IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA
    Ha  emesso  la seguente ordinanza nel procedimento di sorveglianza
 relativo a Favia Matteo, nato ad Acquaviva delle Fonti il  18  luglio
 1952, avente ad oggetto: affidamento ss./semiliberta'.
                             O S S E R V A
    Favia  Matteo,  come  sopra generalizzato, condannato con sentenza
 della corte di appello di Bari del 20 dicembre 1991 a due anni e  sei
 mesi  di  reclusione  per associazione a delinquere di stampo mafioso
 nonche' detenzione illecita di sostanza stupefacente,  ha  presentato
 istanza a questo t.s. per essere affidato in prova a servizio sociale
 o,  in  alternativa  per essere ammesso alla semiliberta'. Poiche' la
 condanna attiene a reato c.d. preclusivo  ai  sensi  dell'art.  4-bis
 della  legge  n.  354/1975,  cosi' come novellato dall'art. 15, primo
 comma, della legge n. 356/1992, non risultando essere state applicate
 al Favia neppure le circostanze  attenuanti  esplicitamente  previste
 dalla  norma  (per cui sarebbe comunque occorsa la collaborazione con
 la giustizia, se pure "oggettivamente irrilevante"), si e'  acquisita
 notizia  sulla  eventuale collaborazione prestata alla giustizia (che
 avrebbe  dovuto,  nel  suo  caso,  invece,   essere   rilevante)   e,
 ovviamente,  sull'attivita'  dei  collegamenti  con  la  criminalita'
 organizzata (requisito  indispensabile  comunque,  per  poter  fruire
 della  misura).  Quanto alla collaborazione, non risulta che il Favia
 l'abbia mai prestata perche' (v. nota inviata dalla proc. gen. Bari e
 sottoscritta dal consigliere estensore della sentenza) ha "assunto un
 comportamento  processuale   costantemente   negatorio"   della   sua
 responsabilita'  (v.  anche dichiarazioni dello stesso condannato, in
 atti). Quanto alla attualita' dei collegamenti, vi sono  due  notizie
 contrastanti:  la  prima, piuttosto vaga e imprecisa sui tempi, della
 prefettura di Bari che, evidentemente, basandosi solo sulla condanna,
 da'  il  Favia  per  facente  parte   dell'organizzazione   criminale
 denominata "La Rosa" - quella che, per l'appunto colpita dalla citata
 sentenza  della  corte  di  appello  di  Bari,  dovrebbe essere stata
 smantellata -; la seconda, dei carabinieri  di  Acquaviva  (luogo  di
 nascita  e  residenza  dell'istante),  che  esclude,  invece, proprio
 quanto interessa, cioe' il collegamento attuale con  la  criminalita'
 organizzata,  molto piu' attendibile perche' motivata, probabilmente,
 dal comportamento tenuto dal reo - che collabora con la moglie  nella
 conduzione  di un'azienda di mobili, e si occupa di due figli gemelli
 nati prematuramente - successivamente  alla  condanna.  Il  tribunale
 ritiene,  per l'appunto, degna di considerazione quest'ultima notizia
 dal momento che il Favia, vivendo e operando in  Acquaviva,  anche  a
 causa  della  condanna riportata e' certamente sottoposto dall'Arma a
 continua sorveglianza.   Dati anche  gli  scarsi  precedenti  penali,
 l'attivita'  commerciale  avviata e la complessa situazione familiare
 appare molto verosimile che  l'istante,  contrariamente  all'opinione
 del  prefetto,  non  abbia  piu'  mantenuto  alcun  collegamento  con
 l'organizzazione criminale. Del  resto  la  notizia  pervenuta  dalla
 prefettura  pecca  di  eccessiva  cautela  e appare piuttosto datata,
 atteso che si riporta in modo pedissequo alla situazione per la quale
 l'istante e' stato gia' definitivamente condannato nel 1991.
