LA CORTE DEI CONTI Ha pronunciato la seguente ordinanza n. 1/94/ord. nel giudizio di pensione, iscritto al n. 5508/C del registro di segreteria, promosso dal dott. Giuseppe Tristano contro la Presidenza del Consiglio dei Ministri e la corte dei conti, nelle persone dei rispettivi presidenti pro-tempore, per la modifica del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri in data 28 febbraio 1992 relativo alla determinazione del trattamento di quiescenza; Visti gli atti e i documenti di causa; Udito all'udienza del 21 ottobre 1993 il relatore, consigliere dott. Luciano Pagliaro. F A T T O Il dott. Tristano Giuseppe, gia' magistrato della Corte dei conti, cessato dal servizio il 13 gennaio 1985 con la qualifica di presidente della Corte dei conti, ha impugnato il decreto del presidente del Consiglio dei Ministri del 28 febbraio 1992, con il quale e' stata riliquidata, a decorrere dal 1 gennaio 1991, la pensione in godimento, in esecuzione delle decisioni di questa sezione n. 2/89/C, 7/90/C e 10/90/C, lamentando, in sostanza, l'errata determinazione del trattamento di quiescenza in relazione agli anni di servizio effettivamente svolto, nonche' l'attribuzione, ai sensi dell'art. 1, sesto comma, e dell'ultima parte dell'art. 2, primo comma, della legge 8 agosto 1991, n. 265, a titolo di assegno ad personam riassorbibile con i futuri miglioramenti della differenza tra l'importo della pensione calcolata in base al diverso trattamento spettante secondo le disposizioni di cui all'art. 1, quarto e quinto comma, e all'art. 2, primo e secondo comma, della medesima legge e quello corrisposto in esecuzione delle citate decisioni giurisdizionali. In particolare, quanto al primo punto, ritiene l'interessato che l'amministrazione abbia errato nel non calcolare, nella determinazione del trattamento di quiescenza, gli anni di studio universitario, costituenti servizio effettivo ai fini pensionistici e, peraltro, computabili senza necessita' di riscatto. Con la conseguenza che 12 e non 8 sarebbero gli anni di servizio militare che concorrerebbero alla determinazione della base pensionabile. Relativamente al secondo punto, il ricorrente ha osservato che l'assegno ad personam dovrebbe concernere soltanto le maggiori somme corrisposte in conseguenza dell'interpretativo dell'art. 5 della legge n. 425/1984 difforme da quella indicata dall'art. 4 della legge n. 265/1991 e non anche quelle che gli sono state liquidate in relazione agli adeguamenti periodici previsti dall'art. 2 della legge 19 febbraio 1981, n. 27, posto che questi ultimi benefici economici non sarebbero compresi nell'ambito delle recenti disposizioni interpretative. D I R I T T O Il primo motivo di ricorso e' certamente infondato, posto che l'amministrazione ha esattamente calcolato nella qualifica di presidente di sezione l'importo corrispondente alle (8) classi e agli aumenti biennali (14) maturati dal ricorrente nella posizione di provenienza (presidente di sezione). E', poi, evidente che l'interessato confonde nelle motivazioni a sostegno della sua pretesa tra il servizio computabile ai fini della determinazione dell'anzianita' utile ai fini di quiescenza, anzianita' che comunque e' irrilevante ai fini del quantum allorche', come nel caso, l'interessato raggiunga comunque il limite massimo dei quaranta anni, e quello influente ai fini della determinazione della retribuzione da assumere quale base pensionabile, finendo per chiedere, in effetti, il riconoscimento degli anni di studio universitario (in ragione della sua precedente appartenenza al ruolo degli ufficiali in s.p.e.) nella qualifica attribuitagli al momento del collocamento a riposo. Tale riconoscimento, pero', non e' previsto affatto dall'art. 5 della legge n. 425/1984, che, come si vedra', prevede un meccanismo di calcolo della retribuzione del magistrato nel momento di passaggio di qualifica collegato alla posizione economica conseguita nella qualifica di provenienza. Il secondo motivo di ricorso, che e' diretto, in sostanza, a contestare in radice la legittimita' della trasformazione di parte della pensione in assegno personale riassorbibile, dovrebbe ugualmente essere disatteso alla luce delle disposizioni recate dall'art. 1, quarto e sesto comma e dall'art. 2, primo comma, della legge 8 agosto 1991, n. 265. Senonche' tali disposizioni appaiono contrastare con i precetti costituzionali per i seguenti motivi. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 501 del 1988, ha statuito l'illegittimita' costituzionale degli artt. 1, 3, primo comma, e 6 della legge 17 aprile 1985, n. 141, nella parte in cui, in luogo degli aumenti ivi previsti, non disponevano a favore dei magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari, nonche' dei procuratori e avvocati dello Stato, collocati a riposo anteriormente al 1 luglio 1983, la riliquidazione, a cura delle amministrazioni competenti, della pensione sulla base del trattamento economico derivante dall'applicazione degli artt. 3 e 4, legge 6 agosto 1984, n. 425, con decorrenza dalla data del 1 gennaio 1988. In aderenza ai principi affermati dal giudice delle leggi nella predetta sentenza, le sezioni di questa Corte, a partire dalla decisione delle sezioni riunite n. 76/C del 14 novembre 1988, univocamente ritennero, adottando conseguenti decisioni nell'ambito di numerosi giudizi promossi dai pensionati interessati, che la riliquidazione delle pensioni avrebbe dovuto essere effettuata, con decorrenza dal 1 gennaio 1988, sulla base delle misure stipendiali vigenti a tale data, comprensive degli adeguamenti periodici previsti dall'art. 2 della legge 19 febbraio 1981, n. 27 e applicando i benefici recati dagli artt. 3 e 4 della legge n. 425/1984. L'unico contrasto interpretativo tra le sezione ha riguardato il problema dell'operativita' o meno per il futuro del meccanismo di adeguamento automatico delle retribuzioni (art. 21. 27/81) anche nell'ambito dei trattamenti di quiescenza. (Corte costituzionale sent. n. 42 del 28 gennaio-10 febbraio 1993). Questa sezione si e' costantemente orientata nel senso dell'operativita'. Esaminando un precedente ricorso giurisdizionale proposto dal dott. Tristano, questa sezione, (dec. n. 7/90/C del 4 aprile 1990), ha dichiarato, in particolare, sulla base di analoga affermazione contenuta nella citata decisione delle sezioni riunite, il suo diritto alla riliquidazione della pensione, tenuto conto delle misure stipendiali aggiornate al 1 gennaio 1988, secondo i criteri prima cennati, considerando la necessita' di estendere la riliquidazione al 1 gennaio 1988 anche al personale che, come il ricorrente, fosse cessato nel periodo compreso tra il 1 luglio 1983 (data cui ha esclusivo riferimento la sentenza della Corte costituzionale n. 501 del 1988 per determinare i suoi destinatari) e l'1 gennaio 1988, poiche' diversamente si sarebbe verificata l'assurda conseguenza di riconoscere ai pensionati da data piu' recente un trattamento inferiore rispetto a quello che, per effetto della predetta sentenza del giudice delle leggi, veniva ad essere giudizialmente attribuito a quelli collocati a riposo in data antecedente al 1 luglio 1983. Giudicando su altro ricorso del dott. Tristano, questa sezione, con la decizione 10/90/C del 4 aprile 1990, (riconosciuta la propria giurisdizione in vista del fatto che la questione controversa, sebbene riferita ad un momento nel quale l'interessato era ancora in attivita' di servizio, rilevava esclusivamente ai fini della determinazione della pensione e non anche del trattamento di attivita') ha statuito che, ai sensi dell'art. 5 della legge n. 425 del 1984, il trattamento di quiescenza liquidato al dott. Tristano nella qualifica di Presidente della Corte dei conti, attribuita all'atto del collocamento a riposo ai sensi della legge n. 336 del 1970, avrebbe dovuto assumere come base pensionabile, diversamente da quanto disposto dall'amministrazione (che aveva tenuto conto della sola anzianita' relativa agli anni di servizio effettivo svolto nella qualifica di provenienza), lo stipendio iniziale della nuova qualifica maggiorato dell'importo corrispondente alle classi o aumenti biennali comunque maturati nella posizione di provenienza. Con questa seconda decisione, la sezione non ha fatto altro che confermare in sede pensionistica una giurisprudenza amministrativa assolutamente sul punto, e d'altra parte, ormai da molti anni le amministrazioni interessate hanno confermato la propria azione all'interpretazione suddetta. Con