IL CONSIGLIO DI STATO Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso in appello proposto dall'Ufficio Italiano Cambi, in persona del presidente p.t., rappresentato e difeso dall'avv. Bruno De Carolis e dal prof. avv. Filippo Satta e domiciliato presso lo studio del secondo in Roma, via Pierluigi da Palestrina, 47, contro Elvira Scotto Lavina, Mario Giagu, Stefania Mezzanotte, Antimo Verde, Giovanni Battista Scotti, Carlo Bortoloni, Mario Scalera, Brunilde Giuliani, Giuseppe De Filippis, Rinaldo Palombo, Alberto Di Filippo, Alessandro Nardi, Anna Bonfigli, Roberto Villani, Francesco Calogero e Valerio Guercio, rappresentati e difesi dall'avv. Domenico Davoli presso il quale elettivamente domiciliano in Roma, via di Santa Maria Maggiore, 112, e nei confronti di Vittorio Corniola, domiciliato per la carica presso il Ministero del tesoro, ragioneria generale dello Stato, I.G.O.P. in Roma, via XX Settembre n. 97, per l'annullamento della sentenza del tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione III, 31 agosto 1993, n. 1430, notificata il 20 settembe 1993; Visto il ricorso con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Elvira Scotto Lavina, Mario Giagu, Carlo Bortoloni, Stefania Mezzanotte, Mario Scalera, Rinaldo Palombo, Alessandro Nardi, Valerio Guercio, Francesco Calogero, Anna Bonfigli, Giuseppe De Filippis, Alberto Di Filippo, Antimo Verde, Brunilde Giuliani, Roberto Villani e Giovanni Battista Scotti; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti gli atti tutti della causa; Udita nella camera di consiglio del 21 gennaio 1994 la relazione del consigliere Della Valle Pauciullo e uditi, altresi', gli avv.ti Satta e De Carolis per l'appellante e Davoli per l'appellata; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue: F A T T O Il tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione III, su ricorso di Elvina Scotto Lavina e degli altri indicati in epigrafe, tutti funzionari di II livello dal 1$ luglio 1982 dell'Ufficio Italiano dei Cambi, con sentenza n. 481 del 29 marzo 1991 ha dichiarato il diritto degli stessi con decorrenza dal 1$ luglio 1988 al trattamento economico pari a quello spettante al vincitore del concorso per la stessa qualifica, conferita in tale data, con piu' elevata retribuzione rispetto a quella da loro fruita, nonche' alla rivalutazione monetaria ed agli interessi sulla maggiore retribuzione dovuta dalla scadenza dei singoli ratei al soddisfo. Il Consiglio di Stato, sezione VI, su appello dell'Ufficio Italiano dei Cambi, ha confermato tale sentenza con decisione n. 486 del 23 giugno 1992 notificata il 10 luglio 1992 al suddetto Ufficio, il quale con nota n. 4621 del 3 novembre 1992 ha comunicato agli interessati che non avrebbe adottato provvedimenti in esecuzione della stessa in relazione alle disposizioni dell'art. 2, comma 4, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 323, convertito nella legge 8 agosto 1992, n. 359, nonche' all'art. 7, settimo comma, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384, convertito nella legge 14 novembre 1992, n. 438. Elvira Scotto Lavina e gli altri destinatari della sentenza menzionata del tribunale amministrativo regionale del Lazio (frattanto passata in giudicato per effetto della mancata impugnazione della decisione confermativa d'appello del Consiglio di Stato entro il termine di legge dalla sua notificazione), previa rituale diffida ad ottemperarvi rimasta senza esito, hanno chiesto allo stesso tribunale con ricorso presentato il 17 marzo 1993 che venisse ordinato all'Ufficio Italiano dei Cambi di ottemperare al giudicato cosi' formatosi; gli effetti dello stesso non potevano infatti considerarsi impediti dalla sopravvenienza dalle menzionate disposizioni di legge in pendenza del termine di impugnazione per cassazione della decisione del Consiglio di Stato immediatamente esecutiva, consistendo tali effetti in un obbligo sottratto ai poteri discrezionali della pubblica amministrazione ed alla rilevanza di norme entrate in vigore in tempo posteriore alla notificazione della decisione successivamente passata in giudicato. Oppostosi alla pretesa di ottemperanza al giudicato l'Ufficio Italiano dei Cambi per le ragioni gia' enunziate, il tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione III, con la sentenza indicata in epigrafe, l'ha accolta ed ha assegnato al suddetto Ufficio il termine di sessanta giorni dalla comunicazione o notificazione della sentenza stessa per provvedere in conseguenza, nominando per il caso di ulteriore inerzia un commissario tenuto a svolgere l'attivita' sostitutiva di quella omessa. Esso ha ritenuto in