IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA
    Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento  relativo  a
 Cervati  Corrado  nato  a  Verolanuova  il 3 aprile 1960, residente a
 Verolanuova, via Dante n. 3, avente per oggetto: estinzione  pena  in
 relazione  a  sentenza  3  maggio  1991  corte  appello  Brescia  per
 detenzione  di  stupefacenti  (n.  296/91  R.E.  procura   Repubblica
 Brescia);
                         M O T I V A Z I O N E
    1.  -  Cervati  Corrado  e'  stato  condannato  con  sentenza,  in
 giudicato, del giorno 3 maggio 1991 emessa dalla corte  d'appello  di
 Brescia  il  3  maggio  1991  per  il  reato di cui all'art. 71 legge
 stupefacenti alla pena della reclusione per un  anno  e  sei  mesi  e
 della multa di L. 10.000.000.
    Con   ordinanza  in  data  15  settembre  1992  del  tribunale  di
 sorveglianza di Brescia, e' stato  ammesso  alla  misura  alternativa
 dell'affidamento  in prova al servizio sociale, ai sensi dell'art. 47
 dell'ordinamento penitenziario.
    La prova si e' svolta regolarmente e l'affidato  e'  stato  citato
 all'odierna  udienza per la decisione di questo tribunale, competente
 a stabilire se la pena e gli effetti penali della condanna si debbano
 ritenere estinti, ai sensi dell'art. 47, ultimo comma, succitato.
    La citazione e' avvenuta secondo la procedura di cui all'art.  666
 del c.p.p. e non de plano, a seguito della sentenza n. 53/1993 emessa
 dalla   Corte   costituzionale,  su  questione  sollevata  da  questo
 tribunale, che ha dichiarato incostituzionale l'art. 236 della  disp.
 att.  al  c.p.p.  nella  parte  in cui non prevede il ricorso al rito
 formale.
    All'odierna  udienza,  la  difesa  ha  chiesto  che  il  tribunale
 dichiari  estinta  anche la pena della multa. Il procuratore generale
 invece si e' opposto sostenendo  che  l'esito  della  prova  estingue
 soltanto  la  pena  detentiva  e  cio'  in forza della giurisprudenza
 prevalente dei tribunali di sorveglianza e della Corte di  cassazione
 (da ultimo sezione prima in data 24 settembre 1993, n. 3588).
    Per il vero, la giurisprudenza di questo tribunale e' sempre stata
 difforme:  nelle ordinanze di estinzione si e' sempre fatto esplicito
 riferimento anche all'estinzione della pena pecuniaria.
    Di fronte, pero', alla questione ormai formalmente  sollevata;  al
 contrasto  ormai insanabile che ne deriva; alla superfluidita' di una
 pronuncia che troverebbe  il  procuratore  generale  contrario  e  lo
 determinerebbe  ad inoltrare un ricorso per cassazione, con risultato
 favorevole scontato,  il  collegio  ritiene  d'ufficio  di  sollevare
 questione di costituzionalita' e di investire la Corte costituzionale
 su  tale  punto che e' qualificante e comporta conseguenze di estrema
 rilevanza sulla interpretazione, sulla applicazione, sulla valenza  e
 pregnanza della riforma penitenziaria.
    Qui  sono  in gioco valori fondamentali: o si crede veramente alla
 riforma e allora bisogna trarne tutte le conseguenze; o non si  crede
 e  allora  occorre  affermarlo  ma  con  chiarezza,  uscendo  da ogni
 equivoco.
    2. - Occorre  un'analisi  che  parta  da  lontano  e  precisamente
 dall'impianto  del  codice  penale Rocco che, per alcune categorie di
 reati (in particolare quelli contro il  patrimonio),  ha  previsto  e
 prevede  la  punizione  mediante due pene congiunte: una detentiva ed
 una pecuniaria (denominata multa nel  caso  di  delitto);  per  altre
 categorie  le  dette  pene  sono  applicate disgiuntamente, per altre
 alternativamente.
