IL TRIBUNALE
    Premesso:
      che l'impugnazione proposta in via principale  verte  unicamente
 sulla  parziale riforma della sentenza emessa inter parte dal pretore
 di Lecco in funzione di giudice del lavoro sul  punto  diniego  della
 c.d.  cristallizzazione  alla data del 30 settembre 1983 dell'importo
 della pensione integrata al minimo;
      che tale diniego era motivato dal fatto  che  il  pretore  aveva
 ritenuto la fattispecie di cui all'art. 6, settimo comma del d.l. 12
 settembre 1983, n. 463, convertito in legge 11 novembre 1983, n. 683,
 operante nel solo caso di cessazione del diritto all'integrazione per
 superamento  dei limiti di reddito fissati nei precedenti commi dello
 stesso articolo, in epoca successiva alla data  di  decorrenza  della
 pensione;
      che  tale  interpretazione  si  poneva  in  contrasto con quella
 fornita dalla Corte di cassazione (sentenza n. 7315/1980), secondo la
 quale il settimo comma del citato art. 6 garantisce la  conservazione
 dell'importo  della  pensione  erogato alla data della cessazione del
 diritto alla integrazione, senza distinguere tra cause di  cessazione
 del diritto alla integrazione, se cioe' per superamento del limite di
 diritto compatibile o in virtu' del disposto del terzo comma, secondo
 il  quale,  in  caso di pluralita' di pensioni, l'integrazione spetta
 una sola volta;
      che, pertanto, la richiesta era  di  condanna  dell'I.N.P.S.  al
 mantenimento  della pensione integrata al minimo nello stesso importo
 percepito a tale titolo alla data  del  30  settembre  1983  fino  al
 superamento  dei  limiti  fissati al quinto e sesto comma dell'art. 6
 citato, con interessi legali e rivalutazione monetaria sugli  importi
 dovuti dalla data di maturazione del credito al saldo;
      che  nella  memoria di costituzione l'I.N.P.S., oltre a chiedere
 il rigetto della impugnazione di parte avversa, ha  proposto  appello
 incidentale;
      che  la  richiesta di rigetto era motivata dalla circostanza che
 il legislatore, intervenendo nel vivace  dibattito  giurisprudenziale
 sorto  sull'argomento,  aveva introdotto con reiterati decreti-legge,
 non  convertiti,  una  norma,  qualificata  espressamente   come   di
 interpretazione   autentica,  dell'art.  6  del  d.l.  n.  463/1983,
 convertito in legge n. 683/1983, con la quale ribadiva  il  principio
 della  unicita'  della  integrazione al minimo e della conservazione,
 dopo il 1  ottobre  1983  del  trattamento  minimo  su  di  una  sola
 pensione, individuata a norma del terzo comma dell'art. 6;
      che,  quanto  all'appello  incidentale,  sulla  scorta di quanto
 stabilito dall'art. 16, sesto comma, della legge 30 dicembre 1991, n.
 412, e cioe' che "la  corresponsione  degli  interessi  legali  sulle
 prestazioni dovute da parte degli enti gestori di forme di previdenza
 obbligatoria,  decorrono  dalla data di scadenza del termine previsto
 per l'adozione del provvedimento  sulle  domande"  e  che  "l'importo
 dovuto  a  titolo  di  interessi e' portato in detrazione delle somme
 eventualmente spettanti  a  ristoro  del  maggior  danno  subito  dal
 titolare  della  prestazione  per  la  diminuzione del valore sul suo
 credito",  l'I.N.P.S.  ha  chiesto  che  le  somme  dovute   per   la
 rivalutazione  fossero limitate solo per la parte eccedente l'importo
 degli interessi.
    Rilevato:
      che con l'art. 11, ventiduesimo comma della  legge  24  dicembre
 1993,  n.  537,  in  vigore  dal  1  gennaio  1994 si e' testualmente
 stabilito che l'art. 6, quinto, sesto e settimo comma  del  d.l.  12
 settembre  1983,  n.  463,  convertito  con modificazioni in legge 11
 novembre 1983, n. 683, si interpreta  nel  senso  che,  nel  caso  di
 concorso  di  due  o  piu'  pensioni  integrate al trattamento minimo
 liquidate con decorrenza anteriore alla data di entrata in vigore del
 predetto decreto (1 ottobre 1983), l'importo del  trattamento  minimo
 vigente  a  tale  data e' conservato in una sola delle pensioni, come
 individuata con i  criteri  previsti  al  terzo  comma  dello  stesso
 articolo,  mentre l'altra o le altre pensioni spettano nell'importo a
 calcolo senza alcuna integrazione";
      che tale articolo,  sia  nella  espressione  letterale  che  nel
 tenore, e' norma di interpretazione autentica e come tale
 retroagisce  alla  data  di  entrata  in  vigore  della  disposizione
 interpretata (art. 6 del d.l. n. 463/1983  convertito  in  legge  n.
