H.I.V., questo giudice e' impossibilitato, per il divieto impostogli dall'art. 286- bis del c.p.p., ad adottare a carico del Musumeci un provvedimento cautelare piu' grave di quello degli arresti domiciliari, pur essendo dimostrata per facta concludentia la inidoneita' di quest'ultima misura - della quale l'indagato gia' fruisce, come si e' visto, per disposizione di altra a.g. - ad impedire la prosecuzione dell'attivita' criminosa da parte di costui, e pur essendo per altro verso dimostrato, di nuovo per facta concludentia, come le condizioni di salute di questi non siano tanto gravi da impedirgli di avviare, organizzare e gestire un articolato programma estorsivo quale quello emerso nell'ambito della presente indagine. La rilevanza della questione di costituzionalita' dell'art. 286- bis del c.p.p. che qui si propone e' agevolmente deducibile dalla circostanza che e' esattamente per effetto della norma in questione che questo giudice e' impossibilitato ad adottare un provvedimento di restrizione carceraria che il titolo del reato ascritto al Musumeci (art. 275 terzo comma del c.p.p.) e le esigenze di prevenzione speciale in concreto ravvisabili nel caso di specie (art. 274 lett. c) c.p.p.) consiglierebbero altrimenti di emettere. Detta questione appare non manifestamente infondata sulla base delle considerazioni che qui di seguito si propongono. IN DIRITTO La questione della sottoponibilita' a custodia cautelare in carcere di indagati i quali versino in gravi condizioni di salute e' stata affrontata e risolta in via generale dal legislatore con l'art. 275, quarto comma, c.p.p. il quale dispone, come e' noto, che "non puo' essere disposta la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, quando imputata e' ( ..) una persona che si trova in condizioni di salute particolarmente gravi che non consentono le cure necessarie in caso di detenzione". Il contemperamento tra il diritto alla salute delle persone indagate e le esigenze di tutela della collettivita' e' stato dunque raggiunto dal legislatore all'insegna di un duplice limite: da un lato il divieto di custodia cautelare in carcere opera solo in presenza di condizioni di salute talmente gravi da non poter essere efficacemente curate in ambiente carcerario; da un altro lato, esso e' comunque superabile quando sussistano esigenze cautelari di eccezionale intensita' e rilevanza. E' acquisito in giurisprudenza come la norma in questione imponga al giudice di procedere ad un attento bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco, in modo da assicurare che quanto piu' elevato sia il livello delle esigenze cautelari da realizzare nel caso concreto, correlativamente tanto piu' gravi debbano essere le condizioni di salute idonee a giustificare l'esclusione della custodia in carcere (cass. 10 settembre 1991; cass. 23 aprile 1992). La lex generalis affida in altre parole al giudice - con una soluzione improntata ad incontestabile razionalita' - il compito di valutare, volta per volta e in concreto, da un lato il grado delle esigenze cautelari da assicurare in relazione ai reati per i quali si procede, e dall'altro lo stato di compromissione delle condizioni di salute dell'indagato, anche soppesando prudentemente il riflesso che queste possano avere su quelle: nel senso che quando lo scadimento delle condizioni sanitarie dell'indagato sia tale da farne ritenere fortemente ridotta la pericolosita', meno gravi possano essere per conseguenza le misure limitative della sua liberta' personale; e per converso; qualora il suo stato di salute si riveli del tutto ininfluente a scongiurare taluno dei pericula indicati dall'art. 274 del c.p.p., legittimamente possa esserne disposta la coercizione cautelare in carcere. Tale generale disciplina e' stata radicalmente derogata - con riferimento alla speciale ipotesi di indagati affetti da infezioni da H.I.V. - dall'art. 286- bis del c.p.p. introdotto nell'ordinamento dal d.l. 14 maggio 1993, n. 139, convertito in legge 14 luglio 1993, n. 222. Con detta disposizione e' stato introdotto il principio del divieto della custodia cautelare in carcere per gli indagati affetti da infezione da H.I.V. i quali versino in una "situazione di incompatibilita' con lo stato di detenzione". I presupposti e le modalita' di accertamento della predetta situazione di incompatibilita' sono stati disciplinati dalla norma in due modi radicalmente distinti: 1) con l'imposizione di una presunzione juris et de jure di incompatibilita' con la custodia cautelare in carcere per i soggetti affetti da "A.I.D.S. conclamata" (definita secondo i criteri dettati dalla circolare del Ministero della sanita' 13 febbraio 1987, n. 5) o da "grave deficienza immunitaria" (definita dalla presenza nel soggetto di un numero di linfociti T/CD4 pari o inferiore a 100 per mmc, giusta le previsioni dell'art. 1, d.m. 25 maggio 1993); 2) con l'affidamento al giudice del compito di valutarla caso per caso nell'ipotesi di "rilevante deficienza immunitaria" (definita dalla presenza di linfociti