    Le dette pene sono "principali" e, nel caso di specie, il  giudice
 e'  obbligato ad applicarle entrambe. In particolare, poi, il giudice
 puo' applicare anche la multa,  qualora  la  norma  preveda  la  sola
 reclusione,  nel caso che il reato sia stato determinato da motivi di
 lucro (art. 24 del c.p.). Tale norma, tuttora in  vigore,  fu  varata
 allo  scopo  di  conferire  alla pena una "piu' vigorosa idoneita' ad
 attuare  i  suoi  fini",  perche'  assume  un  particolare  grado  di
 afflittivita', utile per una "piu' adeguata prevenzione individuale e
 generale".
    E'  questo  un  argomento forte, per confermare la regola generale
 del codice penale Rocco, secondo cui le pene principali  tutte  hanno
 pari dignita' ed efficacia e perseguono tutte gli identici scopi, che
 sono  ormai stati piu' volte riaffermati di recente anche dalla Corte
 costituzionale (sentenze n. 313 del 2 luglio 1990 e  n.  306  dell'11
 giugno 1993).
    3.  -  La pena pecuniaria, erede della antica "confisca", ha avuto
 nella sua storia alti e bassi e non sempre e' stata vista con  favore
 (si  pensi  per  es.  alla  costituzione  criminale  di  Carlo  V  ed
 all'editto di Giuseppe II), ma la scelta di Rocco e'  stata  precisa,
 e'  tuttora  valida  ed  applicata anche nelle leggi piu' recenti (in
 particolare nel t.u. n. 309/1990 in materia di stupefacenti  le  pene
 pecuniarie  sono  aggiunte  a  quelle  detentive,  a causa del forte,
 illecito lucro che caratterizza tali reati).
    La  commissione Pagliaro, nell'art. 37, secondo comma, della bozza
 del nuovo codice penale ha scritto che si deve prevedere l'esclusione
 assoluta della comminatoria congiunta di pene detentive e pecuniarie.
    L'importante decisione,  che  riassume  gli  indirizzi  prevalenti
 della  attuale  dottrina penologica, non puo' passare sotto silenzio.
 La  commistione  derivante  dalla  comminatorie  congiunte  di   pene
 principali  detentive  e  non,  ha  comportato  notevoli  intralci  e
 perplessita'; ha reso ancora  piu'  ardua  l'applicazione  dei  nuovi
 istituti,  come appare - del resto - proprio nella fattispecie qui in
 esame.
    Di conseguenza, il futuro affidamento, anche se  sara'  di  natura
 "giudiziaria"   e   non   penitenziaria,   continuera'   a   produrre
 l'estinzione del reato (ed a fortiori anche della pena e degli  altri
 effetti  penali),  ma  si  riferira'  ad  una  sola  pena principale,
 detentiva o non detentiva (le pene per i delitti saranno l'ergastolo,
 la  detenzione  e  la  multa,  tra   di   loro   mai   congiuntamente
 applicabili).
    La  scelta  operata da Rocco fa si che tutte le pene principali, e
 quindi anche quelle pecuniarie, hanno carattere  di  vere  e  proprie
 pene,  ancorche'  determinino  un  credito  per  lo  Stato  (peraltro
 convertibile in caso di insolvenza).
    Esse soggiacciono in tal modo ai criteri tutti inerenti alle  pene
 e non ai crediti meramente finanziari.
    La  multa e' pertanto la pena pecuniaria destinata, attualmente in
 via disgiuntiva o congiuntiva, ai delitti, come risulta dall'art.  17
 del c.p., una norma-base dell'ordinamento penale attuale.
    4.  -  Non  e'  il  caso  di  insistere  sulla intima correlazione
 esistente tra il reato e  la  pena,  conseguenza  ineluttabile  della
 dichiarazione   di  responsabilita',  cui  neppure  il  giudice  puo'
 sottrarsi, potendo soltanto  quantificarla  tra  il  limite  edittale
 minimo e quello massimo.
    Da  cio' consegue che, nel sistema, una volta venuto meno il reato
 per "estinzione", non  puo'  piu'  sussistere  la  pena,  sia  quella
 principale che quella, eventuale, accessoria.