 638/1983 e cioe' del 1 ottobre 1983);
      che il legislatore del 1983 ha sancito, a far data dal 1 ottobre
 1983,  nel  caso  di  concorso  di due o piu' pensioni, il divieto di
 cumulo della integrazione al trattamento minimo;
      che con la interpretazione autentica, nel caso di piu'  pensioni
 integrate al trattamento minimo, si conserva tale trattamento solo su
 di  una  pensione  (individuata  sulla  base dei criteri indicati dal
 terzo comma dell'art. 6, del d.l.  n. 463/1983) mentre per le  altre
 pensioni  il  trattamento  -  certamente  inferiore  al  minimo  - va
 calcolato sulla base della pensione contributiva del lavoratore;
      che la questione relativa al  diritto  alla  integrazione  delle
 pensioni  I.N.P.S. e' stata una tra le piu' tormentate fino a quando,
 con sentenza n. 102/1982, la Corte costituzionale ebbe ad indicare al
 legislatore di riesaminare su di un piano generale l'intera  materia,
 tenendo  presenti  i  principi  contenuti  negli  artt.  3 e 38 della
 Costituzione  e  cioe'  della  funzione   eminentemente   sociale   e
 solidaristica riconosciuta alla pensione minima impedendo trattamenti
 differenziati quando ricorrono i presupposti di fatto identici (cioe'
 diminuita  capacita'  di  guadagno  per  infermita'  o  per eta') che
 rendono i soggetti meritevoli di eguale protezione;
      che con riferimento al regime previdenziale assicurativo  si  e'
 ormai  abbandonato  il  sistema  mutualistico  (caratterizzato  dalla
 divisione del rischio tra coloro che sono ad  esso  esposti  e  dalla
 proporzionalita'  tra contributi e prestazioni previdenziali) e si e'
 introdotto il sistema solidaristico (basato sulla  irrilevanza  della
 proporzione  tra  contributi  e  prestazioni  e  sul  principio della
 solidarieta',  secondo  il quale le prestazioni sono lo strumento per
 l'attuazione dei fini della previdenza  in  rapporto  allo  stato  di
 bisogno e alle esigenze di vita dell'assicurato);
      che  con  sentenza n. 173/1986 la Corte costituzionale, partendo
 dal presupposto che il contributo versato in proporzione del  reddito
 conseguito,  pur non andando a vantaggio del singolo che lo versa, ma
 di tutti i  lavoratori  (in  quanto  la  realizzazione  della  tutela
 previdenziale  persegue  l'interesse  di  tutta  la  collettivita'  e
 percio' i contributi vengono prelevati in parte dai datori di  lavoro
 e  in parte dagli stessi lavoratori e talvolta vengono posti a carico
 della collettivita' con la c.d. fiscalizzazione degli oneri sociali),
 attribuisce pur sempre un diritto  del  lavoratore  a  conseguire  le
 corrispondenti   prestazioni   previdenziali,   nel   senso   che  il
 legislatore deve  tenere  conto  delle  contribuzioni  effettivamente
 prestate,  non  potendo  violare il principio di proporzionalita' che
 sorregge il sistema pensionistico, ha stabilito che il  principio  di
 proporzionalita'  deve essere inteso ragionevolmente, cioe' nel senso
 che il legislatore non puo' negare  del  tutto  le  prestazioni,  ne'
 ridurle  ad  un  minimo  assoluto, ma deve assicurare in ogni caso le
 esigenze del lavoratore;
      che il legislatore del 1983 ha sancito a far data dal 1  ottobre
 1983  il  divieto  di cumulo della integrazione al trattamento minimo
 nel caso di concorso di due o piu' pensioni, ma tale divieto non puo'
 trovare applicazione con riferimento alle  situazioni  pregresse,  in
 quanto  con sentenza n. 314/1985 la Corte costituzionale ha eliminato
 dalla  normativa  previgente  al  d.l.  n.  463/1983  tutte   quelle
 disposizioni che limitavano in presenza di altre pensioni, il diritto
 alla  integrazione  al  trattamento  minimo  delle  pensioni a carico
 dell'assicurazione obbligatoria, in quanto il divieto comportava  una