    La  mancanza  di  collegamenti   attuali   con   la   criminalita'
 organizzata,  quindi,  unita  alla  particolare  tenuita' della pena,
 elevata di sei mesi per aver il giudice ritenuto la continuazione con
 il reato di detenzione  di  sostanza  stupefacente,  la  levita'  dei
 precedenti penali (emissione di assegni a vuoto) fa ritenere a questo
 t.s.  ingiustificata la inammissibilita' della concessione, in via di
 principio, della misura alternativa al caso in esame, a  causa  delle
 preclusioni  statuite dall'art. 4-bis, primo comma, l.p. - introdotto
 (con l'art. 15 del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito  in  legge
 n.  356  del  7 agosto 1992) in un momento successivo alla condanna -
 per cui,  data  la  rilevanza  della  applicazione  della  norma  nel
 procedimento   de  quo,  questo  giudice  reputa  non  manifestamente
 infondate le questioni di illegittimita'  costituzionale  del  citato
 articolo, proposte dall'istante e ritenute anche dal giudicante sotto
 numerosi profili, che si vanno ad elencare.
     a) Contrasto dell'art. 4-bis, primo comma, secondo periodo, della
 legge n. 354/1975 con il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3
 della Costituzione.
    La  norma sospettata di incostituzionalita' riserva un trattamento
 difforme a situazioni che sono  analoghe  laddove  stabilisce  che  i
 benefici possono essere concessi anche a coloro la cui collaborazione
 sia   stata  oggettivamente  irrilevante  -  sempre  che  si  possano
 escludere collegamenti attuali  con  la  criminalita'  organizzata  -
 purche' siano state riconosciute circostanze attenuanti previste agli
 artt.  62,  n.  6,  114  o 116, del c.p., e non anche a quei soggetti
 condannati a una pena particolarmente bassa, come, per  l'appunto  il
 Favia,  nei  riguardi  dei  quali,  mediante l'applicazine di diverse
 circostanze  attenuanti,  si   possano   individuare   partecipazioni
 all'associazione  criminosa  di  scarsissima  entita'  o estremamente
 marginali, comunque tali da non consentire,  anche  in  questo  caso,
 alcuna  possibilita'  di  collaborazione,  a  causa della irrilevanza
 della posizione del soggetto nell'organizzazione.
    Ancora piu' iniqua appare  la  disposizione  quando  consente,  se
 ricorra  la  circostanza  attenuante  dell'art.  62  del  c.p., n. 6,
 rapportabile, si pensi, alla mera situazione economica personale  del
 reo,  che criminali incalliti, - con certificati penali costellati di
 reati gravissimi (e non di sole emissioni di  assegni  a  vuoto)  nei
 quali   e'  abbastanza  probabile  intuire  un  particolare  tipo  di
 subcultura criminale (che comunque potrebbe continuare  a  mantenerli
 in logiche devianti) solo per aver risarcito il danno (magari proprio
 in  virtu' di arricchimenti illeciti derivanti dallo stesso reato) -,
 possano proporre  domande  astrattamente  ammissibili.  Un  soggetto,
 invece,   che,   per   i   suoi  precedenti,  appare  di  irrilevante
 pericolosita'  sociale,  puo'  vedere   preclusa   sul   nascere   la
 possibilita'  di  ottenere  la misura alternativa solo per non essere
 (stato) in condizioni di appagare  le  pretese  derivanti  dal  grave
 danno  cagionato dalla potente organizzazione, magari proprio a causa
 della  sua  posizione,  all'interno  della  stessa,   ininfluente   o
 meramente  occasionale  (che  non gli abbia permesso l'accumulo degli
 idonei mezzi economici). Sarebbe quindi opportuno, per rispettare  il
 principio  di uguaglianza di fatto, che fosse data la possibilita' al
 giudice del trattamento penitenziario -  sempre  che  manchino,  come
 nella   specie,   collegamenti   attuali   dell'interessato   con  la
 criminalita' organizzata - di valutare la  posizione  del  reo  sotto
 ogni  angolazione,  soprattutto,  si  ripete,  riguardo a quelle pene
 particolarmente lievi - addirittura, come nella specie, inferiori  al
 minimo  edittale  - che lascino trasparire situazioni al limite delle
 attenuanti degli artt. 114 e 116 del c.p., anche quando  non  vi  sia
 stata  alcuna  collaborazione  con  la giustizia, ne' alcuna forma di
 risarcimento del danno. La stessa corte, sia pure  in  modo  sfumato,
 nella   sentenza   n.   306/1993,   penultimo  alinea  del  paragrafo
 undicesimo, ha  prospettato  una  possibilita'  nel  senso  indicato,
 evidenziando  come  nessuna  delle ordinanze di rimessione avesse, in
 quella occasione, mosso specifiche censure in tal senso.