    D'altra  parte,  il codice prevede anche delle cause di estinzione
 della sola pena, che qui non interessano, perche'  l'art.  47  ultimo
 comma  precisa  che  l'esito  della  prova  estingue il reato ed ogni
 effetto penale della condanna, terminologia ampia che si ricollega  a
 quella  usata  per  l'istituto della riabilitazione dall'art. 178 del
 c.p.
    Tale istituto e' inserito tra le cause di  estinzione  della  pena
 (libro primo del c.p., capo secondo del titolo sesto) per il semplice
 fatto  che  la  riabilitazione giudiziale (quella di diritto e' stata
 abbandonata da Rocco) puo' intervenire soltanto passati almeno cinque
 anni dal giorno in cui la pena e' stata estinta per espiazione o  per
 altra causa.
    In  effetti,  la peculiarita' dell'istituto consiste nel fatto che
 l'effetto estintivo riguarda sopratutto  gli  "effetti  penali  della
 condanna".
    Al  riguardo  l'autorevole  dottrina  del tempo insegna che con la
 riabilitazione lo Stato  rinuncia  alla  potesta'  di  mantenere  una
 persona  soggetta  alle pene accessorie ed agli "effetti penali della
 condanna".
    E'   pertanto  una  causa  di  estinzione  dello  stesso  rapporto
 punitivo, reintegra il soggetto nella capacita' giuridica  perduta  a
 seguito della condanna e restituisce i diritti soggettivi originari.
    5.  -  Comunque  e'  certo  che  l'esito  favorevole  della  prova
 nell'affidamento  estingue  il   "reato"   e   cio'   per   esplicita
 disposizione  di  legge  che  ha  in  tal  modo  aggiunto altra causa
 estintiva del reato a quella gia' prevista dal codice Rocco.
    Il reato, dice la relazione al  c.p.,  non  e'  una  mera  entita'
 giuridica;  e'  anche un fatto storico che come tale e' produttivo di
 quella conseguenza giuridica che e' la pena.
    Se interviene una causa che estingue l'efficienza giuridico-penale
 del fatto, questo cessa di essere reato, che e'  estinto:  sopravvive
 soltanto  come  fatto  giuridico "per altre conseguenze di diritto" e
 come "fatto storico". Viene  cosi'  a  "cessare  la  possibilita'  di
 realizzare la pretesa punitiva dello Stato".
    La  relazione ministeriale del tempo rincara la dose: "La causa di
 estinzione del diritto soggettivo di punire non si limita a  spiegare
 la  sua  efficacia  sulle  pene  e  sugli effetti penali, ma tende ad
 effetti piu' profondi e radicali, ossia far cessare  ..  il  rapporto
 originario  nascente  dal  reato. E se il legislatore lascia talvolta
 sussistere talune conseguenze penali, cio' costituisce una deviazione
 eccezionale .. che non intacca essenzialmente ..  l'affermazione  che
 la esistenza del reato rimane compromessa dalla causa estintiva".
    Aggiunge  e  precisa  il  collegio  che  con  gli  istituti  della
 riabilitazione e dell'affidamento in prova, si cancellano  anche  gli
 effetti penali di cui sopra si e' detto.
    Una   prima   conclusione   e'  cosi'  ovvia:  nessuna  pena  puo'
 sopravvivere all'estinzione del reato  e,  se  l'estinzione  riguarda
 anche  gli  effetti  penali  della  condanna,  a maggior ragione tale
 incompatibilita' emerge in modo evidente.
    6. - L'esame dell'istituto dell'affidamento in prova, porta a  sua
 volta alle stesse conclusioni.
    Tale  istituto costituisce l'essenza stessa, il punto qualificante
 della  riforma  del  1975  e  ne  costituisce  quello  che  e'  stato
 felicemente chiamato il "fiore all'occhiello".
    Come  tale  deve  essere  considerato:  se  cade l'affidamento, la
 riforma ne riceve una ferita mortale.
