LA CORTE D'APPELLO
                           OSSERVA IN FATTO
    Gli appellanti sono stati tratti a giudizio davanti al pretore  di
 Sondrio,   sezione  distaccata  di  Morbegno,  per  rispondere  della
 imputazione di cui agli artt. 624-625, n. 7, del codice penale (furto
 venatorio) per impossessamento  di  due  galli  forcelli,  maschio  e
 femmina,  su  terreno  innevato  il 15 novembre 1987; essi sono stati
 tuttavia assolti in primo grado perche' - come il  pretore  argomenta
 con una ampia motivazione - il fatto non costituirebbe reato ai sensi
 della  legge  n.  968/1977  sulla  caccia.  Contro  tale pronuncia ha
 proposto  ritualmente  appello  il   procuratore   della   Repubblica
 competente, ed il caso viene ora all'esame di questa Corte.
                              IN DIRITTO
    La  legge  11  febbraio  1992,  n.  157,  ha  introdotto una nuova
 disciplina in materia di caccia, superando  le  argomentazioni  della
 sentenza di primo grado oggetto di appello da parte del p.m., si' che
 la materia deve essere interamente riesaminata.
    L'art.  1,  primo  comma,  della  cit. legge n. 157/1992 definisce
 espressamente la fauna selvatica come "patrimonio indisponibile dello
 Stato ed oggetto di tutela nell'interesse della  comunita'  nazionale
 ed  internazionale".  Viene  quindi ampliata la precedente formazione
 della legge 27 dicembre 1977, n. 968, che faceva riferimento soltanto
 alla comunita'  nazionale,  anche  se  gia'  allora  il  tradizionale
 "diritto di caccia" era stato affievolito e subordinato all'interesse
 prevalente volto alla conservazione del patrimonio faunistico ed alla
 protezione   dell'ambiente  agrario  (cfr.  Corte  costituzionale  n.
 1002/1988).
    La ultima legge ha quindi sviluppato in  maniera  completa,  nella
 sua ispirazione di fondo, i contemporanei orientamenti ideologici che
 vedono   nella   tutela   dell'ambiente   l'esplicazione   di  valori
 fondamentali di contenuto sociale (Corte costituzionale n.  1002/1988
 cit.),  che  portano  ormai a considerare unitariamente la tutela del
 paesaggio (art. 9 della Costituzione), la protezione dell'ambiente  e
 comunque  del  territorio,  l'urbanistica  e  l'assistenza  sanitaria
 (Corte costituzionale n. 183/1987): oggi, in altri  termini,  "e'  in
 atto  una  riconsiderazione  unitaria  della  tutela  ambientale come
 diritto fondamentale della collettivita'"  (Corte  costituzionale  n.
 210/1987),   di   cui   la  lettera  dell'ultima  legge  si  e'  resa
 espressamente portavoce.
    Sotto  lo  stesso  profilo sopra ricordato risulta evidente che il
 valore   fondamentale   di   cui    si    discute    risulta    anche
 costituzionalmente  tutelato, alla luce sia del principio dell'art. 9
 della Costituzione - di  cui  e'  oggi  possibile  dare  una  lettura
 completa, al di la' della lettera adoperata or sono cinquant'anni dal
 costituente   che  non  aveva  ancora  familiarita'  con  i  problemi
 dell'ecologia, ma che gia' aveva comunque avvertito l'importanza  del
 problema - sia dell'art. 42, che, imponendo una funzione sociale alla
 proprieta',  massima  non  ne acquista significato ove venga riferito
 alla   proprieta'   pubblica,    istituzionalmente    destinata    al
 soddisfacimento di interessi collettivi.
    Cio'  stante,  occorre ricordare che sotto la normativa precedente
 in   materia   di   caccia   si   era   affermata   l'interpretazione
 giurisprudenziale, cui si richiama il p.m. appellante, secondo cui la
 caccia  di  frodo costituiva impossessamento di bene mobile altrui, e
 poneva quindi in essere la fattispecie del reato di furto (art. 624 e
 625 del c.p.).