     b) Contrassto dell'art. 4-bis, primo comma, primo periodo,  della
 legge  n.  354/1975  con  il diritto di difesa stabilito nell'art. 24
 della  Costituzione,  nonche'  dei   principii   di   uguaglianza   e
 ragionevolezza stabiliti nell'art. 3 della Costituzione.
    La  previsione  dell'art.  4-bis,  primo comma, primo periodo, nel
 consentire l'ammissibilita' dei benefici solo per coloro che  abbiano
 collaborato  o  collaborino con la giustizia, intacca il principio di
 difesa in  giudizio,  costringendo  anche  l'imputato  innocente  che
 intende  tutelare  il suo diritto al riconoscimento della verita', in
 fase cognitoria, a funambolismi difensivi nella preoccupazione di  un
 possibile  errore  giudiziario,  che  possa dichiararlo colpevole. E'
 certamento vero che il passaggio in giudicato della  sentenza,  salvo
 il  procedimento  di  revisione,  conferisce  certezza giuridica alle
 situazioni dedotte nel processo, ma e' anche vero che -  poiche'  non
 sempre  e'  possibile di fatto accedere al processo di revisione - il
 condannato innocente impossibilitato  a  prestare  la  collaborazione
 necessaria  al  futuro  ottenimento di benefici penitenziari, viene a
 trovarsi doppiamente  e  irragionevolmente  punito  rispetto  a  chi,
 realmente criminale, si sia offerto di collaborare, nella prospettiva
 di  tutti  i  numerosi vantaggi che la legge gli concede. In pratica,
 l'innocente, nel giudizio di  cognizione,  dovrebbe,  per  premunirsi
 dall'incorrere   nei   rigori   della   disposizione   penitenziaria,
 dichiararsi colpevole, intralciando  il  cammino  della  giustizia  e
 rischiando   -   con  il  depistaggio  dell'indagine  a  mezzo  false
 collaborazioni -  di  incorrere  nel  reato  di  autocalunnia,  nella
 prospettiva  di  poter  ottenere, in futuro, se non il riconoscimento
 della sua innocenza, almeno  la  liberta',  intera  o  parziale,  con
 l'ammissione alle misure alternative alla detenzione.
    La situazione creata dall'art. 4-bis appare, oltre che sospetta di
 incostituzionalita',   una   vera   assurdita'   giuridica,   perche'
 condiziona irragionevolmente le scelte difensive,  imponendo  di  non
 tutelare   i   diritti  attuali  nel  giudizio  di  cognizione,  gia'
 concatenandoli a quelli che insorgono nella fase esecutiva: in  altre
 parole, l'innocente sa che, in caso di errore giudiziario, non potra'
 neppure  beneficiare  "mai"  di  misure  alternative  e  permessi,  a
 differenza del vero reo.
    Nel caso in esame, la situazione e' ancora piu' drammatica perche'
 la norma, intervenendo con  efficacia  retroattiva,  ha  precluso  al
 Favia' l'opzione difensiva sopra indicata, pertanto vi e' anche
     c)  Contrasto  dell'art.  4-bis,  primo  comma,  della  legge  n.
 354/1975 con il principio  di  irretroattivita'  della  legge  penale
 sancito dall'art. 25 della Costituzione.
