IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa contro Vinci Gianbruno, nato il 23 giugno 1963 a Siracusa, atto di nascita n. 1065/I/A, residente a Doberdo' del Lago (Gorizia) in via Martiri della Liberta', coniugato, incensurato, Appuntato dei carabinieri nella stazione carabinieri di Trieste, libero, imputato di duplice ingiuria aggravata, in concorso formale (artt. 226 e 47 n. 2 del C.p.m.p.; 81 C.p.) perche', appuntato presso la stazione carabinieri di Doberdo' del Lago (Gorizia) il giorno 5 agosto 1993, nei pressi della medesima Stazione carabinieri offendeva l'onore ed il decoro dell'appuntato carabinieri Rivano Sergio e del Brigadiere dei Carabinieri Perna Luigi dicendo loro "Siete tutti stronzi", con l'aggravante di essere un militare rivestito di un grado (art. 47 n. 2 C.p.m.p.). O S S E R V A 1. - Al dibattimento odierno a carico di Vinci Gianbruno, appuntato dei carabinieri, e' emerso che il 5 agosto 1993, transitando libero da impegni di servizio alla guida della propria vettura dinanzi alla stazione carabinieri di Doberdo' del Lago (Gorizia), il predetto imputato, avendo aperto il finestrino, profferiva all'indirizzo dell'appuntato dei carabinieri Rivano e del brigadiere Perna, che trovavansi in abiti civili, non in servizio, dinanzi alla caserma sede del predetto reparto, in compagnia delle rispettive consorti, la frase: "siete tutti stronzi³". E' anche risultato che vi erano stati precedenti attriti tra i vari militari - coinvolgenti anche le rispettive famiglie - per questioni condominiali nell'immobile adibito ad alloggio di servizio. Nelle conclusioni, la difesa, tra l'altro, ha sollevato questione di legittimita' costituzionale dell'art. 226 del c.p.m.p., con riferimento all'art. 199 del c.p.m.p., in relazione all'art. 3 della Costituzione, per la mancata previsione di specifiche condizioni che limitino l'applicabilita' dell'art. 226 del c.p.m.p. "a ragioni di servizio o di disciplina", come per i reati di insubordinazione ed abuso di autorita' (art. 199 del c.p.m.p.). Il p.m. non si e' opposto, chiedendo anzi che la questione sia sollevata anche con riferimento all'art. 37 del c.p.m.p., in relazione all'art. 3 della Costituzione. 2. - Ritiene il tribunale che non sia infondata, nei termini di cui appresso si dira', la questione prospettata dalla difesa. L'art. 226 del c.p.m.p. (ingiuria) - come d'altronde gli altri reati contro la persona contenuti nel libro secondo, titolo quarto, capo terzo (percosse, lesione personale, diffamazione e minaccia) - si applicano per il sol fatto che il soggetto attivo e passivo rivestano la qualita' di militare. In riferimento a tali fattispecie non vi e' alcuna specifica disposizione normativa che ponga limitazioni ai relativi ambiti di applicabilita'. Cosi', circoscrivendo il campo all'ipotesi di ingiuria di cui all'art. 226 (ma le medesime considerazioni potrebbero formularsi per gli artt. 222, 223 e 229 del c.p.m.p.), all'interno di essa vanno ricondotti: 1) fatti criminosi tra parigrado, che presentino requisiti di "intraneita'" al servizio o alla disciplina militare, commessi in qualsiasi luogo (militare o civile); 2) fatti tra parigrado, commessi per motivi privati in luogo civile o militare; 3) fatti a danno di soggetti aventi grado inferiore o superiore ma avvenuti per "cause estranee al servizio ed alla disciplina" (art. 199 c.p.m.p.). L'art. 226 del c.p.m.p. - comprendente le eterogenee menzionate categorie di fatti - e', comunque, sempre, "reato militare" ai sensi dell'art. 37, primo comma, del c.p.m.p., secondo cui "qualunque violazione della legge penale militare e' reato militare". La dottrina e la giurisprudenza prevalente hanno costantemente ritenuto che tale enunciazione costituisca la nozione di reato militare e, violando le regole della sillogistica, hanno tradotto la