IL PRETORE
   Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza nel procedimento n. 451/96
 r.g. pretura (17082/93 r.g. not. di  reato)  contro  Baglio  Basilio,
 nato  a Palermo il 20 febbraio 1941, ed ivi elettivamente domiciliato
 in via Del Fante n. 5; imputato del reato di cui all'art.  464  c.p.,
 per  avere  fatto  uso  di  un  valore  di  bollo (marca per patente)
 contraffatto  senza  esserne  concorso  nella  contraffazione;   alla
 pubblica  udienza  del  30  gennaio  1996,  presenti  l'imputato,  il
 difensore di fiducia, avv. Maria Bonetti, ed il  pubblico  ministero,
 dott.  Ennio  Petrigni,  conclusa l'istruzione dibattimentale, questo
 pretore  sollevava  d'ufficio  la  questione   di   costituzionalita'
 dell'art.  464,  secondo  comma,  c.p.    in relazione agli artt. 25,
 secondo comma e 27, primo comma, della Costituzione.
            Ritenuto quanto alla rilevanza della questione
   Nel corso del pubblico dibattimento celebratosi il 30 gennaio 1996,
 riferiva il teste dell'accusa D'Agati Giovanni, agente di  p.s.,  che
 in  data  24  giugno  1993 perveniva al proprio ufficio, dalla locale
 prefettura, la patente di guida  dell'odierno  imputato,  per  essere
 sottoposta ad un controllo circa l'autenticita' delle marche da bollo
 ivi  apposte.  Effettuato  il  controllo,  il  D'Agati riscontrava la
 falsita' della marca c.d. di integrazione relativa all'anno 1992, che
 presentava una dentellatura piu' larga ed una colorazione piu' accesa
 rispetto a quella autentica. Precisava infine il teste che la patente
 del Baglio si trovava presso  la  prefettura  di  Palermo  in  quanto
 depositatavi  dallo  stesso  titolare  ai  fini  del compimento della
 pratica del c.d.   rinnovo (rectius:  conferma  di  validita')  della
 patente medesima.
   Si  procedeva  inoltre all'esame dell'imputato, il quale dichiarava
 di  non  ricordare  dove  avesse  comprato  la  marca  oggetto  della
 contestazione,  precisando  comunque di averla acquistata sicuramente
 da un tabaccaio, come suo costume. Dichiarava egli altresi'  che  non
 si sarebbe mai potuto accorgere della contraffazione della marca, non
 avendo  la minima idea di come si faccia a distinguere le marche vere
 dalle false.
   Esaurita  l'istruzione   dibattimentale,   il   pubblico   ministro
 concludeva  per la condanna dell'imputato ex art. 464, 2 comma, c.p.,
 mentre la difesa chiedeva in via principale l'assoluzione del proprio
 assistito per mancanza di  dolo,  e  in  subordine  la  condanna  del
 medesimo   al   minimo  della  pena  pecuniaria  tenuto  conto  della
 diminuente di cui al predetto secondo comma dell'art. 464 c.p.
   Deve invero ritenersi  sufficientemente  acquisito  che  il  Baglio
 abbia  ricevuto  la  marca  de qua in perfetta buona fede: si tratta,
 infatti, di un impiegato del comune, cui non manca quindi un solido e
 regolare stipendio, ed inoltre di una persona adulta (al momento  del
 fatto egli aveva poco meno di 52 anni), incensurata; considerate tali
 circostanze,  invero,  appare  conferente desumere, secondo l'id quod
 plerumque accidit, che un soggetto  del  genere  non  avrebbe  dovuto
 avere  alcun  motivo  per  andare  a  reperire, presso i mercati c.d.
 clandestini o sommersi, una marca fasulla del  valore  (per  lui)  di
 sole 22.000 lire.
   Ne  deriva,  dunque,  che  nel  presente giudizio si faccia proprio
 questione della possibilita'  di  applicare  o  meno,  alla  condotta
 tenuta  dall'imputato,  la  fattispecie  di cui all'art. 464, secondo
 comma, c.p.,  dovendosi  ritenere  sufficientemente  provato  che  il
 medesimo abbia ricevuto la marca di cui si controverte in buona fede.
