IL TRIBUNALE MILITARE Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa contro Rizzacasa Massimiliano, nato il 24 giugno 1974 a Napoli, atto di nasciata n. 1814/A/I, residente a Pescara in via Osento n. 16, carrozziere, celibe, incensurato; soldato in congedo gia' nel 1 rgt. art. c/a dell'Esercito in Mestre (Venezia), libero, imputato di lesione personale aggravata (artt. 223 e 47, n. 4, del c.p.m.p.), perche', effettivo all'85 reggimento fanteria "Verona" di Montorio Veronese (Verona), alle ore 17,30 circa del 3 febbraio 1993, nei locali in uso alla 6a compagnia del suddetto reparto afferrava energicamente la mano sinistra del pari grado Catalano Luigi e gliela stringeva procurandogli la "Frattura della falange del quarto dito della mano sinsitra" e conseguentemente incapacita' di attendere alle ordinarie occupazioni per complessivi giorno trentotto. Con l'aggravante di aver commesso il fatto in circostanze di luogo per le quali poteva verificarsi pubblico scandalo. 1. - Prima della dichiarazione di apertura del dibattimento il p.m. ha rilevato che l'ordinanza di rimessione degli atti per competenza da parte del tribunale militare di Verona, ai sensi dell'art. 43, secondo comma, del c.p.p., a questo tribunale militare si fonda su una non corretta interpretazione della sentenza 13-22 aprile 1992, n. 186 (e n. 399/1992) della Corte costituzionale, secondo cui e' illegittimo costituzionalmente l'art. 34, secondo comma, del c.p.p., nella parte in cui non prevede "l'incompatibilita' del giudice del dibattimento che abbia rigettato la richiesta di applicazione di pena concordata, di cui all'art. 444 stesso codice, a partecipare al giudizio". In particolare, il p.m. ha rilevato che l'incompatibilita', secondo la ricodata sentenza, non opera - come invece appare ritenere il t.m. di Verona - in tutti i casi in cui il giudice abbia solo preso visione degli atti contenuti nel fascicolo del p.m. (art. 135 delle disp. att.) - nella specie relativi a coimputato estraneo alla richiesta di patteggiamento -, ma soltanto in riferimento alle ipotesi in cui egli abbia valutato la posizione processuale dell'imputato o per avere rigettato la pena per incongruita' del trattamento sanzionatorio o per avere rimesso alle parti la questione dell'eventuale determinazione della pena a seguito di pronuncia della sentenza di cui all'art. 129 del c.p.p. per taluno dei reati concorrenti (rispetto ai rimanenti, infatti, sarebbe desumibile implicito giudizio di sussistenza di responsabilita'), il p.m. ha quindi chieso che questo tribunale militare neghi la propria competenza - che spetta per le esposte ragioni al tribunale militare di Verona - e che, rilevato l'esistenza di un conflitto negativo di competenza, rimetta gli atti alla Corte di cassazione. La difesa si e' associata, articolando ulteriormente i motivi gia' esposti dal p.m. 2. - Cio' detto, questo giudicante non puo' che condividere le argomentazioni delle parti e rilevare la propria incompetenza a decidere nel procedimento in esame. Invero, il tribunale militare di Verona, avendo applicato la pena, nel processo a carico di Rizzacasa Massimiliano e Catalano Luigi, solo nei confronti di quest'ultimo che ne aveva fatto richiesta, sostiene di aver preso visione degli atti del p.m. relativi alla posizione di entrambi gli imputati e, di conseguenza, di non essere piu' "compatibile" al giudizio nei confronti del Rizzacasa, pur estraneo alla richiesta di patteggiamento. Di qui - si assume - la competenza del t.m. di Padova, ai sensi dell'art. 43, secondo comma, del c.p.p. Questo tribunale osserva, tuttavia, al riguardo, che secondo l'interpretazione data dalla Corte costituzionale con la menzionata - e con altre (sentenza n. 124/1992) - sentenze, "non la mera conoscenza degli atti, ma una valutazione di merito circa l'idoneita' delle risultanze delle indagini preliminari a fondare un giudizio di responsabilita', vale a radicare l'incompatibilita'". Nella specie, la visione da parte del t.m. di Verona degli atti contenuti nel fascicolo del p.m. riguardanti il Rizzacasa - necessaria per valutare la responsabilita' del coimputato Catalano in ordine alla richiesta ex art. 444 del c.p.p. -, non e' ragione sufficiente a fondare l'incompatibilita' del collegio, proprio perche' essa