 discriminazione di trattamento tra i vari pensionati;
      che   con   sentenza  n.  31/1986  la  Corte  costituzionale  ha
 espressamente   indicato   come    l'istituto    della    prestazione
 pensionistica minima dei lavoratori vada ricondotto nel secondo comma
 dell'art.  38 della Costituzione, in quanto costituisce uno strumento
 atto ad offrire mezzi adeguati alle esigenze di vita  dei  lavoratori
 stessi,  dovendo  essere riguardato sotto un profilo oggettivo (e non
 piu' soggettivo, come nel sistema originario) cioe' quale garanzia  a
 che  la  prestazione  pensionistica  abbia  comunque  un  determinato
 livello minimo, a prescindere dalle effettive  condizioni  soggettive
 del destinatario;
      che  pertanto,  l'istituto  della  integrazione  al minimo della
 pensione non ha natura prevalentemente assistenziale (natura che  gli
 viene attribuita nella relazione al d.l. n. 14/1992, reiterato il 20
 marzo  1992,  col n. 237 e il 20 maggio 1992, col n. 293) la quale e'
 invece riferibile alla pensione sociale corrisposta in ottemperanza a
 quanto  previsto  dal  primo  comma  dell'art.  38,  ma   ha   natura
 previdenziale;
      che   la   interpretazione  autentica  fornita  con  l'art.  11,
 ventiduesimo comma della legge 24 dicembre 1993,  n.  537,  determina
 una  riduzione  del  trattamento  pensionistico  goduto  fino  al  30
 settembre 1983 e si pone espressamente in contrasto con  la  sentenza
 interpretativa  di  rigetto  n.  418/1991 della Corte costituzionale,
 secondo la quale "per effetto della sopravvenuta sentenza n. 315/1985
 il principio della unica pensione integrata al minimo - affermato dal
 legislatore  del  1983  - deve intendersi validamente operante solo a
 partire dal 1 ottobre 1983, ma non per  il  periodo  antecedente.  Ne
 consegue  che,  successivamente  a  tale  data,  il  titolare  di due
 pensioni integrate al minimo conserva il diritto alla integrazione su
 un solo trattamento, mentre per l'altro la misura della  integrazione
 stessa  resta  ferma all'importo percepito alla data del 30 settembre
 1983  ed  e'  destinata  ad  essere   gradatamente   sostituita   per
 assorbimento  in  virtu'  degli  aumenti che la pensione-base viene a
 subire   per   effetto   della    perequazione    automatica    (c.d.
 "cristallizzazione");
      che con ordinanza n. 21/1992 la Corte costituzionale ha ribadito
 che  il riconoscimento del diritto alla integrazione al minimo su una
 sola pensione (operante dal 1 ottobre 1983  in  base  alla  legge  11
 novembre  1983,  n.  638)  non  puo' avere comportato la riduzione di
 altro trattamento integrato al minimo eventualmente goduto, il quale,
 viceversa, si cristallizza nell'importo a quella data erogato, con la
 conseguenza del riassorbimento dell'integrazione  per  effetto  degli
 aumenti subiti dalla pensione-base a titolo di perequazione;
      che  tale  principio  e'  stato ribadito con sentenza n. 257 del
 1$-8 giugno 1992 della Corte  costituzionale  la  quale  richiama  la
 giurisprudenza  della  Corte  (sentenze  nn.  114  e  164  del  1992;
 182/1990; 504/1989; 184 e 1086 del 1988; 102/1982);
      che pur non avendo le sentenze interpretative  di  rigetto  -  a
 differenza  di  quelle  di  accoglimento - efficacia costitutiva erga
 omnes, in quanto l'interpretazione  c.d.  adeguatrice  e'  vincolante
 solo  nell'ambito  del  giudizio  a  quo, pur tuttavia, in omaggio al
 principio  di   conservazione   dell'atto   legislativo,   la   Corte
 costituzionale   con   la  decisione  interpretativa  indica  l'unica
 interpretazione, fra le diverse, conforme ai principi  costituzionali
 e alla quale la norma rimane condizionata;
      che  l'art.  11,  ventiduesimo comma, legge 24 dicembre 1993, n.