frase nella proposizione inversa, secondo cui "qualunque reato militare e' violazione della legge penale militare". Ne e' seguito un sistema estremamente formalistico, in cui il mero dato dell'inclusione in una legge penale militare - definita tale dal legislatore - vincola l'interprete e comporta, quindi, senz'altro, la qualificazione del fatto come "reato militare", con conseguente negazione di ogni spazio interpretativo, funzionale rispetto ad una nozione che tenga conto, in modo sostanziale ed appagante, della "militarita'" del bene giuridico leso. Al riguardo, pero', si osserva che l'art. 103 ultimo comma della Costituzione, secondo cui i tribunali militari "in tempo di pace hanno giurisdizione soltanto per i reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate, con riferimento specifico al limite oggettivo, non puo' non comportare che si accerti il "carattere obiettivamente militare dei reati previsti dalla legge penale militare" (Corte costituzionale 8 aprile 1958, n. 29), in quanto la detta norma costituzionale "non puo' introdurre un effettivo limite, se non sottendendo una nozione di reato militare di carattere contenutistico, desumibile dalla stessa Corta costituzionale" (Corte costituzionale, 5 giugno 1980, n. 81). Il che puo', poi, inequivocabilmente desumersi, dall'avverbio rafforzativo: "soltanto". Ne consegue che l'art. 37 del c.p.m.p., facendo dipendere dal solo dato formale la qualifica di un fatto come reato "militare", fa si' che tale definizione giuridica si attagli, oltre che a fatti lesivi di interessi militari, anche ad episodi non aventi tali connotati. Nella specie, cio' e' evidente, trattasi di fattispecie che non esplica alcuna - neppure astratta - lesivita' su beni o interessi militari. Per quanto detto, la nozione di reato militare di cui all'art. 37 del c.p.m.p. pecca per difetto e per eccesso: per difetto, in quanto non ricomprende nel suo ambito ogni fatto lesivo di interessi militari (ne esulano la corruzione, l'abuso d'ufficio, la concussione, il peculato d'uso, l'omicidio tra parigrado ecc.); per eccesso in quanto vi rientrano fatti estranei alla tutela degli stessi. Sotto tale profilo, e' ravvisabile una violazione dell'art. 103 della Costituzione: infatti, quest'ultimo, seppur non definisca il concetto di "reato militare" e ne rinvii la formulazione ad altra non specifica fonte, impone - come soluzione, quindi, costituzionalmente obbligata - che esso sia "definito come violazione di legge penale posta a tutela di valori afferenti l'istituzione militare, esplicitamente o implicitamente garantiti dalla Carta costituzionale" (Corte costituzionale 5 giugno 1980, n. 81). Il dubbio di costituzionalita' investe, percio' l'art. 37 primo comma del c.p.m.p., in relazione all'art. 103, ultimo comma, della Costituzione. La questione non puo' poi non estendersi anche all'art. 226 del c.p.m.p. che, in base al citato art. 37, e' reato militare anche quando ha ad oggetto fatti - come quello in esame - privi di lesivita' di interessi militari. 3. - Deve inoltre rilevarsi un profilo ulteriore di incostituzionalita' dell'art. 37 del c.p.m.p., in riferimento all'art. 3 della Costituzione. L'inquadramento di un fatto nell'ambito di una figura di reato contenuta nel codice penale militare ne comporta la definizione, come detto, di "reato militare" e quindi l'applicazione della speciale disciplina che si discosta da quella ordinaria per molteplici aspetti: pene principali ed accessorie (e relativa esecuzione), cause di giustificazioni, circostanze attenuanti ed aggravanti speciali (artt. 47, 48 del c.p.m.p.). Inoltre - sebbene sia pienamente applicabile il nuovo rito comune anche al processo militare - e' tuttora vigente la richiesta di procedimento del comandante di corpo (art. 260 del c.p.m.p.), dal momento che nei reati