la decisione n. 2/89/C del 14 marzo 1989, questa sezione affermava, infine, il diritto del ricorrente a conseguire il pagamento della rivalutazione monetaria e degli interessi legali anche in relazione alle maggiori somme che erano risultate a lui dovute anche sul trattamento di quiescenza (oltre che su quello di attivita'), a seguito di una pronuncia del giudice amministrativo passata in giudicato. Tale decisione, pero', contrariamente a quanto si afferma nel provvedimento impugnato, e' estranea alla determinazione del Presidente del Consiglio dei Ministri del 28 febbraio 1992, posto che non si dispone nulla in ordine alla rivalutazione monetaria e agli interessi di cui alla decisione giurisdizionale. E, d'altra parte, essa non viene assolutamente in rilievo ai fini che qui interessano. Nelle more dell'esecuzione delle decisioni sopra indicate, e' stata emanata la legge 8 agosto 1991, n. 265, che, per cio' che qui interessa, prevede che: 1) per importo corrispondente alle classi o aumenti biennali maturati nella posizione di provenienza, di cui all'art. 5 della legge 6 agosto 1984, n. 425, deve intendersi l'incremento acquisito per classi e aumenti periodici derivanti dalla progressione economica relativa alla sola anzianita' di servizio effettivamente prestato nella posizione di provenienza (art. 1, quarto comma); 2) le pensioni spettanti ai magistrati ordinari, amministrativi, contabili, militari, nonche' ai procuratori ed avvocati dello Stato, collocati a riposo anteriormente al 1 luglio 1983, sono riliquidate sulla base delle misure stipendiali vigenti, in applicazione degli articoli 3 e 4 della legge 6 agosto 1984, n. 425, alla data del 1 luglio 1983, con esclusione degli adeguamenti periodici previsti dall'art. 2 della legge 19 febbraio 1981, n. 27 (art. 2, primo comma, prima parte); 3) gli eventuali maggiori trattamenti spettanti o in godimento, conseguenti ad interpretazioni difformi da quelle stabilite dal quarto comma, dell'art. 1 e dal primo comma dell'art. 2, sono conservati ad personam e sono riassorbiti con la normale progressione economica di carriera o con i futuri miglioramenti dovuti sul trattamento di quiescenza (art. 1, sesto comma, e art. 2, primo comma, ultima parte). Si tratta come appare evidente, di tre distinti gruppi di disposizioni: una prima disposizione di interpretazione autentica del diritto vigente la quale, relativamente all'art. 5 della legge 6 agosto 1984, n. 425, in senso antitetico a quello accolto da questa sezione nelle sue decisioni, nega che, con riguardo al diritto previgente avessero fondamento le pretese relative alla quantificazione della base pensionabile, nel caso di passaggio alla qualifica superiore, secondo il criterio delle maggiorazioni dello stipendio iniziale previsto per la nuova posizione dell'importo corrispondente alle classi o aumenti biennali comunque conseguiti nella precedente qualifica (art. 1, quarto comma); altra disposizione, disattendendo l'interpretazione data dai giudici di merito alla sentenza additiva della Corte costituzionale n. 501 del 1988, esclude, in sostanza, che avessero fondamento le pretese relative alla riliquidazione delle pensioni sulla base delle misure stipendiali vigenti, in applicazione degli articoli 3 e 4 della legge 6 agosto 1984, n. 425, e con il computo degli adeguamenti periodici di cui all'art. 2 della legge 19 febbraio 1981, n. 27, alla data del 1 gennaio 1988 (art. 2, primo comma, prima parte); disposizioni innovative con le quali viene dettata una nuova disciplina della materia, da valere per l'avvenire, ispirata a principi estremamente restrittivi rispetto a quelli posti dalle previgenti norme sullo stato economico del personale di magistratura ed equiparato, e indifferenti, in particolare, a quelle esigenze di costante adeguamento delle pensioni alle retribuzioni, la cui tutela piu' volte la Corte costituzionale ha riconosciuto corrispondere a specifiche norme dalla nostra Carta fondamentale (art. 1, primo, secondo, terzo e quinto comma, art. 2, secondo comma); disposizioni transitorie riferite indistintamente a tutti i trattamenti spettanti o in godimento, derivanti sia da provvedimenti dell'amministrazione spontaneamente adottati nell'ordinaria attivita' di