   Occorre  ricordare, in proposito, che l'art. 464, primo comma, c.p.
 punisce colui che abbia fatto uso di valori di bollo contraffatti  (o
 alterati),  pur  non  essendo  concorso  nella  contraffazione  degli
 stessi.  Tale  "uso"  deve   concretarsi,   in   particolare,   nella
 utilizzazione   del   valore   di   bollo  secondo  la  sua  naturale
 destinazione, cioe' secondo la destinazione corrispondente  a  quella
 propria  del valore genuino (Cass., 26 novembre 1987, Maiullari, Foro
 it., Rep. 1989, voce Falsita' in monete, n.  8;  Cass.,  13  novembre
 1984,  Bessi,  id.,  Rep.  1985, voce cit., n. 7), ogni altro tipo di
 "messa in circolazione" del valore dando luogo invece al  piu'  grave
 delitto  di  cui all'art.  459 c.p. (Cass., 22 febbraio 1983, Tallon,
 Foro it., Rep. 1984, voce Falsita' in monete, nn. 6 e  7;  Cass.,  27
 gennaio 1983, Giulivi, Riv. pen., 1983, 912).
   Sul  versante  soggettivo,  poi,  e'  necessario  che  l'agente sia
 consapevole della falsita' del bollo "dal" momento in cui lo acquista
 (Cass.  17 dicembre 1982, Casadio, Mass. Cass. pen., 1983,  105);  se
 tale  conoscenza,  tuttavia, subentra successivamente, l'utilizzatore
 risponde ugualmente, ma la pena e' ridotta, ai sensi  dell'art.  464,
 secondo  comma,  c.p.: la ricezione in buona fede del valore di bollo
 contraffatto,   in   altri   termini,   attenua   semplicemente    la
 responsabilita' di colui che faccia uso del bollo, ma non la esclude.
   Orbene,  ritiene  il giudicante che il meccanismo incriminatorio in
 tal modo risultante per effetto della previsione di  cui  al  secondo
 comma  dell'art. 464 c.p., contrasti con i principi di tassativita' e
 di colpevolezza costituzionalmente sanciti: ed invero, nelle  ipotesi
 in  cui  sia  certo, o comunque assai probabile, che l'imputato abbia
 acquistato la marca da bollo in buona fede,  la  dimostrazione  della
 sopravvenuta consapevolezza nel medesimo circa la falsita' del valore
 concretamente  utilizzato,  costituisce,  a  ben vedere, un'autentica
 probatio diabolica, impossibile da offrire.
   Tranne che in casi del  tutto  eccezionali  (annoverabili  fra  gli
 autentici  "casi di scuola"), difatti, il dolo di utilizzazione della
 marca da bollo contraffatta da parte di chi l'abbia ricevuta in buona
 fede, equivalendo ad un mutamento dell'atteggiamento psicologico  del
 soggetto  agente (come tale destinato ad esaurirsi nel "foro interno"
 di quest'ultimo), diviene del tutto insuscettibile  di  dimostrazione
 empirica,  anche  solo  indiziaria. E cio' per l'ovvia ragione che un
 atteggiamento psichico del genere non lascia alcuna  traccia  di  se'
 nella  realta'  esterna: l'acquisto e la successiva apposizione sulla
 patente della marca  da  bollo  annuale  costituiscono  comportamenti
 scarsamente  significativi dal punto di vista sociale, rientranti fra
 gli atti di gestione ordinaria della vita di relazione,  e  destinati
 pertanto semplicemente a confondersi fra i molteplici adempimenti che
 ciascun individuo effettua quotidianamente.
   Ne'    e'    a   dirsi   che   il   pubblico   ministero   potrebbe
 soddisfacentemente assolvere il proprio  onere  probatorio  invocando
 una  presunzione  di  riconoscibilita'  del  valore  fasullo da parte
 dell'imputato, dedotta dalla circostanza  che  per  ciascun  anno  di
 emissione delle marche della patente il Ministero delle finanze emana
 un  apposito  decreto, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, nel quale
 sono specificati i requisiti che deve possedere  la  marca  da  bollo
 autentica.