 537, interpretando l'art. 6 del d.l. n. 463/1982 in modo  del  tutto
 autentico  con  la interpretazione fornita dalla Corte costituzionale
 come l'unica  atta  ad  assicurare  la  conformita'  della  norma  ai
 principi costituzionali puo' mettere in moto il meccanismo della c.d.
 doppia  pronuncia:  nel  caso  di dissenso della interpretazione data
 dalla Corte costituzionale in una sentenza di rigetto  (dissenso  che
 non  riguarda  necessariamente  giudici ma anche il legislatore nella
 sua  attivita'  interpretativa),  la  successiva  proposizione  della
 questione  di costituzionalita' non puo' che portare ad una pronuncia
 della Corte costituzionale, la  quale  impone  detta  interpretazione
 della  norma dichiarando incostituzionale il combinato disposto della
 norma di interpretazione e della norma interpretata; che, quindi,  al
 pari  di  ogni  altra  disposizione  normativa,  anche  le  norme  di
 interpretazione autentica, soprattutto  in  considerazione  del  loro
 requisito  della  retroattivita',  possono risultare in contrasto con
 precetti costituzionali; che  con  ordinanza  n.  161/1993  la  Corte
 costituzionale   ha   dichiarato   inammissibili  analoghe  questioni
 sollevate  da  questo  tribunale,  ma  sotto  il   profilo   che   il
 decreto-legge  che  conteneva  la norma di interpretazione autentica,
 non era stato convertito in legge.
    Tanto premesso solleva d'ufficio ex art.  23,  terzo  comma  della
 legge 11 marzo 1953, n. 87, questione di legittimita' costituzionale.
    Essa   e'   certamente   ammissibile   e   rilevante   in   quanto
 l'accoglimento della interpretazione  autentica  fornita  col  citato
 art.  11  comporterebbe  l'automatico  rigetto  dell'appello proposto
 dall'assicurato.
    Essa non appare manifestamente infondata,  sia  sotto  il  profilo
 formale, sia sotto il profilo sostanziale:
       a)  quanto  all'aspetto  formale  si  osserva  che  la norma di
 interpretazione  autentica  urta   sia   contro   il   principio   di
 ragionevolezza  (cfr. sentenza n. 187/1988 Corte costituzionale), sia
 contro il principio  della  divisione  dei  poteri  (art.  104  della
 Costituzione) imponendo al giudice (istituzionalmente preposto a tale
 funzione)  una  interpretazione  in contrasto con quella che e' stata
 ritenuta la sola conforme ai principi costituzionali;
       b) quanto all'aspetto sostanziale si  osserva  che  il  diritto
 alla  previdenza,  espressamente previsto nell'art. 38, secondo comma
 della Costituzione, in base al  quale  ai  lavoratori  devono  essere
 assicurati  mezzi  adeguati  alle  loro  esigenze  di vita in caso di
 infortunio,  malattia,  invalidita'   e   vecchiaia,   disoccupazione
 involontaria,  e'  certamente  leso  dal mancato riconoscimento della
 c.d. cristallizzazione delle pensioni integrate  al  minimo  cumulate
 negli importi maturati al 30 settembre 1983, dal momento che - tenuto
 conto del regime allora vigente, quale era stato delineato attraverso
 pronunce  di  incostituzionalita'  -  esso  rappresentava quel minimo
 indispensabile  per  garantire  al  lavoratore  mezzi  adeguati  alle
 proprie esigenze di vita.
    Inoltre  risulta  violato  il  principio di ragionevolezza (art. 3
 della Costituzione), in quanto  il  diniego  della  cristallizzazione
 degli   importi   di  trattamento  minimo  delle  pensioni  non  piu'
 integrabili  costituisce  una  evidente   riduzione   (immotivata   e
 irrazionale)  del  trattamento  pensionistico  al  di  sotto  di quel
 livello che alla data del 30 settembre 1983 era stato ritenuto appena
 sufficiente a garantire al lavoratore  mezzi  adeguati  alle  proprie
 esigenze di vita.