    Si veda  in  proposito  l'approfondita'  disamina  compiuta  dalla
 sentenza.   Corte   costituzionale  n.  97/1987  (da  cui  ha  tratto
 ispirazione anche il  Pretore,  il  quale  peraltro  e'  prevenuto  a
 conclusioni  diversa  da  quelle  che sembrano conseguenti secondo il
 giudizio  di  questa  Corte).  Tale  interpretazione,   perfettamente
 coerente con le modalita' del fatto - la caccia comporta per l'agente
 un   lecito   impossessamento   del  bene  solo  se  tutte  le  norme
 disciplinanti tale attivita' siano rispettate - costituiva ormai  ius
 receptum  cui  la  legge  n. 157/1992 sembrerebbe apportare ulteriore
 conferma laddove (art. 12, sesto  comma)  consente  espressamente  al
 cacciatore  l'appropriazione della selvaggina abbattuta "nel rispetto
 delle disposizioni della presente legge": da tale  norma  infatti  si
 ricava,  a  contrariis, la illeceita' della apprensione di selvaggina
 senza il totale rispetto  delle  disposizioni  regolanti  l'esercizio
 della   caccia.  L'apprensione  in  parola  costituisce  tecnicamente
 impossessamento  (illecito)  stante  la  materiale  sottrazione  alla
 disponibilita'  (per  presunzione juris et de iure contenuta nel gia'
 ricordato art. 1, primo comma, della legge n. 157/1992) dello  Stato,
 per  un  fine  che, prescindendo dai meri motivi irrilevanti sotto il
 profilo giuridico, e' rappresentato dalla volonta' di trarre profitto
 dal bene in questione, sia poi tale profitto strettamente  di  natura
 economica  (motivo di commercio o di consumo diretto) ovvero sportivo
 o meramente dilettevole.
    La conclusione che precede e' del resto  ricavabile  da  tutto  il
 complesso  dell'art.  12,  ed  in  particolare  dal  primo comma, che
 prevede la necessita' della concessione,  e  dal  quarto  comma,  che
 vieta "ogni altro modo di abbattimento della selvaggina".
    Un  simile  inquadramento  normativo appare perfettamente logico e
 coerente con il regime universalmente valido per tutti i beni  mobili
 indisponibili  dello  Stato  diversi  dalla  selvaggina:  si pensi ai
 quadri  di  una  pinacoteca,   la   cui   sottrazione   costituirebbe
 inequivocabilmente  violazione  dell'art. 624 del c.p., per citare un
 solo esempio (ma questi possono essere i piu' vari).
    La legge n. 157/1992, peraltro, ha introdotto una disposizione con
 la quale, in buona sostanza, il delitto di furto  di  cacciagione  e'
 stato depenalizzato: si tratta dell'art. 31, che prevede l'inflizione
 di  mere  sanzioni  amministrative per una serie di fatti (diversi da
 quelli  contravvenzionali  dell'art.  30)   tra   i   quali   rientra
 univocamente  quello  che costituisce l'oggetto del presente giudizio
 (sotto la specie del  primo  comma,  sub  e)),  posto  che  nel  caso
 concreto  la  caccia  e'  stata esercitata in zona innevata contro il
 divieto dell'art. 21, primo comma, sub m).
   L'apprensione in parola  costituisce  tecnicamente  impossessamento
 (illecito)  stante  la materiale sottrazione alla disponibilita' (per
 presunzione juris et de inre contenuta nel ricordato  art.  1,  primo
 comma,  della  legge  n.  157/1992)  dello  Stato,  per  un fine che,
 prescindendo dai meri motivi irrilevanti sotto il profilo  giuridico,
 e'  rappresentato  dalla  volonta'  di  trarre  profitto  dal bene in
 questione, sia poi tale profitto  strettamente  di  natura  economica
 (motivo  di  commercio  o  di  consumo  diretto)  ovvero  sportivo  o
 meramente dilettevole.
    La inapplicabilita' degli  artt.  624,  625  e  626  del  c.p.  e'
 espressamente  ribadita,  ancorche'  superfluamente, dal quinto comma
 dell'art.  31.  E  poiche'  le  uniche  figure  di  illecito   penale
 contemplate  dalla legge sono contravvenzionali ai sensi dell'art. 30
 si deve necessariamente  concludere  che  l'esercizio  abusivo  della
 caccia  non  potra'  piu'  costituire un delitto, ma solo un illecito
 contravvenzionale od amministrativo.
    Tale  innovazione  normativa  ha   comportato   una   sostanziale,
 rilevante attenuazione della tutela sanzionatoria precedente, perche'
 fino  all'ultima  riforma,  come  si  e' ricordato, era pacificamente
 ritenuta in giurisprudenza la configurabilita' del delitto di furto.