   Va  qui  richiamato, infatti, il fondamentale principio per cui, al
 pari  di  ogni   altro   elemento   costitutivo   della   fattispecie
 incriminatrice,  il  dolo deve essere effettivamente provato, tenendo
 conto  di  tutte  le  circostanze  che  possono  assumere  un  valore
 sintomatico   ai   fini   dell'esistenza   della  volonta'  colpevole
 (modalita' estrinseche della condotta, movente, comportamento  tenuto
 dal  colpevole  successivamente  alla  commissione  del reato, etc.).
 Stante, invero, l'estrema difficolta'  insita  nell'accertamento  dei
 dati  psicologici,  e'  certo  inevitabile - e consentito - in questo
 campo, il ricorso a massime di esperienza:  non, pero', a meri schemi
 presuntivi, ad ipotesi preformulate, o a postulati aprioristici,  che
 diano  per  dimostrato  il  dolo  ritenendolo  implicito nella stessa
 realizzazione del fatto materiale (c.d. dolus in  re  ipsa):  e  tale
 sarebbe   appunto   l'effetto  del  ricorso  ad  una  presunzione  di
 conoscenza del tipo di quella sopra indicata (che  sarebbe  peraltro,
 in  ogni  caso, iuris tantum), posto che la sistematica consultazione
 dei  decreti  ministeriali,  da  parte  del  comune  cittadino,   non
 corrisponde affatto, con tutta evidenza, ad un dato dell'esperienza.
   E  si  osservi infine, piu' in generale, che proprio partendo dalla
 constatazione  della  insormontabile  difficolta'  di   accertare   i
 mutamenti degli stati d'animo rimasti "interni" al soggetto, gia' gli
 antichi  romani  avevano  elaborato il principio - tuttora valido, ad
 esempio, in materia di possesso (art. 1147, terzo comma, C.C.) -  per
 cui mala fede superveniens non nocet.
   Nell'identica  paralisi  probatoria,  pur  se  dal lato opposto, si
 trova l'imputato: egli infatti assai difficilmente  potrebbe  offrire
 la   dimostrazione   -  una  volta  acquistato  il  valore  di  bollo
 contraffatto in buona fede - di essere rimasto in  buona  fede  circa
 l'autenticita'  del  medesimo  fino  al  momento  in  cui ne e' stato
 trovato in possesso.  La condotta sanzionata  dalla  norma  consiste,
 infatti,  nell'"uso"  della  marca:  integra oggettivamente il reato,
 percio', anche il fatto di aver presentato ad esempio la  patente  di
 guida  (unitamente  alla marca contraffatta) all'autorita' competente
 per il rinnovo della  medesima  (cosi'  come  avvenuto  nel  caso  di
 specie): e tuttavia, tale comportamento non e' ancora sintomatico dal
 punto  di  vista  soggettivo,  rimanendo  ugualmente  plausibile,  in
 astratto, tanto che il soggetto  sia  rimasto  in  buona  fede  circa
 l'autenticita'   del   valore   bollato   (altrimenti  non  l'avrebbe
 presentato spontaneamente all'autorita'), quanto  che  egli  contasse
 invece  proprio  di  trarre  in inganno quest'ultima:   ed invero, la
 consegna  della  patente  per  il   rinnovo   costituisce   un   atto
 "necessitato"  per  il soggetto (ove il medesimo intenda continuare a
 godere dell'abilitazione alla guida), non gia' un  atto  propriamente
 "spontaneo".  E  piu'  in  generale,  l'apposizione della marca sulla
 patente - cosi' come del resto l'acquisto ed il  successivo  utilizzo
 di  un  qualsiasi  altro  valore  di  bollo  -  sono atti che giammai
 "parlano  da  soli",  rimandando  semplicemente  all'intenzione   del
 soggetto di pagare una tassa.
   In   definitiva,   deve   dirsi  che  la  norma  non  abbia  alcuna
 possibilita' pratica di  funzionare:  ed  invero,  nel  caso  in  cui
 l'agente  abbia  acquistato  la  marca contraffatta in buona fede, ai
 giudice non rimarrebbe altra alternativa  che  quella  di  assolverlo
 perche'  il  fatto non costituisce reato, essendo mancata totalmente,
 sul punto, la prova dell'elemento soggettivo richiesto; nello  stesso
 tempo, tuttavia, l'imputato non potrebbe mai ottenere una assoluzione
 piena  nel merito, non avendo egli alcuna possibilita' di dimostrare,
 come si e' detto, di essere rimasto in buona fede anche circa l'"uso"
 della marca contraffatta.  L'esito del giudizio,  in  altri  termini,
 appare   scontato   in  partenza:     assoluzione  dell'imputato  per
 insufficienza di prove.
