IL TRIBUNALE MILITARE
    Ha   pronunciato   la   seguente   ordinanza  nella  causa  contro
 Quagliarella Savino, nato il 12  gennaio  1954  a  Trieste,  atto  di
 nascita  n.  91/A.I.,  residente  a  Paralowie SA 5108 (Australia) in
 Delamere Drive n. 24, celibe, censurato, soldato della forza  assente
 del  distretto  militare  di  Trieste, libero, imputato di diserzione
 (art. 148, n. 2, del c.p.m.p.) perche', soldato nella  forza  assente
 del  distretto  militare  di  Trieste,  condannato per diserzione dal
 tribunale militare di Padova in data 30 giugno 1992,  ometteva  senza
 giusto  motivo di presentarsi a una qualsiasi autorita' militare dopo
 la predetta data, permanendo  in  stato  di  arbitraria  assenza  per
 cinque giorni consecutivi e tuttora.
    In esito al pubblico ed orale dibattimento.
                            FATTO E DIRITTO
    Con  sentenza  del  23  gennaio  1991  soldato Quagliarella Savino
 veniva  condannato  da  questo  tribunale  militare  per   reato   di
 diserzione  (art.  148  del  c.p.m.p.)  in  relazione  ad assenza dal
 servizio che, iniziata il 15 ottobre 1977,  ancora  non  era  cessata
 alla data del giudizio.
    Il   procuratore   militare   in  sede,  a  fronte  del  perdurare
 dell'assenza, instaurava altro  procedimento  per  un  secondo  reato
 decorrente  dal  23  gennaio  1991,  data  della prima pronuncia. Con
 sentenza in data  30  giugno  1992  questo  tribunale  condannava  il
 Quagliarella per la seconda volta.
    Proseguendo  ancora  l'assenza,  il  procuratore militare iniziava
 altro procedimento per un terzo reato di diserzione decorrente dal 30
 giugno 1992, data della seconda condanna.  Ma  con  sentenza  del  21
 maggio  1993  il g.u.p. dichiarava non luogo a procedere ostandovi il
 principio del ne bis in idem.
    A seguito  di  impugnativa  del  procuratore  generale,  la  corte
 militare  d'appello,  sezione  di  Verona,  ha disposto, tuttavia, il
 rinvio a  giudizio  dinanzi  a  questo  tribunale  per  il  reato  in
 epigrafe,  in  relazione all'assenza che, iniziata nell'ormai lontano
 1977, a tutt'oggi non e' ancora cessata, proseguendo anche dopo il 30
 giugno 1992.
    Osserva il giudice d'appello che  la  protrazione  della  condotta
 criminosa dopo la sentenza di primo grado costituisce ad ogni effetto
 un  nuovo  ed  autonomo  reato  della  stessa  specie,  come  tale da
 giudicare senza che per cio' venga violata la  preclusione  dell'art.
 649 del c.p.p.
    A  conclusione dell'odierno dibattimento, il pubblico ministero ha
 chiesto l'assoluzione perche' il fatto "non e' previsto  dalla  legge
 come reato". La difesa si e' associata.
    Questo  tribunale  ritiene  che  la decisione della corte militare
 d'appello sia corretta.
    Da una parte, infatti, l'unanime giurisprudenza regolatrice  e  la
 dottrina   (fatta   eccezione  per  un'autorevole,  ma  isolata  voce
 dissonante) concordano nel  ritenere  che  i  reati  di  assenza  dal
 servizio (artt. 148 e 151 del c.p.m.p.) siano permanenti.
    Dall'altra,  la  costante giurisprudenza e la dottrina prevalente,
 sul presupposto che il reato permanente congloba tutta una  serie  di
 azioni od omissioni sufficienti ciascuna a realizzare la consumazione
 del  reato,  affermano  che  la  sentenza  o  il  decreto di condanna
 "interrompono la permanenza", di modo che il ne bis in idem  riguarda
 la  sola  parte  del  reato  gia'  giudicata,  e  la prosecuzione del
 comportamento illecito integra un nuovo reato, per il quale non  puo'
 non intervenire un ulteriore giudizio.
    Il  principio  ha  trovato  applicazione per i reati permanenti di
 associazione  a  delinquere,  invasione  di  terreni,  sequestro   di
 persona,  violazione  degli  obblighi  di assistenza familiare, guida
 senza  patente,  in  materia  urbanistica  edilizia,  finanziaria   e
 previdenziale,  ecc.  E  recenti  pronunce  della Cassazione (sezione
 prima, 13 novembre 1992, c. D'Alessio; sezione prima, 15 luglio 1993,
 c. Coppola), in linea con il tradizionale insegnamento del  tribunale
 supremo  militare,  queste  stesse  regole  hanno  applicato ai reati
 militari di assenza dal servizio.
    Questo tribunale non ritiene di dover mettere in dubbio ne' che  i
 reati  di diserzione e di mancanza alla chiamata (artt. 148 e 151 del
 c.p.m.p.)  siano  permanenti  (benche'  non  manchi  in  dottrina  la
 concezione  secondo  cui  i  reati omissivi non potrebbero essere che
 istantanei), ne' in linea di principio le cennate  statuizioni  sulla
 preclusione  del ne bis in idem (anche se per coerenza sistematica il
 problema potrebbe essere oggetto di un approfondimento nel  confronto
 con   l'art.  151  del  c.p.  che  sembra  escludere  "l'interruzione
 giudiziale" quando ne deriverebbe la parziale  estinzione  del  reato
 per amnistia).
