LA COMMISSIONE TRIBUTARIA DI SECONDO GRADO Ha emesso la seguente ordinanza sul seguente fascicolo: R.G. fasc. n. 713/93 contenente: appello principale n. 1953/1992 presentato a mano in data 7 novembre 1992 con ricevuta n. 5989/92 da: U.T.E. di Venezia (controparte Bianchi Giulia, residente a Venezia in San Marco 3717/B) contro la decisione n. 206/7/1992 pronunciata in data 11 luglio 1992 (atti citati: avv. classamento n. imposta: contr. catastali - decisioni pronunciate dalla commissione tributaria di primo grado di Venezia). A seguito della decisione in atti con la quale la commissione tributaria di primo grado di Venezia, sezione settima, accoglieva il ricorso del contribuente, e' stato tempestivamente proposto ricorso in via di impugnazione dall'ufficio tecnico erariale con un unico motivo, di carattere evidentemente processualistico, diretto ad ottenere la pronuncia di difetto di giurisdizione delle adite commissioni tributarie. Tale tesi trarrebbe fondamento dal disposto dell'art. 16 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636 (anche in riferimento al testo novellato dell'art. 7 del d.P.R. 3 novembre 1981, n. 739). L'assunto difensivo in parola e' stato contestato a suo tempo dalla difesa della parte ricorrente, e la pronuncia emessa dalla commissione di prima istanza, con motivazione del tutto chiara e coerente, offre sicura dimostrazione delle ragioni per le quali e' stata ritenuta la sussistenza della competenza del giudice adito. La motivazione in esame, con ampi richiami alla nota sentenza del TAR del Lazio che ha affermato l'illegittimita' dei decreti ministeriali di cui si discute, si appalesa del tutto appagante e quindi immeritevole delle censure esposte. Tali censure, peraltro, nella loro estrema sinteticita', si limitano, a ben guardare, al richiamo del primo comma dell'art. 2 del d.l. 24 settembre 1992, n. 388. Tale disposizione, invero, tendeva (attraverso il richiamo espresso ai decreti ministeriali dichiarati illegittimi), a superare il problema della violazione del disposto costituzionale che vieta imposizioni tributarie in assenza di disposizioni normative tipiche degli organi legislativi. A tale proposito, peraltro, deve considerarsi che il menzionato d.l. n. 388/1992 non e' stato poi convertito nei termini, sicche' gli effetti in precedenza prodotti sono venuti meno con la scadenza del termine utile finale per la convertibilita'. Quanto sopra premesso, questa commissione deve necessariamente ricordare che, gia' con la nota sentenza n. 313/1985, la Corte costituzionale aveva enunciato il principio che l'elencazione dei casi di ricorso contenuta all'art. 16 del d.P.R. n. 636/1972 ha carattere non gia' tassativo, ma meramente esemplificativo, con la possibilita' quindi di un'interpretazione estensiva delle ipotesi di ricorribilita' in relazione alle materie affidate alla giurisdizione tributaria. Tale indirizzo giurisprudenziale e' chiaramente conforme all'orientamento costante delle sezioni unite della Corte di cassazione (successivamente confermato con decisioni consolidate della sezione prima civile) sul principio fondamentale che l'ambito della giurisdizione, speciale (in ragione della materia assegnata) ma e' di carattere generale - (in parallelo con quella attribuita ai tribunali ordinari in materia civile) - per la generalita' delle vertenze riguardanti la materia tributaria indicata all'art. 1 del d.P.R. n. 636/1972. Sulla base dei principi teste' indicati non sembra controvertibile che l'elemento determinante, al fine della delimitazione dell'ambito della giurisdizione in esame, sia da identificarsi nella denuncia di violazione di diritti soggettivi. Precisato, invero, dalle menzionate sezioni unite che le questioni inerenti all'applicazione dei tributi erariali rappresentano materia di lesione di diritti soggettivi, quando una questione di tale genere sia realmente dedotta dalla parte interessata (contribuente) col ricorso introduttivo, non sembra possa ragionevolmente negarsi (alla stregua del sistema vigente) l'appartenenza del relativo problema alla giurisdizione, come dianzi ricordato di carattere generale, delle commissioni tributarie. Occorre a questo punto rilevare che la decisione in esame ha non soltanto espressamente riaffermato le soluzioni di legittimita' (giudicate incidenter tantum in questa sede) addottate dalla ricordata pronuncia del TAR del Lazio, ma ha altresi' giudicato nel merito ritenendo applicabili, nel caso esaminato, le tariffe catastali