esecuzione, sia provvedimenti emessi in esecuzione di pronunce giurisdizionale passate in giudicato, con le quali si prevede un riassorbimento graduale dei benefici ricevuti in seguito ad interpretazioni difformi da quelle dichiarate autentiche (art. 1, sesto comma, e art. 2, primo comma, ultima parte). In esecuzione delle richiamate decisioni di questa sezione, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, con il provvedimento impugnato, ha correttamente rideterminato il trattamento di quiescenza del dott. Tristano, ma, all'art. 2 del decreto, ha stabilito, ai sensi dell'art. 1, sesto comma, della legge n. 265/1991, di attribuire parte (L. 108.769.000 a fronte di un totale di L. 208.731.500 a.l.) di tale trattamento a titolo di assegno ad personam riassorbibile con i futuri miglioramenti. In attuazione dello ius superveniens, dunque, cio' che il giudice aveva attribuito all'interessato a titolo di pensione (e cioe', il diritto al computo nella base pensionabile dello stipendio iniziale della qualifica di presidente della corte dei conti maggiorato degli importi per classi di stipendio e aumenti biennali maturati nella qualifica di presidente di sezione, ai sensi dell'art. 5 della legge n. 425 del 1984, e il diritto alla riliquidazione della pensione, a decorrere dal 1 gennaio 1988, secondo le misure stipendiali vigenti a tale data per il personale in servizio, nonche' a conseguire per il futuro gli adeguamenti ex art. 2 della legge 27 del 1981, in attuazione della sentenza della Corte costituzionale n. 501 del 1988) viene ad essere trasformato, per effetto delle disposizioni di cui al quarto comma dell'art. 1 e al primo comma dell'art. 2 della legge 265 del 1991, in assegno personale destinato a precludere al pensionato (vita natural durante, nel caso di specie, considerato che l'importo dell'assegno e' maggiore addirittura dell'importo liquidato a titolo di pensione) l'attribuzione dei futuri miglioramenti economici fino al riassorbimento. Ritiene il collegio che le disposizioni di cui all'art. 2, primo comma, e all'art. 1, sesto comma, della legge 8 agosto 1991, n. 265, siano in contrasto rispettivamente con gli artt. 136 e 24 della Costituzione. Quanto alla prima disposizione, deve rilevarsi, in primo luogo, che essa e' diretta a disciplinare soltanto gli effetti gia' prodottisi nella sfera giuridica degli interessati (tant'e' che e' destinata al personale cessato prima del 1 luglio 1983) per effetto della piu' volte citata sentenza della Corte costituzionale n. 501 del 1988, mentre la regolamentazione della materia per il futuro e' affidata al successivo secondo comma. Ne deriva che la questione di legittimita' costituzionale qui sollevata, se accolta, inciderebbe soltanto sulle situazioni antecedenti all'entrata in vigore della legge n. 265 del 1991, senza pregiudicare l'applicazione delle norme sopravvenienti a carattere innovativo. In questo senso, la questione e', percio', rilevante, posto che dalla dichiarazione d'illegittimita' costituzionale dell'art. 2, primo comma, della predetta legge, deriverebbe specificamente la possibilita' del ricorrente di conservare a titolo di pensione e non di assegno personale riassorbibile, le maggiori somme attribuitegli con la decisione di questa Corte n. 7/90/C sopra citata e non implica denuncia di illegittimita' costituzionale delle norme innovative. Deve evidenziarsi, poi, che la questione di costituzionalita', sebbene riguardi anche il problema interpretativo circa l'operativita' per il futuro dell'adeguamento automatico ex art. 2 della legge n. 27 del 1981, fino ovviamente all'entrata in vigore della legge n. 265 del 1991 che tale operativita' ha ora escluso, concerne soprattutto i criteri adottati in specie per la determinazione della riliquidazione della pensione alla data del 1 gennaio 1988. Gia' in precedenza questa sezione aveva posto, nel corso di altro giudizio, la medesima questione, sotto il diverso profilo della incompatibilita' della norma con i principi costituzionali in relazione, pero', anche all'assetto futuro e non solo passato del rapporto pensionistico, che la Corte costituzionale (sentenza n. 42 del 28 gennaio-10 febbraio 1993) non ha affrontato direttamente, ritenendola, probabilmente assorbita