   Si sfugge a tale conclusione obbligata soltanto imboccando un'altra
 strada, parimenti obbligata pero': si dovrebbe  cioe'  in  ogni  caso
 condannare, sulla base del solo accertamento della condotta materiale
 prevista  dalla  norma  (apposizione  della  marca sulla patente): ed
 invero, se si confrontano le (poche) sentenze edite dal 1981 ad  oggi
 in  merito  a tale ipotesi delittuosa, si' evince chiaramente che non
 vi  e'  alcuna  traccia,  nelle  medesime,  di  indagini  volte  alla
 dimostrazione del dolo del reo (cfr. pronunce richiamate supra).
   Ritiene,  pertanto, il decidente che il presente giudizio non possa
 essere definito indipendentemente dalla risoluzione  delle  questioni
 di  legittimita'  costituzionale  come  sopra  accennate, imponendosi
 pertanto il rinvio degli atti al giudice delle leggi.
    Ritenuto quanto alla non manifesta infodatezza della questione
   A) Violazione dell'art. 25, secondo comma, della Costituzione.
   In conformita' con la  piu'  recente  dottrina  (Marinucci-Dolcini,
 Fiandaca)  deve  dirsi  che  ove  la  norma  preveda  una fattispecie
 delittuosa costruita sulla  esistenza,  nel  soggetto,  di  un  certo
 coefficiente  psicologico  empiricamente  non  riscontrabile in alcun
 modo, la stessa si ponga,  per  cio'  stesso,  in  contrasto  con  il
 principio  di  determinatezza  della  fattispecie  penale,  posto che
 l'obbligo  del  legislatore  di  delineare  l'ipotesi  incriminatrice
 secondo schemi sufficientemente precisi deve evidentemente riguardare
 non  soltanto  la  descrizione  della condotta materiale di reato, ma
 anche la individuazione del  necessario  coefficiente  soggettivo  di
 sostegno  (il  dolo,  invero, deve abbracciare tutti gli elementi del
 fatto tipico: artt. 5, 47, 59, 42, 43 e 44 c.p.). A  nulla  varrebbe,
 in   altri  termini,  che  la  condotta  tipica  fosse  astrattamente
 individuabile sulla base della formulazione della norma, se si tratti
 di condotta in ordine alla quale  risulti  empiricamente  impossibile
 verificarne  il  necessario  sostegno  psicologico:  perche' anche in
 questo caso non  sarebbe  possibile  per  l'interprete  esprimere  un
 giudizio  di  corrispondenza  tra  il  comportamento  concreto  e  la
 fattispecie astratta, "sorretto da fondamento  controllabile"  (Corte
 cost.  n.  96/1981).  Ed  invero,  se  per  un  verso il principio di
 tassativita' vincola il legislatore ad una  descrizione  quanto  piu'
 possibile  precisa  del  fatto di reato, per altro verso esso vincola
 anche il giudice, tenuto ad una interpretazione della fattispecie che
 rifletta il tipo descrittivo cosi' come legalmente configurato.
   Obbligato il rinvio, in proposito, a quanto affermato  dalla  Corte
 costituzionale  in tema di plagio (art. 603 c.p.) nella nota sentenza
 dell'8 giugno 1981, n. 96, dove e' stato  appunto  precisato  che  la
 determinatezza  o  tassativita'  della fattispecie incriminatrice non
 attiene soltanto alla sua formulazione linguistica, ma implica  anche
 la  verificabilita'  empirica  del  fatto  da  essa disciplinato: "in
 riferimento all'art. 25 della Costituzione questa corte ha piu' volte
 ripetuto che a  base  del  principio  invocato  sta  in  primo  luogo
 l'intento  di evitare arbitrii nell'applicazione di misure limitative
 di  quel  bene  sommo  ed  inviolabile  costituito   dalla   liberta'
 personale.   Ritiene  quindi  la  corte  che,  per  effetto  di  tale
 principio,  onere  della  legge  penale  sia quello di determinare la
 fattispecie criminosa con connotati precisi in modo che l'interprete,
 nel  ricondurre  un'ipotesi  concreta  alla  norma  di  legge,  possa
 esprimere  un  giudizio  di  corrispondenza  sorretto  da  fondamento
 controllabile. Tale  onere  richiede  una  descrizione  intellegibile
 della  fattispecie  astratta (...) e risulta soddisfatto fintantoche'
 nelle norme penali vi sia riferimento a fenomeni la cui  possibilita'
 di  realizzarsi  sia stata accertata in base a criteri che allo stato
 delle  attuali  conoscenze  appaiano  verificabili".  (...)    "nella
 dizione  dell'art.  25 della Costituzione che impone espressamente al
 legislatore di  formulare  norme  concettualmente  precise  sotto  il
 profilo semantico della chiarezza e dell'intellegibilita' dei termini
 impiegati,  deve  ritenersi  anche  implicito  l'onere  di  formulare
 ipotesi che esprimano fattispecie corrispondenti alla realta'  (...).