valide per il precedente periodo di imposta. Questa soluzione potrebbe apparire prima facie criticabile quando si consideri che la determinazione delle rendite dei fabbricati urbani e' ancorata alle quantificazioni risalenti al lontano anno 1939; peraltro il sistema di aggiornamento all'evolversi delle situazioni relative alla svalutazione monetaria, (ed al mutamento delle redditivita' degli immobili urbani) attraverso le percentuali di adeguamento stabilite dal Ministero, (nei periodi piu' recenti) a cadenza biennale, non poteva trascurare gli effetti del protrarsi del sistema del blocco dei canoni delle locazioni. Invero l'ordinamento relativo risalente all'epoca fascista, continuato durante la guerra, nel periodo della "ricostruzione" e ancora all'epoca del sopraggiungere del cosi' detto "miracolo economico" (che trasformo' l'economia italiana, ancora prevalentemente agricola, in un sistema industriale e produttivo altamente modernizzato e su una linea tendenziale di livellamento alle piu' progredite nazioni industriali dell'occidente) ha trovato poi ulteriore e (secondo posizioni critiche) anacronistico rafforzamento con la legge n. 392/1978, tutt'ora vigente, che ha bloccato drasticamente il mercato delle locazioni (con le conseguenze ben note). E' proprio in relazione alle conseguenze della citata legge n. 392/1978, rimasta immutata nonostante il decorrere di ben tre lustri, che la Corte costituzionale ha piu' volte diretto al Governo richiami per evidenziare l'incompatibilita' del prolungato protrarsi della normativa di blocco dei canoni con il sistema di "libero mercato" che, dall'entrata dell'Italia nell'organizzazione unitaria della CEE, costituisce ormai il sistema inderogabile per l'ordinato svolgersi delle attivita' economico-produttive delle aziende operanti nello Stato italiano. A questo punto, proprio sulla base della decisione di merito anzidetta, questa commissione non puo' esimersi dal rilevare che nelle more del giudizio si e' verificata una "novazione legislativa" di decisivo impatto ai fini della soluzione del problema: va infatti ricordato che, con la legge 24 marzo 1993, n. 75, di conversione del d.l. n. 16/1993, gli organi legislativi hanno stabilito la definitiva applicazione delle rendite catastali determinate sulla base dei prospetti di tariffa determinati in esecuzione del d.m. 20 gennaio 1990 con decorrenza dal 1 gennaio 1992, sino all'entrata in vigore del successivo decreto contenente le nuove tariffe e le nuove rendite e comunque entro e non oltre il 31 dicembre 1993. Divenuti obbligatori ex lege i prospetti di tariffa sulle rendite immobiliari urbane, quale conseguenza della ricezione del d.m. 27 settembre 1991, in una norma espressa, essi sono non piu' soggetti a disapplicazione del giudice tributario ex art. 16 del d.P.R. n. 636/1972 realizzandosi la lesione diretta ed immediata delle situazioni soggettive dedotte nel giudizio, in quanto gli interessati sono privati di ogni possibilita' di sottrarsi alla quantificazione tariffaria della rendita del loro immobile, come attuata dall'amministrazione e denunciata di illegittimita'. La fonte dell'efficacia erga omnes delle tariffe di estimo sorge infatti dalla norma primaria e non piu' dall'atto amministrativo generale: suddetta norma pertanto sposta, direttamente, l'oggetto della presente controversia. Per effetto, invero, dell'art. 2 citato del d.l. n. 16/1993 la rendita dell'immobile del contribuente viene determinata in via definitiva ed irrevocabile sia con riferimento alla dichiarazione dei redditi da presentare alle scadenze degli anni 1993 e 1994, sia in riguardo a qualsivoglia atto di negoziazione rilevante ai fini fiscali. In siffatta situazione non e' dato vedere come possa negarsi la competenza del giudice adito dal momento che la controversia incide irrefutabilmente su una questione di diritto soggettivo (secondo la gia' menzionata giurisprudenza delle sezioni unite della Cassazione) anche sotto il riflesso che a seguito dell'adozioe del criterio del valore patrimoniale dell'immobile (a fronte del precedente fondato sulla redditualita'), non e' neppur invocabile il principio: qui' continuat non adtentat all'incontro valido fino a che i decreti ministeriali aggiornavano le rendite attraverso i coefficienti di adeguamento. E' invero significativo che venuta meno l'intermediazione del provvedimento amministrativo generale, l'obbligazione tributaria relativa alla singola unita' immobiliare diviene ipso facto