militari contro la persona (artt. 222 - 229 del c.p.m.p.), sarebbe sempre insita "un'offesa alla disciplina ed al servizio, una lesione di un interesse eminentemente pubblico, che non tollera subordinazione all'interesse privato caratteristico della querela" (sentenza n. 42/1975 e 449/1991). Bisogna pero' tener conto, a parere del tribunale, che vi sono fatti che non presentano elemento alcuno di interferenza con beni o interessi pur lato sensu militari e che pur vengono sottoposti alla speciale disciplina. Tra questi emergono i fatti di ingiuria - come quello in esame - commessi per motivi ed in situazioni assolutamente estranee al servizio ed alla disicplina. Gli effetti discriminatori che ne derivano sono chiari: fatti lesivi di interessi solamente "comuni" vengono sottratti alla loro naturale disciplina, quella comune, per essere assoggettati a quella militare; per altro verso, medesimo trattamento sanzionatorio viene comminato, in base alla normativa penale militare a fatti eterogenei, quanto all'interesse leso, tra loro, come sopra specificato. Di qui il profilo di incostituzionalita' dell'art. 37, del c.p.m.p. in relazione all'art. 3 della Costituzione. 4. - Ma anche a voler considerare la questione con piu' specifico riferimento all'art. 226 del c.p.m.p., ricorrono elementi di incostituzionalita' di questo ultimo, in relazione all'art. 3 della Costituzione. Come accennato, nella disciplina dei reati contro la persona (artt. 222-229 c.p.m.p.) sono riconducibili tutti i fatti commessi da militare in danno di militare, senza ulteriori connotazioni limitative. Non si ignora certo che nell'ambito militare - che costituisce forma obbligata di convivenza sociale - devono prevalere "esigenze di ordine e disciplina rinforzati" (Corte costituzionale 12-18 luglio 1984 n. 213) che giustificano il ricorso alla speciale e piu' intensa tutela penale militare; vero e' pero' che la norma qui impugnata - art. 226 del c.p.m.p. - ricomprende, come gia' accennato, anche fatti che non sono caratterizzati da alcuna afferenza con esigenze del servizio e della disciplina militare, ai quali, pur in assenza di qualsiasi collegamento con l'ordinamento militare, si applica la normativa speciale del c.p.m.p. Gli effetti disciminatori sul piano pratico sono molteplici: per un fatto sostanzialmente "comune" di ingiuria sara', ad esempio, concedibile l'attenuante della "ottima condotta militare" (art. 48 ultimo comma del c.p.m.p.) o addebitabile l'aggravante del grado rivestito (art. 47 n. 2 del c.p.m.p.). La decisione poi circa la perseguibilita' sara' sottratta alla parte lesa ed affidata al Comandante di corpo, che dovra' valutare inesistenti riflessi di natura pubblicistica (Corte costituzionale nn. 397/1987, 42/1975 e 449/1991) in ordine ad un fatto che e' ontologicamente meramente privato. Senza contare che esso, essendo considerato reato militare, e' sottoposto (art. 263 del c.p.m.p.) alla giurisdizione militare; che, non essendo perseguibile a querela, non e' ammissibile il tentativo di conciliazione (art. 564 del c.p.p.) ne' la rimettibilita' della condizione di procedibilita'. Vicende che, invece, comporterebbero, se qualificato il reato come comune, effetti favorevoli al reo. Se ne deduce l'irrazionalita' della norma penale di cui all'art. 226 del c.p.m.p. - e quindi la violazione dell'art. 3 della Costituzione - nella parte in cui non sono previsti limiti all'applicabilita' della stessa. Al riguardo, la difesa, nel sollevare la questione di costituzionalita', ha suggerito come tertium comparationis, per la determinazione dei limiti della fattispecie di cui all'art. 226, la disposizione di cui all'art. 199 del c.p.m.p., che stabilisce le condizioni di applicabilita' della normativa sull'insubordinazione ed abuso di autorita' e che potrebbe anche costituire un