 Sarebbe infatti assurdo ritenere che possano considerarsi determinate
 in  coerenza  col  principio  di tassativita' della legge, norme che,
 sebbene  concettualmente  intellegibili,   esprimano   situazioni   e
 comportamenti irreali o fantastici o comunque non avverabili, e tanto
 meno  concepire  disposizioni legislative che inibiscano o ordinino o
 puniscano fatti  che  per  qualunque  nozione  ed  esperienza  devono
 considerarsi inesistenti o non razionalmente accertabili".
   In  definitiva,  la  fattispecie  delineata  dal legislatore con il
 secondo comma dell'art. 464, e consistente nel fatto di chi, pur  non
 essendo  concorso  nella  contraffazione  dei  valori  bollati, e pur
 avendoli   ricevuti   in   perfetta   buona   fede,   successivamente
 accorgendosi  della  falsita'  dei medesimi, ne abbia consapevolmente
 fatto uso, non corrisponde ad un'ipotesi  concretamente  suscettibile
 di   verifica   processuale,   stante  l'assoluta  impossibilita'  di
 sceverare  i  mutamenti   psicologici   rimasti   meramente   interni
 all'individuo,  e  non  estrinsecatisi in comportamenti esteriormente
 percepibili. E sotto tale profilo, essa si pone dunque  in  contrasto
 con  il  principio di determinatezza (art. 25, secondo comma, Cost.),
 secondo la portata al medesimo attribuita dalla Corte costituzionale,
 con la sent. n. 96 del 1981.
   B) Violazione dell'art. 27, primo comma, della Costituzione.
   L'avere il legislatore di principio escluso che l'acquirente di una
 marca da bollo contraffatta possa andare esente da pena per  il  solo
 fatto  di  averla ricevuta in buona fede, in una con l'impossibilita'
 probatoria sopra evidenziata circa il  sopravvenuto  mutamento  dello
 stato  psicologico  dell'agente  in  ordine  alla  autenticita' della
 marca, si pone altresi' in contrasto, ad avviso  di  questo  Pretore,
 con  il  principio  di colpevolezza quale recepito dalla Costituzione
 (art.    27),  e  quale  piu'  volte  enunciato  dalla  stessa  Corte
 costituzionale  (sentt. nn. 364 e 1085 del 1988), in collegamento con
 la funzione essenzialmente rieducativa della  pena  (art.  27,  terzo
 comma,  Cost.):  ed invero, chiamando a rispondere del reato di "uso"
 anche chi abbia ricevuto il valore di bollo nell'assoluta incoscienza
 della sua falsita', l'art. 464, secondo comma, c.p. non si sottrae al
 dubbio di nascondere una vera e propria  ipotesi  di  responsabilita'
 oggettiva  (se  non  addirittura  "per  fatto  altrui"),  in  cui  la
 realizzazione del solo comportamento  materiale  vietato  (uso  della
 marca), basti, di fatto, a fondare la colpevolezza dell'autore.
   Ove  infatti  abbia  acquistato  il  valore di bollo in buona fede,
 poiche' normalmente la patente non si  mostra  ad  altri  se  non  ai
 pubblici  ufficiali  appositamente incaricati del relativo controllo,
 il soggetto rimane sostanzialmente affidato al "caso" che la marca in
 suo possesso sia falsa oppure no: una volta che il pubblico ufficiale
 abbia infatti  constatato  la  falsita'  della  marca  apposta  sulla
 patente,   deve   obbligatoriamente   fare  rapporto,  innescando  il
 presupposto per l'esercizio  dell'azione  penale  nei  confronti  del
 "contravventore".
