IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA Emette la seguente ordinanza nel procedimento di sorveglianza relativo a Colaprico Claudio nato a Putignano il 17 gennaio 1961 ivi residente via Purgatorio n. 11 avente ad oggetto: affidamento s.s./semiliberta'. O S S E R V A Il Colaprico ha domandato in stato di liberta' di essere ammesso all'affidamento al C.S.S.A., o in subordine alla semiliberta', per la pena detentiva residua (anni uno, mesi undici e giorni sedici di reclusione) inflittagli con la sentenza 20 dicembre 1991 della Corte di appello di Bari. Pacifica essendo l'ammissibilita' della domanda di affidamento con riguardo al quantum della pena da espiare, rileva il tribunale che va preliminarmente esaminata la possibilita' di giudicarla nel merito, alla luce delle norme introdotte con l'art. 15, primo comma, prima parte legge n. 356/1992, che ha sostituito l'art. 4- bis della legge n. 354/1975. L'istante, infatti, e' stato condannato per il delitto previsto all'art. 416- bis del c.p., ed a norma dell'art. 4-bis, primo comma, parte prima, della legge n. 354 cit., dovrebbe, per accedere ad una misura alternativa alla detenzione, aver collaborato con la giustizia a norma dell'art. 58-ter, l.p. non essendo stata riconosciuta nei suoi confronti neppure la sussistenza di una delle attenuanti ex art. 62 n. 6 o 114 c.p. ovvero applicata la disposizione dell'art. 116 cpv., c.p. Il Collegio non ritiene di condividere l'assunto difensivo, secondo cui, per la dizione letterale della nuova disciplina, questa si riferirebbe solo "ai detenuti e internati" e non invece a coloro che, come il Colaprico, si troverebbero ancora in stato di liberta' per aver ottenuto dal competente p.m. sospesa l'emissione dell'ordine di carcerazione: da un lato, il condannato in via definitiva potrebbe trovarsi in liberta' non gia' per mancanza di una sua pericolosita' sociale (e quindi per non essere stato sottoposto a misure cautelari, ovvero per averne ottenuta la revoca), ma solo perche' i termini massimi della custodia cautelare siano scaduti prima dell'irrevocabilita' della condanna; dall'altro, in seguito alla introduzione dell'art. 14-bis, legge 356 cit., ed alla interpretazione (pur non del tutto pacifica) secondo cui la "pena da espiare in concreto" ai fini dell'ammissione all'affidamento e' quella residua, anche inflitta con un'unica sentenza e per un unico reato, il condannato istante per la misura alternativa potrebbe ottenere di rimanere in liberta', nelle more della decisione del tribunale di sorveglianza, avendo per esempio sofferto un piu' o meno ampio periodo di custodia cautelare, che abbia determinato una pena residua in misura non superiore a tre anni. Altro condannato a pena di egual durata che non possa tuttavia giovarsi di tale presofferto (magari per essere stato reputato meno pericoloso del primo), sarebbe invece costretto a scontare parte della pena prima di proporre istanza di affidamento, che quindi presenterebbe da detenuto (incorrendo cosi' ingiustificatamente, a differenza del primo, nelle preclusioni di legge). Si aggiunga che il condannato non detenuto potrebbe identificarsi con colui il quale, gia' recluso, sia stato scarcerato dal p.m. per aver presentato una (astrattamente ammissibile) domanda di affidamento ex art. 47-bis, l.p. (oggi trasfuso nell'art. 94, d.P.R. n. 309/1990) ovvero di detenzione domiciliare ex art. 47- ter e non si vede perche' la valutazione di costoro dovrebbe ritenersi, in punto di pericolosita' sociale, da quella di chi presenti la domanda di affidamento ordinario diversa dalla detenzione, sol perche' non sia prevista per tale ultima misura la interinale liberazione del condannato. Ritiene, in definitiva, il tribunale, che la situazione del Colaprico, pur beneficiario di un interinale status libertatis, sia soggetta alla normativa del