    Infatti, premesso che - come ha ormai da tempo affermato anche  la
 Corte  -  l'affidamento  e' un modo particolare di espiare la pena ad
 ogni  effetto,  fuori  dal  carcere,  appare  evidente   dai   lavori
 parlamentari  e  da  tutta  l'elaborazione dottrinale successiva, che
 l'istituto  de  quo  realizza  nel  modo  piu'  alto   la   finalita'
 rieducativa  della  pena,  voluta  dall'art.  27  della Costituzione,
 ribadita dall'art. 1 della legge 26 luglio 1975, n. 354.
    Tale caratteristica appare in tutta la sua rilevanza  specialmente
 dopo  la riforma dell'istituto attuata nel 1986 con la riforma che ha
 accentuato la flessibilita' e la premialita' della  pena,  attraverso
 la  massima  responsabilizzazione del condannato e l'incentivazione a
 porre in atto soltanto condotte coerenti con la finalita' rieducativa
 della pena e quindi rispettose delle prescrizioni imposte (prima  fra
 tutte  quelle  di  honeste vivere, vale a dire di non commettere piu'
 illeciti di natura penale).
    7. - La Corte costituzionale, dal suo canto, ha gia' affrontato il
 problema sotto vari aspetti qui rilevanti.
    Con  la  sentenza  n.  185 del 13 giugno 1985 ha stabilito che, in
 caso di annullamento del provvedimento di ammissione  all'affidamento
 (vale  a  dire  di  revoca  "senza  colpa"),  il  periodo  vale  come
 espiazione  della  pena.  In   altri   termini   non   e'   possibile
 l'equiparazione  tra il venir meno della prova per cause indipendenti
 dalla volonta' del condannato e l'esito negativo della prova stessa.
    L'affidamento pertanto non e' una misura alternativa alla pena, ma
 una pena essa stessa, ha detto la Corte, che consiste nel  sostituire
 un trattamento inframurale con altro extramurale.
    La  sentenza  n.  312  del  6 dicembre 1985 ha ribadito i concetti
 suddetti  con  riferimento  alla  sopravvenienza  di   altri   titoli
 esecutivi.
    Con  la fondamentale decisione n. 343 del 22 ottobre 1987 la Corte
 ha dichiarato la parziale illegittimita' dell'art. 47 nella parte  in
 cui  non  precisava che il tribunale di sorveglianza avesse il potere
 di stabilire, in caso di revoca, se parte del periodo di  affidamento
 potesse  essere  considerato  valido ai fini espiativi, in quanto non
 interessato da motivi di revoca per negativa condotta.
    8. - La dottrina non ha mancato di  sottolineare  che  l'art.  47,
 dodicesimo comma, ha introdotto nel nostro sistema una nuova causa di
 estinzione della pena avente una portata indiscutibilmente ampia, che
 si  estende  alle  pene accessorie ed a tutti gli effetti penali; che
 impedisce la  contestazione  della  recidiva  e  la  declaratoria  di
 abitualita'.  Rimane  soltanto  l'iscrizione della condanna (peraltro
 non indicata nel certificato penale spedito a richiesta di privati).
    Sulla  natura  dell'"esito  positivo"  della  prova   si   possono
 identificare  due  tesi.  La  prima pone l'accento sull'accertamento,
 della  avvenuta  risocializzazione  del  condannato,  la  seconda  si
 accontenta  della  mera osservanza delle prescrizioni e del passaggio
 del tempo.
    In entrambe le ipotesi, peraltro,  una  volta  che  il  tribunale,
 sulla  base  degli  accertamenti  compiuti,  emette  il  giudizio  di
 "meritevolezza", certifica e sigilla in  modo  definitivo  l'avvenuto
 recupero  del condannato, che viene cosi' reimesso nella societa', in
 modo "forte" cancellando di fatto la sentenza di condanna.  Non  vede
 il tribunale come possa sopravvivere a tutto cio' una pena pecuniaria
 che,  se non pagata anche senza colpa del condannato (per es. a causa
 di oggettiva, incolpevole poverta'), finisce per  tramutarsi  in  una
 sanzione  penale anche se non detentiva, ma comunque tale e dotata di
 una afflittivita' non  trascurabile  (limitazioni  alla  liberta'  di
 movimento  nel  territorio,  impossibilita'  di pilotare autoveicoli,
 obbligo di presentarsi  ogni  giorno  al  controllo  da  parte  delle
 FF.OO., ecc.).