proposito non fondate le ragioni opposte dall'Ufficio Italiano dei Cambi alla pretesa di ottemperanza, affidate alla sopravvenuta abrogazione con efficacia retroattiva delle norme applicate dalla propria sentenza e dalla decisione definitiva di conferma del Consiglio di Stato, quando ancora questa non era passata in giudicato, benche' notificata; cio' per la considerazione che l'art. 2, quarto comma, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito nella legge 8 agosto 1992, n. 359 (soppressivo del secondo periodo del terzo comma dell'art. 4 del decreto-legge 27 settembre 1982, n. 681, convertito nella legge 20 novembre 1982, n. 869), come interpretato autenticamente con efficacia retroattiva all'11 luglio 1992 dall'art. 7, settimo comma, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384, convertito nella legge 14 novembre 1992, n. 438, non sia riferibile ai rapporti gia' definiti con sentenza di merito a tale data, anche se passata in giudicato, ricollegandosi tali rapporti immediatamente, non gia' alla legge, ma appunto alla sentenza di loro accertamento. L'Ufficio Italiano dei Cambi ha proposto appello avverso la suddetta sentenza, con ricorso notificato il 29 ottobre 1993, deducendo, fra l'altro, che: a) l'unico limite di efficacia alla norma retroattiva e' il giudicato formale, nel caso di specie non ancora formatosi alla data della entrata in vigore di tale norma; b) anche in presenza del giudicato formale il giudice della ottemperanza e' tenuto ad osservare la norma interpretativa o comunque modificativa delle disposizioni in ordine alle quali tale giudicato si era formato. Lo stesso ufficio con successiva memoria ha chiesto la sospensione del giudizio d'appello in pendenza delle questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 7, settimo comma, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384, convertito nella legge 14 novembre 1992, n. 438, rimesse alla Corte costituzionale con ordinanze 7 ottobre 1993, nn. 1678 e 1679, del tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione III- bis. Hanno resistito all'appello i ricorrenti per l'ottemperanza al giudicato, richiamandosi all'inopponibilita' delle norme modificative sopravvenute alla notificazione della decisione giurisdizionale definitiva, sia pure non ancora passata in giudicato. Ritenuto che in D I R I T T O 1. - I ricorrenti in primo grado hanno promosso giudizio di ottemperanza al giudicato formatosi in conseguenza della sentenza del tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione II n. 481 del 24 marzo 1991, confermata dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione VI, con decisione n. 486 del 23 giugno 1992, in base al quale era ad essi riconosciuto il diritto all'allineamento della loro retribuzione al migliore trattamento economico spettante ad altri dipendenti dell'Ufficio Italiano dei Cambi pervenuti alla loro stessa qualifica di funzionari di secondo livello con decorrenza posteriore a quella in cui essi l'avevano conseguita in precedenti turni di promozione. Le suddette pronunzie giurisdizionali avevano cosi' fatto applicazione, annullando il rifiuto tacito od espresso del menzionato Ufficio, del principio desunto dall'art. 4, terzo comma, secondo periodo, del decreto-legge 27 settembre 1982, n. 681, convertito nella legge 20 novembre 1982, n. 869, secondo l'estensione generalizzata fattane via via dalla giurisprudenza anche costituzionale. 2. - Alla richiesta di ottemperanza a siffatto giudicato si oppone l'Ufficio Italiano dei Cambi, che deduce la sopravvenuta abrogazione, prima del passaggio in giudicato della decisione di appello del Consiglio di Stato, della norma espressiva del principio cosi' applicato, avendola soppressa a decorrere dalla data di propria entrata in vigore l'art. 2, quarto comma, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito nella legge 8 agosto 1992, n. 359, ed essendo stato questo interpretato dall'art. 7, settimo comma, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384, convertito nella legge 14 novembre 1992, n. 438, nel senso che dalla suddetta data di entrata in vigore "non possono piu' essere adottati provvedimenti di allineamento stipendiale, ancorche' aventi effetti anteriori all'11 agosto 1992". La preclusione e' opposta nel duplice profilo che: venuta meno la norma, prima che la decisione cui ottemperare passasse in giudicato in pendenza del termine per il ricorso per cassazione avverso la decisione confermativa d'appello del Consiglio di Stato, il giudicato non si e' piu' potuto formare su una posizione giuridica soggettiva non piu' prevista dalla mutata disciplina normativa; il giudicato non e' comunque suscettibile di ottemperanza in un quadro normativo sopravvenuto col quale quella posizione giuridica, per quanto accertata, non e' piu' compatibile. 