novellato art. 4-bis, l.p., e quindi non puo' non verificarsi dal tribunale se il soggetto, anche dopo la condanna, abbia o meno collaborato con la giustizia ai sensi dell'art. 58-ter, l.p. Tale collaborazione, invero, nella fattispecie non ricorre, giacche' non si evince dalla lettura della sentenza, e' stata negata tanto dal p.m. che ebbe ad occuparsi delle indagini all'epoca, quanto dal comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica (v. nota prefettura di Bari 23 ottobre 1993, e, a ben vedere, non e' stata dedotta neppure dall'interessato. Questo giudice, pertanto, pur non potendo negare che il condannato, dopo trascorsi alquanto burrascosi e dopo il reato accertato con la sentenza in discorso, ha intrapreso un'onesta e apprezzata attivita' lavorativa (per cui ha ricevuto varie attestazioni di stima, cfr. documentazione in atti) ultimando (al 19 luglio 1993 senza rilievi sfavorevoli il periodo di sorveglianza speciale che gli era stato inflitto; pur non potendosi sottacere che egli non ha piu' riportato denunce ne', tantomeno, figurano a suo carico procedimenti penali pendenti, per cui non vi e' prova che egli, ad oggi, mantenga contatti con esponenti di organizzazioni criminali; nonostante tutto cio', questo giudice non potrebbe esaminare nel merito l'istanza di affidamento (quella di semiliberta' e' comunque inammissibile avuto riguardo alla entita' della pena da espiare), e quindi valutare quanto puo' desumersi dall'osservazione della condotta tenuta dal Colaprico in liberta', dovendo necessariamente applicare la citata disposizione del novellato art. 4-bis, l.p., che, come detto, non consente di ammettere a misura alternativa alla detenzione il condannato per l'art.416-bis, c.p., che non abbia collaborato con la giustizia ai sensi dell'art. 58- ter l.p. Il Collegio, tuttavia, come gia' in precedenti occasioni, esprime il convincimento che la novella predetta non possa sottrarsi a dubbi di legittimita' costituzionale, siccome ha denunciato anche il difensore del Colaprico, e la questione, rilevante per la sua evidente pregiudizialita' alla stregua di quanto gia' osservato, si sottopone al giudizio della Corte alla luce delle considerazioni che seguono. Contrasto dell'art. 4- bis legge n. 354/1975, come novellato dall'art. primo comma, prima parte del decreto legge 306/1992, come convertito con la legge 356/1992, con l'art. 25, secondo comma, Costituzione. Le sentenze della Corte costituzionale nn. 306/1993 e 39/1994, gia' intervenute in subiecta materia, non hanno affrontato la questione che in questa sede si ripropone - pur dichiarandola meritevole di una seria riflessione - sul rilievo che fosse stata sollevata in termini troppo estratti dai giudici remittendi. In particolare la Corte rilevava (sent. 306 citato), che il momento temporale cui riferire la pretesa irretroattivita' delle norme in tema di esecuzione penale, avrebbe potuto in astratto coincidere con il tempus commissi delicti, o con la data della irrevocabilita' della condanna, o con l'inizio della esecuzione della sentenza, o con il completamento della fattispecie legale legittimante la richiesta della misura alternativa, o infine con quello di concessione di quest'ultima. Aggiungeva che la disciplina della semiliberta' - che veniva in discorso nei casi allora sottoposti al suo giudizio - aveva subito nel tempo varie modificazioni, vieppiu' da considerare avuto riguardo alle lunghe pene irrogabili per i delitti (artt. 416-bis, 630 c.p.; art. 75, legge 685/1975) cui si riferisce la normativa del novellato art. 4-bis, prima parte, cit., e tenuto conto che di norma alla semiliberta' puo' accedersi solo dopo l'espiazione di meta' della pena; evidenziava infine che i giudici remittendi non avevano indicato nelle loro ordinanze i riferimenti in fatto idonei a precisare quale fosse la legge applicabile