    9.  -  Ad avviso del collegio, la premialita' e' ormai un fenomeno
 presente in  modo  pesante  nel  diritto  sostanziale  ed  in  quello
 processuale e si pone come sanzione positiva che, concretandosi in un
 vantaggio,  funge  al  tempo  stesso  da premio e da incentivo per la
 realizzazione di certe condotte.
    L'affidamento  in  prova,  dal  suo  canto,  e'  stata  la   prima
 attuazione  di  tale principio ed e' stato posto nel 1975 come misura
 penitenziaria, in una sede privilegiata  ed  importante,  perche'  si
 trattava  di  "catturare"  sopra  ed  innanzi  tutto  l'adesione  del
 detenuto a quel "trattamento rieducativo" che e' la vera novita'  del
 sistema  attuante  l'art.  27 della Costituzione, in quanto supera la
 logica  clemenziale  tradizionale  propria  di  istituti   quali   la
 sospensione condizionale, della pena, la liberazione condizionale, la
 grazia.
    Non  ostante cio', e' evidente che l'affidamento ormai sta stretto
 nel penitenziario, tanto e' vero che ormai da un lato puo'  concedere
 anche  a  chi non ha mai conosciuto il carcere, dall'altro si propone
 (vedi la bozza Pagliaro del nuovo codice penale) di  trasformarlo  da
 misura "penitenziaria" a misura "giudiziaria", affidandola cioe' allo
 stesso giudice della cognizione.
    Anche  in siffatta prospettiva, e' evidente che la misura non puo'
 che comprendere "tutte" le pene e "tutti" gli  effetti  penali  della
 sentenza   di   condanna.   Diversamente   sarebbe   come  sospendere
 condizionalmente, con la stessa condanna, la sola pena detentiva.
    D'altra parte, il capo sesto della legge penitenziaria era  ed  e'
 intitolato  "misure  alternative  alla detenzione" ma tale dizione e'
 ormai superata, come si e' detto sopra e come la Corte costituzionale
 ha riconosciuto.
    10. - Il  primo  comma  dell'art.  47,  inoltre,  specifica  quale
 presupposto  "se  la  pena detentiva inflitta non supera gli anni tre
 ..", ma l'articolo tutto non accenna mai,  e  neppure  esplicitamente
 esclude,  la  pena  pecuniaria  principale che - di conseguenza - non
 gioca alcuna rilevanza ai fini della ammissibilita' e viene travolta,
 invece, dall'esito della prova come dice l'art. 47, ultimo comma, che
 commina l'estinzione "della pena" tout court (e non  solo  di  quella
 detentiva).
    Tali  osservazioni  sono  giustificate in linea storica, dal fatto
 che l'affidamento nel 1975 e' stato introdotto nel penitenziario, con
 riguardo sopratutto alla pena detentiva, il che ha posto  in  secondo
 piano ogni altra pena, pur principale, non detentiva.
    Non  puo',  pertanto,  il  collegio  condividere  l'assunto  della
 Cassazione  secondo  cui  l'art.  47  deve  essere  interpretato  con
 esclusivo  riferimento  alla  pena  detentiva e la pena pecuniaria e'
 "strutturalmente e funzionalmente diversa".
    Cio' e' vero, ma e'  pur  sempre  pena  principale,  comminata  ed
 applicata per legge in modo congiunto, per lo stesso reato.
    Ugualmente  incomprensibile  e'  la pretesa di ritenere la dizione
 "ogni altro  effetto  penale"  di  cui  all'art.  47,  ultimo  comma,
 dell'ordinamento    penitenziario   1975   dall'identica   (si   noti
 "identica") dizione usata dal codice Rocco del 1931 nel  primo  comma
 dell'art. 178 del c.p.