T/CD4 in numero superiore a 100 ma inferiore a 200 per mmc), tenendo conto in particolare "del periodo residuo di custodia cautelare" da subirsi da parte dell'indagato, e "degli effetti che sulla pericolosita' del detenuto hanno le sue attuali condizioni fisiche". Mentre quest'ultima previsione si muove sostanzialmente, come si vede, nell'alveo della disciplina generale dettata dall'art. 275, quarto comma, del c.p.p., merita invece piu' attenta considerazione la prima parte della norma in esame, che e' d'altronde quella che rileva in concreto nel caso oggetto del presente provvedimento. Con essa e' stato infatti introdotto un assoluto ed indifferenziato divieto di custodia cautelare in carcere in connessione a situazioni di fatto (patologia da A.I.D.S. conclamata o deficit immunitario grave, definito dal numero di linfociti T/CD4) ritenute juris et de jure significative di incompatibilita' con lo stato di carcerazione. Tale indifferenziato divieto preclude dunque al giudice di operare sia quel bilanciamento tra diritto alla salute della persona indagata ed esigenze di tutela della collettivita' che si e' visto essere imposto dall'art. 275, quarto comma, del c.p.p., sia - che e' accertamento sostanzialmente non dissimile - quella valutazione circa gli "effetti che sulla pericolosita' del detenuto hanno le sue attuali condizioni fisiche" prevista per le forme meno gravi di infezione da H.I.V. dall'art. 286- bis del c.p.p. Ora, mentre nessuna censura potrebbe essere mossa alla disposizione che qui si denuncia qualora le situazioni di fatto da essa considerate fossero effettivamente rivelatrici di assoluta incompatibilita' con lo stato di carcerazione (intesa, da un lato, come impossibilita' di cura in ambiente carcerario, e dall'altro come riduzione della pericolosita' dell'indagato in relazione alle sue condizioni di salute), sorgono invece seri motivi di perplessita' quando si rifletta sul fatto che la patologia da A.I.D.S. conclamata o il deficit immunitario espresso dal numero di linfociti T/CD4 nel sangue non sono, di per loro, necessariamente produttivi delle conseguenze che da essi si pretende, juris et de jure, di inferire. Si deve infatti ritenere che, ai fini della valutazione delle reali condizioni di salute di un soggetto affetto da infezione da H.I.V. abbiano rilievo, piu' che il dato - tutto sommato astratto - del numero di linfociti T/CD4 presenti nel plasma, e piu' che la presenza di una qualsiasi delle infezioni opportuniste previste dalla circolare del Ministero della sanita' 13 febbraio 1987, n. 5, la natura, la localizzazione, la gravita' di queste ultime: ben potendo darsi che un soggetto con un patrimonio immunitario inferiore ai 100 T/CD4 mmc o portatore di una non grave infezione opportunista goda di fatto di uno stato di relativo benessere tale, da un lato, da renderne possibile un adeguato trattamento in ambiente carcerario, e da altro lato da non sminuirne significativamente la pericolosita'. Il caso oggetto del presente procedimento offre una convincente esemplificazione dell'assunto che qui si sostiene. Musumeci Silvio e' si' affetto da patologia da A.I.D.S. conclamata. Ma le sue condizioni di salute non gli hanno impedito di riprendere, dal suo domicilio, una nuova serie di attivita' estorsive, in parte dirette contro soggetti gia' vittime di analoghe sue coartazioni criminose in passato. Risulta per altro verso che attualmente le esigenze terapeutiche dell'indagato sono adeguatamente soddisfatte da cure domiciliari accoppiate a saltuarie traduzioni presso un reparto ospedaliero di malattie infettive, il che rende evidente che le stesse potrebbero altrettanto, e forse addirittura piu' adeguatamente, essere soddisfatte presso un centro clinico carcerario attrezzato, con eventuali brevi periodi di ricovero esterno. Le disposizioni dettate in parte qua dall'art. 286- bis del c.p.p. appaiono dunque costituzionalmente censurabili da due diversi punti di vista. Innanzitutto nell'ottica della violazione del principio di uguaglianza posto dall'art. 3 della Costituzione. Tale violazione e' ravvisabile sia in raffronto alla disciplina generale dettata, per le persone che versino in gravi condizioni di salute, dall'art. 275, quarto comma, del c.p.p., sia in relazione alla speciale disciplina prevista dallo stesso art. 286- bis del c.p.p. per la particolare fattispecie della "rilevante deficienza immunitaria" da infezione da H.I.V. In ordine al primo punto si deve ritenere che sia del tutto ingiustificato, perche' privo di qualsiasi fondamento sia sanitario che criminologico, il diverso trattamento riservato agli ammalati di A.I.D.S. conclamata o da grave deficienza immunitaria rispetto a quello previsto per la generalita' degli indagati affetti da altre gravi patologie. Mentre questi ultimi, come si e' visto, possono essere sottoposti a custodia cautelare in carcere previa valutazione dell'intensita' delle esigenze cautelari sussistenti a loro carico, che in casi limite puo' addirittura prevalere sull'accertata