in ciascuno dei predetti momenti. Sicche' non poteva giudicarsi la sicura rilevanza nei giudizi a quibus della questione sollevata. Osserva, dunque, il tribunale, che il Colaprico risulta aver riportato la condanna per fatti denunciati nel maggio 1989 e commessi "sino a tale data". Non dispone il collegio della possibilita' di stabilire quando sia iniziata la partecipazione del condannato al sodalizio illecito, non precisamente acclarata neppure in sede di cognizione, ond'e' che quello del maggio del 1989 rimane l'unico dato storicamente certo (potrebbe osservarsi, per altro, che la maggior parte dei reati connessi e giudicati con la stessa sentenza, risultano accertati o consumati negli anni 1987/1988). All'epoca del fatto, pertanto, avendo la legge n. 663/1986 eliminato la previsione dei cosiddetti reati ostativi all'ammissione all'affidamento in prova, gia' previsti dal testo originario della legge n. 354/1975 (l'art. 7, legge n. 646/1982 vi aveva aggiunto la condanna per il delitto di cui all'art. 416- bis c.p.), e non essendo ancora intervenute le modifiche apportate con l'art. 13, della legge 55/1990 e poi con il d.l. n. 152/1991, convertito nella legge n. 203/1991 introduttive del dovere di accertare positivamente, previa assunzione di informazioni presso il comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica, l'attuale insussistenza di collegamenti del condannato con la criminalita' organizzata, il Colaprico avrebbe potuto certamente richiedere di essere ammesso alla misura alternativa, avendo peraltro riportato una condanna a soli anni due e mesi quattro di reclusione, inferiore al limite di legge stabilito all'art. 47 legge n. 354/1975 quand'anche interpretato secondo il canone originario della "pena inflitta", anziche' della pena da espiare in concreto. I momenti diversi e successivi al tempus commissi delicti, cui riferire il divieto di introdurre innovazioni legislative pregiudizievoli al condannato, indicati astrattamente dalla Corte costituzionale (sent. 306 cit.), non rilevano, ad avviso del tribunale, ai fini del giudizio di costituzionalita' con riferimento all'art. 25 cpv., della Costituzione, e cioe' al principio di irretroattivita' delle norme penali, giacche' il precetto costituzionale e la sottostante ratio di garanzia hanno riguardo in modo pacifico ed esclusivo al "fatto commesso", prima del quale deve essere entrata in vigore la disciplina in forza della quale l'autore del reato "e' punito". Potrebbero, quei momenti, assurgere a rilevanza, in quanto implicati da altri ragionamenti ed ai fini di diverse argomentazioni, nel quadro di altro giudizio di legittimita' costituzionale delle norme esaminate, per esempio con riferimento al principio di ragionevolezza ovvero a quello di uguaglianza, di cui all'art. 3, Costituzione; ma tali questioni in collegio non ritiene di dover qui sollevare, giacche' affrontate direttamente o per implicito, e risolte nel senso della infondatezza, dalla citata sentenza Corte costituzionale n. 306/1993 Vengono, pertanto, nella specie considerati solo due momenti: quello del fatto, in cui, come illustrato, il Colaprico non poteva rilevare limite alcuno nell'esercitare il suo (futuro) diritto di azione per l'ottenimento dell'affidamento, con riguardo agli elementi da lui conoscibili in quel momento, e in particolare a quelli legati al titolo del reato commesso; e quello del giudizio del tribunale di sorveglianza, chiamato ad applicare uno jus superveniens indubbiamente deteriore per la condizione del condannato, giacche' prevede una nuova fattispecie complessa, comprendente un onere, quello della collaborazione con la giustizia, particolarmente gravoso giacche' puo' comportare la esposizione della persona di chi lo adempie a gravi rischi per la incolumita' propria e di terzi a lui vicini. D'altro canto, si evidenzia