   Cio'  che  non  sempre  accade, invece - si noti per inciso - nella
 contigua ipotesi di spendita di banconote  false  ricevute  in  buona
 fede (artt. 457 e 458 c.p.): in tali casi, difatti, il soggetto ha di
 solito  la  possibilita'  di  accorgersi  della  falsita'  del denaro
 inconsapevolmente ricevuto, prima delle forze dell'ordine; basta,  ad
 esempio,  che egli paghi con quel denaro un fornitore di fiducia che,
 accortosi della falsita' della banconota, glielo faccia presente  (il
 comune  cittadino,  difatti,  non  ha  obbligo di denuncia); a questo
 punto, il possessore  avra'  l'effettiva  possibilita'  di  orientare
 consapevolmente  la  propria  condotta:  potra'  consegnare il valore
 monetario fasullo alle sedi competenti, oppure cercare ugualmente  di
 spenderlo,   a   scapito  di  altri  (magari,  introducendolo  in  un
 distributore  automatico):  e  in  quest'ultima   ipotesi,   restera'
 comunque   una   traccia   della  sua  sopravvenuta  coscienza  (quel
 fornitore, ad esempio, potra' essere chiamato a testimoniare).
   E poiche' invece, nel caso delle marche per patente, l'"uso"  segue
 immediatamente  la "ricezione", e se quindi gia' il semplice acquisto
 di una marca per patente contraffatta e' sufficiente (di  fatto)  per
 fondare la responsabilita' del possessore, ne deriva che, nei casi in
 questione,  il  cittadino, versando in re illicita, tenetur etiam pro
 casu.
   Sol che ci si  ponga,  peraltro,  nella  medesima  ottica  astratta
 individuata  dalla  norma,  prendendo atto di conseguenza che la mera
 ricezione in buona fede della marca contraffatta non e' ancora reato,
 non puo' fare a meno di osservarsi che nelle ipotesi de quibus non di
 un versari in re illicita in senso proprio si tratti, bensi'  di  una
 (surrettizia)  responsabilita'  "per  fatto  altrui",  posto  che  il
 soggetto e' chiamato a rispondere ex art. 464,  secondo  comma,  c.p.
 proprio   in   quanto   ha  acquistato  (in  buona  fede)  una  marca
 materialmente contraffatta da altri (egli, infatti, non  deve  essere
 concorso nella contraffazione).
   In definitiva, se a configurare il reato de quo basta il mero "uso"
 della  marca  non  genuina,  ricevuta  in buona fede, la norma di cui
 all'art. 464, secondo comma, c.p. va ritenuta in insanabile contrasto
 con il principio di  colpevolezza  costituzionalmente  inteso,  quale
 limite    cioe'   alla   discrezionalita'   del   legislatore   nella
 individuazione dei fatti penalmente sanzionabili: ed invero,  secondo
 quanto  da  ultimo  statuito  dal giudice delle leggi (Corte cost. 24
 marzo 1988, n. 364), tale principio si  condensa,  innanzitutto,  nel
 tassativo  divieto  di  far  ricadere  nel  soggetto  colpe a lui non
 ascrivibili (c.d. responsabilita' per fatto  altrui)  e,  in  secondo
 luogo,  nell'obbligo  per  il legislatore di stabilire incriminazioni
 solo per "fatto proprio", ove per "fatto proprio" -  ha  sottolineato
 efficacemente  la  Corte - non deve intendersi "il fatto collegato al
 soggetto,  all'azione  dell'autore,  dal  mero  nesso  di  causalita'
 materiale  (...)  ma  anche,  e  soprattutto, dal momento subiettivo,
 costituito, in presenza della prevedibilita'
  evitabilita'  del  risultato  vietato, almeno dalla "colpa" in senso
 stretto".  Ed  ha  concluso  sul  punto  la  Consulta:  "perche'  sia
 legittimamente  punibile  (il  fatto  imputato)  deve necessariamente
 includere almeno la colpa dell'agente in relazione agli elementi piu'
 significativi della fattispecie tipica".