liquida ed esigibile per determinazione tariffaria, rispetto alla quale il provvedimento di classamento (nella specie non modificato) ha carattere essenzialmente prodromico e senza diretta efficacia, in quanto il contribuente non puo' sottrarsi agli effetti tabellari se non violando esplicitamente la norma di legge. (Tanto piu' che il sistema dell'auto tassazione non ammette deroghe). L'interesse all'impugnazione della tariffa sorge, pertanto, con l'entrata in vigore della legge medesima che produce l'automatica assunzione del nuovo valore tabellare a regola vincolante ed insuperabile. Solo per completezza di motivazione non sembra superfluo aggiungere che ogno diversa soluzione priverebbe il contribuente di qualsivoglia tutela giurisdizionale avverso la stima del valore delle unita' immobiliari urbane a destinazione ordinaria (categorie A, B e C) con conseguente insorgere del dubbio di illegittimita' costituzionale dell'art. 16 del d.P.R. n. 636/1972 (sotto il profilo gia' esaminato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 9/1993) ovvero dell'art. 2, del citato d.l. n. 16/1993 e relativa legge di conversione, in quanto in sistema di determinazione delle rendite catastali, cosi' come introdotto in via transitoria con la "legificazione" della tariffa, resta preclusa la possibilita' di adire qualsivoglia giudice tributario o amministrativo che sia. L'art. 2 del richiamato d.l. n. 16/1993 non si sottrae, del resto, ad ulteriori dubbi di legittimita' costituzionale alla stregua di principi che regolano la formazione delle leggi e l'iniziativa relativa alla loro emanazione. Il legislatore, invero, avrebbe dovuto considerare la possibilita' di prevedibili e probabili straripamenti di potere nell'esercizio dell'attivita' di formazione delle tabelle, affidata ai locali U.T.E. Al proposito devesi ricordare che, precisamente per quanto attiene alla situazione del centro storico di Venezia, e' stato unanimemente riconosciuto dalle elaborazioni dei dati valutativi eseguite da noti studiosi della materia e pubblicati nei piu' accreditati giornali di informazione quotidiana (ed in particolare da quelli specializzati nelle problematiche dell'economia, esempio Il Sole 24 ore) che le tariffe relative sono enormemente piu' elevate rispetto a quelle stabilite per i centri storici similari delle citta' di Palermo, di Napoli e di Firenze (con maggiori valutazioni, per Venezia, tali da superare perfino il doppio di quelle di raffronto). Tale eccesso ha portato, come e' noto, a generalizzate proteste dei rappresentanti parlamentari locali e in generale del Veneto, ed, a quanto riferito (nei manifesti comunali) ad una precisa presa di posizione del Capo del Governo (favorevole alla revisione di tali abnormita'). Ed e' significativo che nei giorni scorsi si e' appreso (dai quotidiani nazionali) che il ricorso proposto dal comune di Venezia avanti la commissione censuaria provinciale (secondo il disposto dell'art. 2, comma primo- bis del citato d.l. 23 gennaio 1993, n. 16), tendente a conseguire una rilevante diminuzione delle quantificazioni tabellari ha conseguito esito favorevole sia per il centro storico di Venezia sia per la parte relativa alla zona di Mestre (anche se tale pronuncia e' soggetta, tutt'ora, all'eventuale controllo della commissione censuaria centrale). Tanto premesso sembra non improprio sottolineare come non palesemente infondata la questione di legittimita' costituzionale delle tabelle relative al comune di Venezia (considerato nelle sue varie costituenti) in riferimento all'art. 3 della Costituzione che garantisce a tutti i cittadini quell'uguaglianza di trattamento che, nella specie, sembra sia stata irreparabilmente violata. Altro rilevante profilo di incostituzionalita', non puo' essere sottaciuto: va considerato, infatti, che la legge del 24 marzo 1993, n. 75 di conversione del d.l. n. 16/1993 rappresenta il momento conclusivo della vicenda relativa alla revisione generale degli estimi del C.E.U., a seguito della sentenza del t.a.r. del lazio 6 maggio 1992 che annullava il d.m. 27 settembre 1991. Successivamente ad essa il contenuto del suddetto decreto ministeriale venne dal Governo trasfuso nel d.l. n. 298/1992, successivamente sostituito dal d.l. n. 348/1992, a sua volta reiterato con d.l. n. 388/1992 e sostituito ancora con d.