valido riferimento ad acta finium regundorum tra ingiuria comune (art. 594 c.p.) e ingiuria militare (art. 226 del c.p.m.p.). Tale tesi - pur obbedendo alla pregevole finalita' di ricavare dal sistema elementi normativi che integrino la fattispecie di cui all'art. 226 del c.p.m.p., cosi' da fissare il petitum della questione con riferimento a precisi parametri - non appare pero' tener conto che la normativa dell'insubordinazione ed abuso di autorita', essendo a sua volta speciale nell'ambito della materia penale militare, risponde all'esigenza di "tutelare l'irrinunciabile bene della disciplina militare, che comporta che durante il servizio siano rigorosamente garantiti il rispetto del rapporto gerarchico intercorrente tra superiore ed inferiore e l'osservanza da parte del primo dei doveri di comportamento inerenti alla sua funzione". Essa deve percio' essere applicata in tutti i casi in cui "la connotazione obiettivamente militare faccia venire in gioco il bene della disciplina e, quindi, la rilevanza del rapporto gerarchico" (Corte costituzionale, 17-24 gennaio 1991 n. 22). Diversamente, nei fatti del tipo di quello in esame, non si verifica lesione del rapporto gerarchico, ma della disciplina militare intesa nella differente accezione di ordinata convivenza nell'ambito del consorzio militare. Ad essi, come sostenuto dalla Corte costituzionale, "restano applicabili, oltre le sanzioni disciplinari, quelle previste dagli artt. da 222 a 229 del c.p.m.p." (Corte costituzionale sentenza citata n. 22/1991). E' necessario percio' rinvenire nell'ordinamento vigente un principio - diverso da quello di cui all'art. 199 del c.p.m.p. ad esclusiva salvaguardia del rapporto gerarchico - a cui ancorare l'applicazione della norma dell'art. 226 del c.p.m.p. e delle rimanenti ipotesi contro la persona, tal che si tuteli in modo esauriente la disciplina militare in senso ampio, intesa come ordinato e pacifico svolgimento della vita associata nella compagine militare. E' superfluo notare che l'accezione, da ultimo usata, di "disciplina militare" e' piu' ampia e ricomprende quella relativa all'aspetto del rapporto gerarchico; cio' comporta che dovra' riconoscersi una maggior ampiezza nel margine di applicazione delle norme di cui agli artt. 222/229 del c.p.m.p. rispetto a quelle dell'insubordinazione ed abuso di autorita'. Ritiene il collegio che un valido riferimento normativo sia offerto dall'art. 5, terzo comma, della legge 11 luglio 1978, n. 382 (norme di principio sulla disciplina militare), secondo cui il regolamento di disciplina militare si applica ai casi in cui i militari "si trovino in una delle seguenti condizioni: a) svolgono attivita' di servizio; b) sono in luoghi militari o comunque destinati al servizio; c) indossano l'uniforme; d) si qualificano, in relazione a compiti di servizio come militari o si rivolgono ad altri militari in divisa o che si qualificano come tali". Infatti, tale norma, definendo i limiti di applicazione del regolamento di disciplina militare, enuclea i casi in cui un comportamento, in riferimento a specifiche modalita' soggettive, temporali o locali, possa esprimere lesione, oltre che al rapporto gerarchico, anche piu' genericamente all'ordinata convivenza nella compagine militare e quindi alla disciplina militare in senso ampio. E nulla osta che questa delimitazione possa valere anche nell'ambito dell'ordinamento penale, come del resto lascia intendere la stessa Corte costituzionale (sentenza n. 22/1991). Alla stregua delle considerazioni che precedono, deve percio' anche sollevarsi questione di costituzionalita' dell'art. 226 del c.p.m.p., in relazione all'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui detta norma si applica anche al di fuori delle condizioni stabilite dall'art. 5, terzo comma, della legge n. 382/1978.