    Non  vi  sono  dubbi  che  le norme che disciplinano l'ordinamento
 penitenziario abbiano natura  sostanziale.  Nel  momento  in  cui  il
 codice penale stabilisce il tipo di punizione per un qualsiasi reato,
 infatti,  non  determina, se non in modo generale, il contenuto della
 pena. Nessuna norma, p. es., "descrive" che cosa debba intendersi per
 reclusione, e dal codice sappiamo solo che questa e' la  sanzione  di
 tipo  restrittivo  prevista  per  i  delitti:  nulla  ci  viene detto
 riguardo al suo contenuto, alla sua natura, in particolare,  in  cosa
 detta  pena  si  diversifichi  dall'arresto.  Ancora  maggiormente si
 rileva questa indeterminatezza se pensiamo alle due  specie  di  pena
 pecuniaria stabilite dal c.p. L'ordinamento penitenziario, invece, e'
 la  normativa  che  specifica il contenuto delle norme del c.p. sulle
 pene  quando,  p.  es.,  individua  le  condizioni   generali   della
 detenzione,  le  modalita'  del trattamento, il regime penitenziario,
 ecc. Anche le norme sulle misure alternative determinano il contenuto
 della  pena detentiva, e in particolare ne connotano l'afflittivita':
 si veda, per tutti l'art. 50 della legge n. 354/1975, quando consente
 al condannato  all'arresto  di  qualsiasi  durata  e  a  quello  alla
 reclusione per un massimo di sei mesi di espiare direttamente la pena
 in  semiliberta' senza averne scontato a regime pieno almeno la meta'
 (salvo che non vi siano di gia' gli esiti dell'osservazione  condotta
 in carcere).
    Va   poi   osservato   che,   per   essere   le   misure  previste
 dall'ordinamento  penitenziario  "alternative"  alla  detenzione,  ed
 essendo   questa,  nella  specie  della  reclusione  e  dell'arresto,
 disciplinata  da  norme  penali  sostanziali,  stessa  natura   hanno
 certamente le norme che regolano le pene alternative.
    Riconosciuta, percio', natura sostanziale alle dette disposizioni,
 integrative di quelle codicistiche, l'art. 4-bis (nel testo novellato
 dall'art.  15,  primo  comma,  della  legge n. 356/1992) non puo' non
 essere    sospettato    di    incostituzionalita'    quando    incide
 retroattivamente anche sulla liberta' personale di coloro che abbiano
 commesso  il reato prima della sua entrata in vigore, precludendo, in
 assenza di determinati  presupposti,  non  previsti  al  momento  del
 fatto, l'ammissione ai benefici di legge.
    Per  quanto  gia' esaminato al punto b), la norma assolve funzione
 preventiva perche', si ripete,  aggrava  la  posizione  esecutiva  di
 coloro  che, non solo sono riconosciuti responsabili dei reati di cui
 agli artt. 416-bis, 630 del c.p. e 74 del d.P.R. n. 309/1990, ma  non
 hanno  collaborato (anche involontariamente, per essere i fatti stati
 precedentemente acclarati) con la giustizia.  Questo  stato  di  cose
 deve  poter  essere  conoscibile, come tutte le norme penali, "prima"
 della consumazione del reato, secondo il disposto del  secondo  comma
 dell'art.  25  della  Costituzione, perche' rappresenta una ulteriore
 restrizione alla liberta' personale  oltre  che  un'altro  deterrente
 alla commissione del fatto.
    Nel  caso  di  specie,  poiche'  al momento della consumazione del
 reato  (1989),  non  era  necessario,  pr  l'ammissione  alla  misura
 alternativa  alcun  requisito particolare se non quelli relativi alla
 durata  della  pena,  alle  prospettive   di   reinserimento,   ecc.,
 disciplinati  espressamente  negli artt. 47 e ss. della l.p. e, tanto
 meno, era prevista la necessita' della collaborazione,  il  Favia  e'
 stato del tutto impossibilitato a effettuare scelte conseguenziali.
   La   previsione   legislativa   appare   ancora  piu'  incongrua  e
 irragionevole ove si pensi  che  altre  norme  aggravanti  il  regime
 penitenziario,  introdotte  con il d.l. 13 maggio 1991, n. 152 (art.