    Fino  a  prova  contraria, tutta la dottrina fin dalle origini, ha
 considerato che gli effetti penali della sentenza  di  condanna  sono
 sempre gli stessi e tassativi.
    11.  - Infine, il collegio non ha dubbi nel concordare che in tema
 di liberazione condizionale, l'art. 177, secondo comma, del  c.p.  fa
 riferimento  alla  sola  pena  detentiva  che "rimane estinta". Ma il
 richiamo non e' conferente, in quanto  e'  assolutamente  impossibile
 porre  sullo stesso piano due istituti (la liberazione condizionale e
 l'affidamento) che sono  profondamente  diversi,  che  hanno  origini
 storiche  non  coincidenti  e  finalita'  altrettanto  diverse. Basti
 pensare che l'art. 176  del  c.p.  esige  il  "sicuro  ravvedimento",
 concetto estraneo all'affidamento.
    Confondere  i  due  istituti  significa compiere un passo indietro
 rispetto alla riforma penitenziaria del 1975 e ripudiare le conquiste
 di civilta' e di liberta' degli ultimi trenta anni.
    Infatti, la relazione  al  reg.  penit.  del  1931  affermava  che
 "l'esecuzione  delle  lunghe  pene  puo'  avere  per ultimo stadio la
 liberazione condizionale", ritenuto dalla dottrina dominante come  un
 "riacquisto   condizionato  e  limitato  dalla  liberta'  personale",
 dottrina che criticava l'inserimento di tale istituto  tra  le  cause
 estintive   della   pena,   perche'  in  effetti  si  trattava  della
 "regolazione generale  della  reclusione",  che  non  estingueva  ne'
 modificava  l'essenza  e  la  durata  della  pena. Era in effetti una
 rinuncia  condizionata  dello  Stato   "a   completare   l'esecuzione
 carceraria  della  pena"  sostituendo  tale  periodo  finale  con  la
 liberta' vigilata.
    Lo stato giuridico di un liberato era quello di un condannato  che
 in parte doveva ancora scontare la pena irrevocabilmente inflittagli.
    Il  suo  stato  giuridico rimaneva immutato, perche' si modificava
 soltanto il "modo di esecuzione della  pena",  mediante  un  atto  di
 amministrazione penitenziaria.
    In  altri  termini  si  considerava la liberazione condizionale un
 grado di esecuzione della pena, esecuzione attenuata nell'ultima fase
 (la c.d. teoria del congedo).
    La distanza tra i due istituti  appare  in  tal  modo  incolmabile
 anche  alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 282 del
 25 maggio 1989 che pur ha giustamente  visto  la  liberta'  vigilata,
 conseguente alla concessione della liberazione condizionale, come una
 modalita' di espiazione della pena fuori dall'istituto.
    La  Corte  ha  dichiarato illegittimo l'art. 177, primo comma, del
 c.p. nella parte in  cui,  in  caso  di  revoca  del  beneficio,  non
 consentiva  al  tribunale  di determinare la pena detentiva ancora da
 scontare.
    Nulla la Corte ha detto circa la sorte della pena  pecuniaria,  se
 congiuntamente   applicata,  lasciando  intendere  che  il  beneficio
 suddetto  era  da  considerare  esclusivamente   legato   alla   pena
 detentiva.
    La  Corte  ha  applicato,  peraltro  relativamente ai soli effetti
 della revoca, gli stessi principi affermati in tema di affidamento in
 prova con la decisione n. 343 del 29 ottobre 1987. Cio' non significa
 pero' che le due misure possono  essere  confuse  ed  abbiano  eguale
 natura ed ambito di applicazione.
    Siffatta  pretesa  sarebbe antistorica e contraria alla lettera ed
 alla ratio della legge.
    In particolare, nel caso in esame, non di  revoca  si  tratta,  ma
 esattamente  dell'opposta soluzione, quella fisiologica, che porta il
 tribunale di sorveglianza a dichiarare l'estinzione della pena (tutta
 nel caso di affidamento, soltanto quella  detentiva  nel  caso  della
 condizionale).