-l. n. 455/1992, tutti non convertiti (allo scopo, evidente, di conservare il nuovo criterio di calcolo delle rendite immobiliari secondo il valore unitario di mercato ordinariamente ritraibile (stabilito nel d.m. 1990) in luogo del reddito dell'immobile ordinariamente ricavabile. In breve il Governo con la legge di conversione n. 75/1993 ha convalidato il sistema di imposizione sulle rendite immobiliari secondo criteri volti ad incidere il patrimonio dei proprietari, condizionando, quindi, le scelte del Parlamento con l'irreversibilita' delle situazioni nel frattempo intervenute e quindi influenzandone la libera formazione del consenso circa l'opportunita' di convertire o meno il decreto in parola. La serie continua di decreti legge emanati a seguito dell'annullamento giurisdizionale della determinazione delle tariffe, applicate, inoltre, in via transitoria dall'art. 7 del d.l. 11 luglio 1982, n. 333, per la determinazione dell'imposta straordinaria sugli immobili, hanno infatti posto le Camere nella condizione ineluttabile di convertire il decreto n. 16/1993 ed esonerare cosi' l'esecutivo dalla responsabilita' (sia pur politica) assunta riproducendo in via di decretazione d'urgenza le tariffe stesse, con la sanatoria dell'attivita' di prelievo fiscale nel frattempo operata. Si e' cosi' realizzata un'evidente pressione sulla volonta' parlamentare rimasta privata della liberta' di autodeterminarsi in senso diverso dalla conversione, perche' consapevole delle conseguenze che una decisione sfavorevole ad essa avrebbe potuto provocare sugli equilibri economici dello Stato. L'azione governativa si e' discostata, in tal modo, anche dalla finalita' che ha assunto la conversione nelle piu' recenti legislature, di consolidare sul piano degli effetti gli atti di normativa emanati in forza dell'art. 77 della Costituzione non tanto sotto la spinta della straordinarieta', quanto in adesione ad iniziative legislative da attuare in breve tempo. Siffatto fenomeno gia' di per se inaccettabile sul piano dei principi che regolano i rapporti fra organi istituzionali, lo e' ancor di piu' se esso riguardi le norme tributarie per le particolari garanzie da cui esse sono assistite dalla stessa Carta costituzionale. Con i gia' menzionati presupposti di completa sovranita' ed indipendenza non e' compatibile una decisione assunta sotto l'impulso di situazioni contingenti ed indifferibili che hanno reso irreversibile la determinazione di convalidare le modifiche introdotte dal d.l. 20 gennaio 1990 dirette ad accentuare il carico fiscale sugli immobili urbani in relazione a radicali mutamenti nel modo di concepire il presupposto dell'imposizione; mutamenti la cui ascrivibilita' al sostanziale volere del solo Esecutivo viola il principio della certezza del diritto che si esprime anche in termini della fiducia del contribuente costituzionalmente tutelata. Da quanto dianzi accennato e' poi evidente la violazione degli artt. 3 e 53 della Costituzione non potendo ritenersi conforme ne' al criterio della capacita' contributiva ne' tantomeno a quella di progressivita' che informa il sistema, la tassazione delle rendite immobiliari sulla ipotesi di fruttuosita' del valore capitale dell'immobile costruito in base a criteri di tipo patrimoniale, che la stessa norma abbandona per i periodi di imposta successivi all'anno 1994 palesando, quindi, la propria intrinseca irrazionalita'. Il carattere transitorio di applicazione della tabella annullata dal t.a.r., disposta dalla norma in parola, non vale, infine, ad esimerla dalla denunciata violazione degli artt. 3, 24 e 53 della Costituzione perche' differendo al periodo d'imposta successivo all'entrata in vigore dei nuovi estimi, le possibilita' recuperatorie del contribuente e il correlativo contenzioso, si realizza concretamente, medio tempore, una tassazione avulsa dalla capacita' contributiva e ripristinatoria di una forma di solve et repete, assolutamente incompatibile col sistema istituzionale vigente. Sulla base delle suesposte considerazioni le questioni si palesano rilevanti ai fini del decidere la presente causa. E' conseguenziale, pertanto, l'esigenza di sospensione del presente giudizio ai sensi della legge 11 marzo 1953 n. 87 rimettendo alla Corte costituzionale l'esame della questione relativa alla compatibilita' con le dianzi indicate norme costituzionali dell'art. 2 del d.l. 23 gennaio 1993, n. 16 convertito nella legge 24 marzo 1993, n. 75 nella parte in cui si dispone che: "fino alla data del 31 dicembre 1993 restano in vigore e continuano ad applicarsi le tariffe d'estimo e le rendite gia' determinate in esecuzione del d.m. 20 gennaio 1990".