    E' ben vero che il legislatore puo'  discrezionalmente  modificare
 la  natura  e  la  gravita' delle sanzioni che colpiscono determinati
 comportamenti  illeciti  (da  ultimo  cfr.  Corte  costituzionale  n.
 377/1992).  Ma  tale  proposizione puo' avere validita' fino a quando
 non  vengano  lesi,  attraverso  la  modificazione  in   senso   piu'
 favorevole    all'autore    dell'illecito,    valori   costituzionali
 primieramente prodotti.
    Nel  caso  il  nuovo  regime  sanzionatorio  pone  in  essere  una
 oggettiva  e rilevante diminuzione della tutela dell'ambiente, inteso
 nel  senso  sopra  illustrato,  e  pare   quindi   ipotizzabile   una
 contraddittorieta'   della  riforma  con  gli  artt.  9  e  42  della
 Costituzione; pare inoltre ipotizzabile una disparita' di trattamento
 di casi uguali in violazione dell'art.  3,  perche'  il  solo  regime
 dell'impossessamento  del  bene mobile indisponibile costituito dalla
 selvaggina viene depenalizzato, medntre permane  la  configurabilita'
 del  delitto di furto per l'impossessamento di ogni altro bene mobile
 indisponibile dello Stato.
    Sotto  il  triplice  profilo  cosi'  individuato,   pertanto,   la
 questione    di    legittimita'   costituzionale   delle   norme   di
 dipenalizzazione della caccia appare non manifestamente infondata,  e
 deve   pertanto   essere   rimessa   alla   valutazione  della  Corte
 costituzionale.
    Appare necessario aggiungere che la  questione  sollevata  con  la
 presente   ordinanza   non  tende  alla  introduzione  di  una  nuova
 fattispecie di illecito penale, con un  intervento  additivo  che  la
 Corte  costituzionale  ha  giustamente  ritenuto  inammissibile (cfr.
 ordinanza n. 9-27 luglio 1992, n. 377, e  recentissima  ordinanza  n.
 1-6  aprile  1993,  n.  146)  ma  richiede  soltanto  la pronuncia di
 illegittimita' di una riduzione o eliminazione di tutela penale -  da
 delitto  a  contravvenzione  ovvero, secondo le varie fattispecie, ad
 illecito   amministrativo  -  con  il  conseguente  ripristino  della
 situazione    normativa    precedente,    modificata    in    maniera
 costituzionalmente illegittima dalla legge n. 157/1992.
    Infatti il vizio insanabile della nuova normativa ha fatto si' che
 le  disposizioni  sostituite non abbiano mai cessato, nella sostanza,
 di  far  parte  dell'ordinamento  giuridico  (in  quanto   la   norma
 sostituente non poteva produrre lecitamente tale effetto).
    Quanto  al principio della legge piu' favorevole (richiamato dalla
 citata ordinanza n. 146/1993), esso non appare, ad avviso  di  questa
 Corte,  ostativo  ad  una  pronuncia  sul  merito della legge, la cui
 costituzionalita', diversamente, non potrebbe mai  essere  sottoposta
 ad   un   controllo   della  Corte  costituzionale;  tale  controllo,
 viceversa, data anche l'importanza morale, sociale e giuridica  della
 questione,  appare  assolutamente  necessario;  comunque,  la formula
 definitiva   del   giudizio   potrebbe,   sempre   nell'ambito    del
 proscioglimento,  essere  diversa  a  seconda  di quale sia il regime
 sanzionatorio del fatto (anche perche' se permane la  classificazione
 quale  contravvenzione  il  reato si sarebbe da tempo prescritto, non
 cosi' se fosse  delitto),  e  quindi  una  rilevanza  concreta  della
 questione e' in ogni caso configurabile.
    Occorre  infine  evidenziare  che  la questione proposta in questa
 sede appare diversa da quella gia' decisa dalla Corte  costituzionale
 con  la  ordinanza n. 146/1993 sopra citata (ed invocata dalla difesa
 degli imputati), perche' in quella sede era stato sollevato  soltanto
 il  contrasto fra la norma sulla caccia e l'art. 3 della Costituzione
 sotto il duplice profilo del diverso trattamento di situazioni uguali
 e dell'uguale trattamento  di  situazioni  diverse,  sempre  peraltro
 nell'ambito  dell'esercizio  della  caccia, mentre nel caso in esame,
 oltre al riferimento alla tutela penale di beni dello  Stato  diversi
 dalla  selvaggina,  si  configura  la violazione di altre norme della
 Costituzione.