3. - C'e' da rilevare in proposito che, pur in presenza della nuova disciplina riguardante il rapporto giuridico accertato e definito dalle pronunzie giurisdizionali in relazione alle quali e' stato proposto giudizio di ottemperanza, il termine per l'impugnazione con ricorso per cassazione della decisione confermativa d'appello del Consiglio di Stato e' stato lasciato decorrere inutilmente e l'impugnazione stessa non e' stata proposta prima della sua scadenza, cosicche' la cosa giudicata formale si e' ritualmente formata, a norma dell'art. 324 del c.p.c., su tale decisione e sul rapporto giuridico, che ne e' stato oggetto cosi' come accertato e definito con la sentenza di primo grado confermata. Cio' rende irrilevante il primo profilo di preclusione all'ottemperanza prospettato dall'Ufficio Italiano dei Cambi, essendo del tutto normale che il regime giuridico in concreto determinato dal giudicato per il rapporto controverso debba prevalere sull'astratta disciplina normativa vigente, da cui esso risulti eventualmente difforme. 4. - Residua dunque il secondo profilo di preclusione, per il quale l'ottemperanza al giudicato sarebbe impedita dall'avere precluso la disciplina normativa ad esso sopravvenuta l'adozione di provvedimenti di allineamento stipendiale ancorche' aventi effetti anteriori all'11 luglio 1992, nonostante che il rapporto giuridico relativo, come accertato e definito appunto dal giudicato, comporterebbe proprio l'adozione di siffatti provvedimenti. L'art. 7, settimo comma, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384, in cotale interpretazione preclusiva dell'ottemperanza al giudicato, si espone a dubbi di legittimita' costituzionale per contrasto con gli artt. 24, primo e secondo comma, 102, primo comma, 103, primo comma, 113 della Costituzione, nonche' col sistema di separazione dei poteri dello Stato da questa delineato e quindi per eccesso di potere legislativo. 5. - La questione, che da tali dubbi deriva, ha sicura rilevanza sulla proponibilita' del giudizio di ottemperanza, al quale il tribunale amministrativo regionale del Lazio ha dato corso con la sentenza qui impugnata in appello e quindi la sua risoluzione sulla fondatezza o meno dell'appello, della quale occorre decidere. 6. - Essa non appare poi manifestamente infondata. La tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi e' garantita dall'art. 24, primo comma, della Costituzione mediante l'ineludibile potere di agire in giudizio a tal fine e cio', per il secondo comma, attraverso l'esercizio del diritto "inviolabile" alla difesa in ogni stato e grado del procedimento. Nessuna legge ordinaria puo' quindi limitare in un qualsiasi modo tale tutela con riferimento a tutto il procedimento giurisdizionale relativo o ad uno qualsiasi dei suoi diversi stati (sia di cognizione che d'esecuzione) in cui esso si articola nella sede propria ed esclusiva, che la stessa Costituzione (artt. 102, primo comma, 103, 104, primo comma, 113 e 125, secondo comma) individua tassativamente e con separazione strutturale e funzionale assoluta da ogni altro potere dello Stato. Tutela non vi e', se il rapporto giuridico, affermato nella opportuna sede giurisdizionale di cognizione, secondo la disciplina giuridica nella stessa ritenute applicabile, non perviene, nella sede di esecuzione ugualmente giurisdizionale, a svolgere compiutamente il proprio contenuto satisfattorio dell'interesse sostanziale al bene della vita per il quale appunto con quella disciplina esso era stato apprestato; se cioe' il giudicato, nel quale si puntualizza la certezza del rapporto giuridico di cui si postula la tutela, non trova nell'ordinamento il modo di determinare, per quanto riguarda il caso deciso, comportamenti necessitati ad esso conformi. Cio' non puo' non voler dire che qualunque norma di legge ordinaria, da cui derivino situazioni di impedimento al conformarsi al giudicato, e' in violazione della garanzia costituzionale della tutela giurisdizionale dei diritti soggettivi o degli interessi legittimi in tutte le sue specificazioni e, nel caso di specie, nei confronti della pubblica amministrazione e dei suoi atti, senza limitazioni, fino a rendere effettivo l'annullamento degli stessi (art. 113 della Costituzione) in quanto limitativi di quelle posizioni giuridiche soggettive. 