che chi non vi ottemperi dovra' scontare necessariamente ed interamente la sua pena nell'Istituto penitenziario. Le normative succedutesi tra il momento del reato commesso dal Colaprico - come detto sino al maggio 1989 - ed il momento del giudizio del tribunale di sorveglianza, 17 marzo 1994 non spiegano dunque alcuna rilevanza ai fini che qui interessano, ancorche' avessero gia', prima dell'entrata in vigore dell'ultima normativa, precluso al condannato l'accesso al giudizio per l'ammissione all'affidamento. Il tribunale, infatti, e' chiamato ad applicare - delibandone eventualmente la legittimita' costituzionale - solo la disciplina vigente, e non gia' normative abrogate. Nel merito, finalmente, si osserva che e' indubbio che la disciplina qui sospettata d'incostituzionalita' ha riformato in peius la condizione del Colaprico, imponendogli alternativamente, o la condotta potenzialmente per lui pregiudizievole sopra descritta (collaborazione con la giustizia), ovvero la certa espiazione della pena detentiva inflittagli, in regime carcerario. Di fatto, poiche' l'istante non risulta aver offerto la collaborazione sopradetta, dovrebbe rinunciare all'aspettativa - che nasce dalla buona condotta osservata negli ultimi anni - e che avrebbe potuto far valere secondo la legge del tempus commissi delicti - a non espiare invece la pena detentiva, sottoponendosi in sostituzione ad un periodo di prova da cui sarebbe potuta derivare la estinzione della pena stessa. Se si condivide che la ratio di garanzia, sottesa al principio costituzionale di irretroattivita' delle norme che disciplinano la punizione ("nessuno puo' essere punito .." recita l'art. 25 cpv., della Costituzione) di un soggetto riconosciuto autore di un reato, risiede nel precludere allo Stato il potere di deteriorare la condizione giuridica di determinati condannati, individuati cioe' post factum, con riguardo agli effetti giuridici afflittivi che trovano il loro presupposto nell'accertata colpevolezza per un reato, non puo' non ritenersi che l'aver posto, con la norma denunciata, il condannato nella alternativa suddescritta origini quantomeno il ragionevole sospetto che la stessa norma violi il principio costituzionale. Si consideri, peraltro, che di fatto e nella gran parte dei casi il condannato, per timore delle possibili conseguenze, non collabora con la giustizia e cosi' rinuncia forzatamente a demandare l'ammissione alla misura alternativa (il non collaborare non puo' neppure reputarsi segno di mancato ravvedimento, cosi' come la collaborazione non sempre e' sintomo di una sincera volonta' di riscatto sociale del suo autore). Pertanto, la pratica conseguenza della normativa denunciata e' quella di aver di fatto precluso, con efficacia retroattiva, la possibilita' che determinati condannati chiedano di non sottostare alla pena detentiva (sostituita con un periodo di prova, al cui esito favorevole la pena rimarrebbe estinta) anziche' di espiarla; ovvero, se si preferisce, di sottostare ad una misura penale non detentiva in luogo della pena inflitta con la sentenza di condanna. Questa modifica in peius e' di portata tale che non sembra legittimamente applicabile post factum, nei confronti di persone individuabili, e d'altronde la stessa Corte costituzionale ha piu' volte rimarcato (sent. n. 306/1993 citata) che la novella de qua e' ispirata alla finalita' di prevenzione generale della pena, che il legislatore ha legittimamente ritenuto di far prevalere sull'altra, pur non obliterata (per il riconoscimento a tutti i condannati del diritto di chiedere la liberazione anticipata), della rieducazione; percio' condividendo la Corte che la nuova disciplina introduce inasprimenti nel regime punitivo dei condannati per determinati reati, che sembra non potersi quindi sottrarre all'osservanza del principio d'irretroattivita'.