    Tuttavia,  non puo' non porsi un delicato problema di legittimita'
 in relazione alle conseguenze che  si  determinano  a  seguito  delle
 plurime   condanne   per   le   condotte   illecite  che,  perdurando
 successivamente ad ogni giudizio, danno  luogo  a  nuovi  e  autonomi
 reati della stessa specie. Conseguenze che, comunque riguardanti ogni
 caso  di  permanenza  nel reato, risultano particolarmente evidenti e
 gravi quando, come avviene per l'assenza dal servizio, la  permanenza
 nel  reato puo' protrarsi anche per venticinque anni circa (dall'eta'
 dell'obbligo di leva sino al compimento del  quarantacinquesimo  anno
 di eta').
    E'  chiaro che il trattamento sanzionatorio per un illecito penale
 deve poter tener conto anche  dell'ampiezza  del  periodo  nel  quale
 perdura la consumazione del reato. Tuttavia, di fronte all'indefinita
 possibilita'    del    moltiplicarsi    delle    condanne   a   causa
 dell'"interruzione giudiziale  della  permanenza"  ex  art.  649  del
 c.p.p.,  non  puo' non porsi un problema di legittimita', che valga a
 individuare  un  limite  a questa spirale secondo cui, sin quando non
 termini il  periodo  di  lesione  del  bene  giuridico,  la  condotta
 illecita  porta  ad  una condanna che a sua volta pone un nuovo fatto
 richiedente un'ulteriore sanzione, e cosi' via.
    Sensibile a quest'esigenza, l'art. 377 del c.p.m.p. stabiliva  che
 per i reati di assenza dal servizio di regola non si poteva procedere
 al  giudizio  sin quando non ne fosse cessata la permanenza. La norma
 tuttavia, su istanza  di  questo  tribunale,  e'  stata  dalla  Corte
 costituzionale   caducata  (sentenza  n.  469/1990),  dopo  che,  con
 l'entrata in vigore del  nuovo  c.p.p.  e  per  la  dichiarazione  di
 illegittimita'  dell'art.  308  del  c.p.m.p. (sentenza n. 503/1989),
 pure a seguito di questione sollevata da  questo  tribunale,  ne  era
 venuto  meno  il  necessario  completamento, vale a dire il potere di
 adottare misure cautelari e precautelari  idonee  a  far  cessare  la
 permanenza nel reato.
    L'attuale  situazione,  purtroppo,  si caratterizza per ancor piu'
 gravi violazioni di principi costituzionali.
    L'"interruzione giudiziale  della  permanenza"  ex  art.  649  del
 c.p.p.  comporta,  innanzitutto,  che  la  responsabilita' penale del
 disertore  o  mancante  alla  chiamata  ancora  assente  non  dipenda
 solamente  dal suo operato, come richiederebbe il principio dell'art.
 27,  primo  comma,  della  Costituzione,  ma   anche   dallo   stesso
 funzionamento   dell'apparato   giudiziario   militare:   essa,  piu'
 concretamente, cresce in ragione del numero delle  condanne  che  nel
 periodo del perdurante reato gli vengono inflitte.
    Questo   moltiplicarsi  dei  giudizi  e  delle  sanzioni  produce,
 inoltre,  in  violazione   dell'art.   25,   secondo   comma,   della
 Costituzione,  un  innalzamento della pena edittalmente stabilita per
 il  reato  e  una  sanzione  praticamente  indeterminata  o,  se   si
 preferisce,  che ex art. 81 c.p. trova un limite solamente nel triplo
 del massimo della pena edittale.
    Infine, ne risulta violato anche il principio  dell'art.  3  della
 Costituzione,  essendo  evidente che, a parita' di periodo di assenza
 dal  servizio,  il  trattamento  sanzionatorio  complessivo  viene  a
 derivare dal grado di efficienza dell'apparato giudiziario competente
 a  conoscere  del  reato  nei vari autonomi episodi che si creano con
 l'"interruzione   giudiziale".   La   trasgressione   del   principio
 costituzionale  e',  del  resto,  evidente  anche  per  le  fasi  del
 procedimento  precedenti  il  giudizio:  da  una  posticipazione  del
 dibattimento    puo',    ad   esempio,   dipendere   la   sussistenza
 dell'aggravante di aver protratto l'assenza oltre sei mesi (art. 154,
 n. 2, del c.p.m.p.).
    E' chiaro, dunque, in quale senso la denunciata illegittimita' non
 puo' riguardare l'"interruzione giudiziale della permanenza" ex  art.
 649  del c.p.p. in quanto tale, bensi' solamente nella parte in cui -
 il che e' ampiamente sottolineato  dalla  giurisprudenza  regolatrice
 che  senza  mezzi termini si riferisce al comportamento successivo al
 giudizio come ad un episodio del tutto nuovo ed autonomo  -  consente
 che  per  un  unico reato permanente, una o piu' volte giudizialmente
 "interrotto", sia irrogabile un complessivo trattamento sanzionatorio
 superiore a quello edittalmente stabilito per il reato medesimo.
   La questione di legittimita' e' rilevante nel presente giudizio, in
 quanto questo limite potrebbe venir superato per il Quagliarella  con
 l'aumento ex art. 81 del c.p. rispetto al massimo della pena edittale
 comminabile per il reato piu' grave.