 30-ter, quarto comma, lettera c); 58-quater) sono state espressamente
 dichiarate     irretroattive     dal     legislatore      (disponendo
 l'applicabilita', con riguardo al giorno della commissione del reato,
 limitatamente  a  chi  abbia  commesso il fatto successivamente al 13
 maggio  1991)  il  quale  ha,  quindi,  con  questa   determinazione,
 implicitamente  riconosciuto la riferibilita' del contenuto dell'art.
 25   della   Costituzione   alle   disposizioni   che   regolamentano
 l'esecuzione della pena.
     d)  Contrasto  dell'art. 4-bis, primo comma, primo periodo, della
 legge n. 354/1975 con il principio per cui la pena deve tendere  alla
 rieducazione    del   condannato   stabilito   dall'art.   27   della
 Costituzione.
    La  norma  dell'art. 4-bis, primo comma, primo periodo, della l.p.
 snatura,  per  i  reati  in  essa  elencati  e  sopra  ricordati,  le
 disposizioni  contenute  nei successivi artt. 47 e ss. che riguardano
 le misure alternative, individuando come base del cammino rieducativo
 la  collaborazione  con  la  giustizia  e  la  mancanza  di   attuali
 collegamenti   con   la  criminalita'  organizzata.  La  disposizione
 prescinde, quindi  da  quale  che  sia  ulteriore  manifestazione  di
 reinserimento  nel  tessuto  sociale e di partecipazione all'opera di
 rieducazione che il reo abbia compiuto dopo la  condanna.  Mentre  la
 mancanza   di   attualita'   di   collegamenti  con  la  criminalita'
 organizzata e'  una  disposizione  tanto  congrua  -  perche'  indica
 effettivamente  la  volonta'  del  reo  di  allontanarsi  da  logiche
 devianti - da apparire addirittura superflua (perche' nessun  giudice
 ammetterebbe  ad  una  misura  alternativa un soggetto ancora a pieno
 titolo inserito in sodalizi criminosi),  decisamente  contrario  alla
 Costituzione  e'  il  requisito  della  collaborazione.  Anche  se il
 disposto dell'art. 27 parla solo di "tendenza" alla rieducazione  del
 condannato,  neppure  tale "modesta" esigenza viene salvaguardata per
 colui il quale abbia chiaramente manifestato, come il Favia, volonta'
 di recuperarsi, mantenendo per un lungo tempo  in  liberta'  regolare
 condotta,   lavorando,  badando  alla  famiglia,  perche'  sara'  poi
 costretto a sopportare,  senza  alcuna  speranza  di  ottenimento  di
 benefici  futuri,  una  detenzione  che  puo'  per  lui  essere  solo
 deleteria (specie se si tratti della prima che debba subire). In piu'
 v'e' da considerare che ai soggetti  non  collaboratori  e'  preclusa
 anche  l'esperienza  - riconosciuta, si badi, come una vera e propria
 parte  integrante  (art.  30-ter  della  l.p.,   terzo   comma)   del
 trattamento  rieducativo  -  dei permessi premio, sicche' l'eventuale
 beneficio in termini di  risocializzazione  che  il  condannato  (non
 collaboratore  di giustizia) per gli artt. 416-bis, 630 del c.p. e 74
 del d.P.R. n.  309/1990  tragga  dal  trattamento  penitenziario  non
 potrebbe arricchirsi, e nel contempo sperimentarsi, con quale che sia
 misura  in  esternato: questo, in chiaro contrasto con lo spirito del
 precetto costituzionale, che ha trovato dapprima  attuazione  con  la
 legge  n. 354/1975, e, successivamente, piu' ampio riconoscimento con
 la novella del 1986.
    Tutte le considerazioni anzidette non consentono  di  definire  il
 procedimento  n.  1193/93,  instaurato  da  Favia  Matteo  per essere
 ammesso all'affidamento ss/semiliberta', senza che siano  risolte  le
 questioni  di  costituzionalita'  sopra  elencate  che si reputano da
 questo t.s.,  per  tutte  le  ragioni  precedentemente  esposte,  non
 manifestamente  infondate in relazione al giudizio de quo agitur, che
 va,  pertanto  sospeso  in  attesa  della   decisione   della   Corte
 costituzionale alla quale si rimettono gli atti.