nell'ambito della affermazione di carattere generale circa la sussistenza nella materia della discrezionalita' del legislatore. Nella specie, invece, la questione viene posta in relazione ai soli effetti della sentenza della Corte costituzionale n. 501 del 1988 verificatisi prima dell'entrata in vigore della legge n. 265 del 1991. E, in tale prospettiva, non sembra dubbio che la norma denunciata si ponga in netto contrasto con l'art. 136 della Costituzione. Non spetta, infatti, al legislatore interpretare o comunque disporre, anche con norma formalmente autonome e indipendenti dalla pronuncia costituzionale, in ordine agli effetti che derivano direttamente dalle decisioni del giudice delle leggi. E' questo un compito esclusivamente riservato al giudice di merito. Ne deriva che, in ogni caso, la norma denunciata, anche quando dovesse essere perfettamente in linea con il contenuto della sentenza della Corte costituzionale che pretende di interpretare o applicare, e' viziata da assoluta carenza di competenza legislativa. Tanto piu' l'affermazione vale, ovviamente, allorche' come nel caso, la norma denunciata appare ispirata a scopi diversi da quelli semplicemente esecutivi della sentenza costituzionale e che, per di piu', si pongono in palese contrapposizione sia con i principi costituzionali a fondamento della pronuncia che con l'interpretazione giurisprudenziale pacifica (sui principali punti che concernono i criteri di riliquidazione delle pensioni al 1 gennaio 1988, salvo che per la applicabilita' anche per il futuro del meccanismo di adeguamento automatico ex art. 2 della legge n. 27 del 1981). E' chiaro che rientra, invece, nel potere del legislatore dettare una diversa disciplina per il tempo posteriore a quello cui fa riferimento la sentenza della Corte costituzionale. Ma e' questa questione che nella specie non viene in rilievo. Quanto alla disposizione di cui all'art. 1, sesto comma, della legge n. 265 del 1991, cui rinvia anche l'ultima parte del primo comma del successivo art. 2, deve rilevarsi che la legge n. 265 del 1991 per la sua natura formale di norma interpretativa dovrebbe fornire al giudice il significato autentico delle disposizioni interpretate, affinche' egli applicandole al caso singolo sottoposto alla sua cognizione decida il merito della causa. In realta', essa sopravvive quando si e' ormai da tempo formata sulla materia una serie di pronunce giudiziali passate in cosa giudicata e quando la norma autenticamente interpretata (ci si riferisce, in particolare, all'art. 5 della legge n. 525/85, ma lo stesso discorso vale anche per la sentenza della Corte costituzionale n. 510 del 1988) ha da molti anni ricevuto da parte delle competenti amministrazioni, vuoi sulla base di giudicati amministrativi, vuoi per iniziativa delle stesse amministrazioni, presa magari per estendere ai non ricorrenti gli effetti dei numerosi giudicati intervenuti sulla vicenda, applicazione concreta nei confronti di tutti i dipendenti destinatari. E' evidente allora che il legislatore non ha voluto in effetti fornire ai giudici il criterio interpretativo della norma preesistente a fini nomofilattici, ma piuttosto ha inteso togliere effetti, almeno parziali, ed efficacia alle decisioni gia' definitivamente assunte tanto nella sede giudiziaria che in quella amministrativa, sostanzialmente vanificando, nelle ipotesi come quello in esame, perfino gli effetti e l'efficacia del giudicato, ed obbligando gli interessati quantomeno ad onerose reiterazioni della relativa azione. Come osservato dalla Corte costituzionale nella sentenza 7-10 aprile 1987, n. 123, in tal modo il legislatore viola il valore costituzionale del diritto di agire, che implica il diritto del cittadino non solo ad ottenere una sentenza di merito senza onerose reiterazioni, ma anche quello di potere contare sull'esecuzione e sull'intangibilita' della sentenza di merito passata in giudicato a lui favorevole. Anche questa seconda questione e' rilevante, poiche' soltanto dall'annullamento della norma denunciata deriva la possibilita' del ricorrente di fruire a titolo di trattamento di quiescenza delle maggiori somme attribuitegli con la decisione di questa sezione n. 10/90/C del 4 aprile 1990, passata in giudicato.