7. - Vero e' che in giurisprudenza si e' detto talora che il mutamento dell'ordinamento giuridico, sopravvenuto al giudicato nella materia nella quale questo si e' formato, rende lo stesso inoperante per il venir meno della astratta possibilita' di situazioni giuridiche sostanziali del tipo di quella che ne e' stata oggetto. Considerazioni siffatte sono state possibili pero' solamente con riguardo a casi in cui il mutamento normativo ha indotto anche un opposto assetto strutturale o funzionale del contesto sociale, territoriale o ambientale, rispetto a quello anteriore, si' da far venir meno gli stessi presupposti soggettivi od oggettivi delle situazioni prima giuridicamente disciplinate e poi rimaste prive della stessa giuridicita'. Lo si e' detto in particolare, se non esclusivamente, in materia edilizia ed urbanistica per i casi di mutamenti delle previsioni programmatiche d'utilizzazione del territorio sopravvenute all'annullamento di provvedimenti edilizi illegittimi per violazione delle previsioni divenute poi non piu' vigenti. In casi del genere, per vero, la rinnovazione in conformita' del giudicato dell'atto annullato sarebbe resa impossibile dall'essere venuto meno proprio il contesto urbanistico contemplato da quelle previsioni e dall'essere divenuto viceversa l'inserimento edilizio, che l'atto da rinnovare dovrebbe contemplare, incompatibile con le nuove previsioni programmatiche di utilizzazione del territorio. La stessa cosa non puo' sicuramente dirsi per i rapporti giuridici a contenuto patrimoniale, consolidatisi nella loro concretezza appunto col giudicato e per esso rimasti esistenti in tale concreta misura singolare anche nel mutare della disciplina generale della materia. Una piu' ampia portata delle innovazioni legislative, adottate in maniera da coinvolgere in base a norme innovative casi che sono stati oggetto di giudicato, avrebbe significato di contaminazione fra attivita' rispettive del potere legislativo e del potere giurisdizionale, che il disegno sistematico della Carta costituzionale ha voluto separati l'uno dall'altro proprio nel rispettivo esercizio funzionale, che altrimenti sarebbe in eccesso non consentito dell'uno rispetto all'altro. Lo stesso equilibrio generale fra i poteri dello Stato disegnato dalla Costituzione risulta compromesso da contaminazioni del genere, che sono speculari ad un marasma sociale, causa ed effetto insieme delle stesse in quanto tracimanti argini costituzionali forse non sufficientemente robusti o forse resi tali da un loro governo sempre piu' remissivo o disattento. Tale non e' stata certamente la stessa Corte costituzionale, quando con la sentenza n. 123 del 7 aprile 1981 ha dichiarato l'incostituzionalita' di una norma di legge prescrivente l'estinzione d'ufficio di processi pendenti per controversie riguardanti rapporti giuridici disciplinati da norme previgenti interpretate autenticamente da altra norma della stessa legge; ne' quando recentissimamente con sentenza n. 6 del 14 gennaio 1994, nel delimitare la questione esaminata riguardo alla stessa norma di legge qui denunziata, ha avuto cura di escluderne il carattere "lesivo di giudicati gia' formatisi" o di preclusione di qualsiasi strumento di tutela giurisdizionale. Un tale carattere e' invece ad essa attribuita dagli appellanti e per tale ragione e' sollevata d'ufficio la presente questione, non risultando dalla sentenza or ora menzionata la esplicita esclusione, dal divieto espresso nella norma, dei provvedimenti di "allineamento stipendiale" conseguenti a giudicati gia' formatisi, che solo varrebbe a salvarne la legittimita' costituzionale. Ne' questa potrebbe affidarsi ad un qualsiasi altro superiore interesse pubblico quale quello invocato dall'appellante come ispiratore della legge considerata ed inteso a salvaguardare l'equilibrio della finanza pubblica, se questo interesse non si pone esso stesso come valore costituzionale prevalente o si esprime fuori degli strumenti costituzionali per esso apprestati. Ma cio' risulta negato, nei casi come quello in esame, dal necessario concorso di tutti i soggetti consociati nella collettivita' statale alle spese pubbliche in ragione della loro capacita' contributiva, come vuole l'art. 53 della Costituzione. Ne risulta cosi' impedito sul piano costituzionale l'onere del riequilibrio della finanza pubblica a carico soltanto di questa o quella categoria di soggetti, le cui posizioni giuridiche siano solo occasionali rivelatrici dello squilibrio e non anche espressive di maggiore capacita' contributiva rispetto alla generalita' di ogni altro soggetto obbligato al concorso nelle spese pubbliche. La discrezionalita' del legislatore, alla quale frequentemente si rinvia a salvaguardia della costituzionalita' di norme di legge, non puo' andare oltre tali limiti invalicabili.