incompatibilita' con lo stato detentivo, i primi non possono in nessun caso essere sottoposti a detta misura, senza alcun riguardo ne' per la loro effettiva pericolosita' ne' per le loro concrete condizioni di salute. Il che appare, come si accennava, del tutto illogico e ingiustificato, atteso il fatto che gli ammalati di A.I.D.S. conclamata (e il Musumeci ne e' l'esemplificazione) possono trovarsi in concreto, sul piano delle esigenze cautelari formulabili a loro carico e delle necessita' terapeutiche da soddisfare, in posizione non deteriore rispetto a quella di altri indagati affetti da patologie altrettanto gravi ed irreversibili. Un secondo profilo di disparita' di trattamento appare ravvisabile, all'interno dello stesso art. 286- bis del c.p.p., rispetto alla disciplina prevista per gli indagati affetti da "deficienza immunitaria rilevante", definita, come si e' visto, da un determinato livello convenzionale (piu' di 100 e meno di 200 per mmc) di linfociti T/CD4 nel plasma. Anche questi soggetti possono essere infatti sottoposti a custodia cautelare in carcere, previa valutazione del "periodo residuo" di custodia da subire e "degli effetti che sulla pericolosita' del detenuto hanno le sue attuali condizioni fisiche". Tale disposizione appare anch'essa in stridente ed irragionevole contrasto con l'assoluto divieto di carcerazione previsto, senza alcun riguardo per le loro effettive condizioni personali, per i soggetti affetti da A.I.D.S. conclamata o deficit immunitario "grave", non avendo alcun fondamento, ne' logico ne' scientifico, l'idea - evidentemente assunta dal legislatore a linea ispiratrice del suo intervento - che un numero di linfociti T/CD4 di poco superiore o inferiore a 100 possa tracciare un discrimine attendibile, sul piano delle esigenze cautelari e delle necessita' terapeutiche, tra due categorie di ammalati in vista dei trattamenti custodiali radicalmente differenziati previsti per costoro. La concreta fattispecie sottoposta a questo Giudice offre di nuovo una convincente esemplificazione dell'assunto qui svolto: si e' infatti gia' visto come, in applicazione dell'art. 286- bis del c.p.p. (e dell'art. 275, terzo comma, del c.p.p.), abbia dovuto essere disposta la custodia cautelare in carcere a carico della moglie del Musumeci, pure essa affetta da infezione da H.I.V., ma con un patrimonio immunitario ancora compatibile coi limiti previsti dal d.-m. 25 maggio 1993. E' doveroso chiederci allora quale senso logico abbia che debba essere sottoposta a custodia cautelare in carcere un'indagata in posizione chiaramente marginale rispetto a quella del marito, laddove e' invece precluso ex lege ogni accertamento delle condizioni di questi, pure chiaramente portatore di esigenze terapeutiche sostanzialmente non dissimili da quelle di costei, ma dotato di una pericolosita' sociale incomparabilmente maggiore. Un secondo profilo di incostituzionalita' della norma e' ravvisabile in rapporto all'art. 2 della Costituzione nella parte in cui riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, tra i quali deve essere sicuramente ricompreso anche quello di essere tutelato di fronte a chi compia atti di aggressione criminale a danno dei propri interessi e diritti. L'art. 286- bis del c.p.p., nella parte che qui si denuncia, comporta invece un'inesplicabile compressione delle esigenze di tutela della collettivita' che viene privata dell'unico strumento cautelare idoneo ad impedire la protrazione o la ripresa dell'attivita' criminosa da parte di una categoria di soggetti (affetti da A.I.D.S. conclamata o da deficit immunitario grave) a favore della quale si e' in certo modo ritagliata una sostanziale "licenza di delinquere". Vero e' che deve essere riconosciuto al legislatore uno spazio di discrezionalita' nel contemperare tra loro il diritto alla salute degli indagati con il diritto alla sicurezza del resto dei consociati: ma tale spazio di discrezionalita' in tanto puo' essere ritenuto legittimo in quanto esercitato in forme comprensibili e razionalmente giustificabili. Il che non e' quanto avvenuto nel caso concreto, posto che la scelta di campo operata dalla norma in favore di uno solo degli interessi in gioco trascura irragionevolmente di considerare che soggetti in condizioni sanitarie quali quelle considerate dall'art. 286- bis possono essere tuttavia, al di la' di una fictio legis che ha nella sostanza il valore di un esercizio di wishful thinking (credere vero qualcosa perche' lo si desidera intensamente), ancora capaci di ledere gravemente i diritti della collettivita' e dei singoli, senza che per altro verso sussista necessariamente un'impossibilita' al loro trattamento in ambiente carcerario. Impedire al giudice di valutare in concreto la sussistenza delle circostanze suaccennate ai fini delle decisioni sullo stato di liberta' degli indagati significa dunque far scontare dalla collettivita' il peso di una presunzione legislativa che, nella sua insindacabilita' e assolutezza, appare lontana dalla verita' delle cose.