non ha comportato anche valutazioni di merito in ordine alla posizione dell'odierno imputato. Alla stregua delle esposte argomentazioni, questo tribunale militare si dichiara incompetente a decidere e, rilevato un conflitto di competenza negativo con il t.m. di Verona (Cass. 1, sentenza n. 888 del 17 aprile 1990), ordina la trasmissione di copia degli atti alla Corte di cassazione e manda alla cancelleria per le incombenze di rito. 3. - A questo punto questo tribunale dovrebbe procedere oltre, ai sensi dell'art. 30, terzo comma, del c.p.p., che stabilisce che l'ordinanza di rimessione non ha effetto sospensivo nel giudizio in corso. Si dubita pero' della legittimita' costituzionale della citata norma, in relazione agli artt. 101, secondo comma, 24, secondo comma, e 97 della Costituzione, nella parte in cui essa - come appresso si dira' - non consente la sospensione del procedimento nel caso in cui sia il giudice remittente a ritenere sussistente ed effettivo il conflitto. Com'e' noto, infatti, il conflitto (positivo o negativo) di competenza (o di giurisdizione) puo' avere luogo nelle seguenti condizioni: a) rilevazione d'ufficio - anche previa prospettazione delle parti - ad opera del giudice procedente dell'esistenza della circostanza che piu' giudici procedono o si rifiutano di procedere per un medesimo fatto attribuito alla stessa persona; b) denuncia (formalmente presentata ai sensi dell'art. 30, secondo comma, del c.p.p.) del p.m. o delle parti private della circostanza sub a). In entrambe le ipotesi, il giudice, ai sensi dell'art. 30, terzo comma, del c.p.p. non puo' sospendere ma deve continuare oltre nel procedimento. 4. - Con riferimento specifico al caso in esame, concernente un'ipotesi di conflitto negativo di competenza tra giudici, l'obbligo di proseguire il giudizio, dopo aver rilevato d'ufficio il conflitto stesso, comporta, nella sostanza, il dovere da parte del giudicante di sottostare alla decisione, circa la competenza, di altro giudice ugualmente competente per materia e quindi di adeguarsi - nelle more della decisione della suprema Corte ma, in ipotesi, fino alla conclusione del procedimento di primo grado, qualora essa non sopravvenga in tempo - alle statuizioni e all'interpretazione di legge di quel giudice, le quali percio' divengono vincolanti ed inderogabili anche per l'altro. E' evidente, al riguardo, un primo profilo di incostituzionalita' dell'art. 30, terzo comma, del c.p.p., con l'art. 101, secondo comma, della Costituzione, in quanto il secondo giudice deve subire la decisione del primo - pur appartenente allo stesso grado di giudizio - ed e' percio' assoggettato alla volonta' di quest'ultimo e non alla legge. 5. - Ma il disposto dell'art. 30, terzo comma, del c.p.p. appare violare anche l'art. 24, secondo comma, della Costituzione. Invero, l'attuale disciplina sui conflitti costringe l'imputato a difendersi contemporaneamente dinanzi a piu' giudici per un medesimo fatto. Cio' e' vero principalmente nell'ipotesi di conflitto positivo in cui egli subisce ben tre procedimenti per un medesimo fatto (due, dinanzi ai giudici del conflitto ed uno, successivo, ex art. 669 del c.p.p.), con evidente aggravio del diritto di difesa, ma anche nel caso - che qui rileva - di conflitto negativo, in quanto ben potra' avvenire che il giudice che ha rimesso il conflitto sia poi dichiarato incompetente della suprema Corte e che dovra' quindi celebrarsi il giudizio dinanzi al primo giudice. Anche in quest'ultimo caso l'imputato e' chiamato a rispondere piu' volte del medesimo addebito, con evidenti riflessi negativi sul pieno esercizio del diritto di difesa, sia perche', da un lato, la pluralita' di procedimenti contemporaneamente pendenti puo' indurre al disorientamento e all'incertezza in ordine alla sede giudiziale ove esercitare pienamente il diritto in questione e comportare una minore incisivita' della difesa, costretta a rifrangersi in piu' processi, sia perche' soprattutto nel nuovo rito in cui la difesa tecnica costituisce esigenza ineliminabile (come desumersi dall'istituto del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti), la necessita' di doversi difendersi in piu' processi eadem re, costituisce un aggravio finanziario aggiuntivo per l'imputato e, quindi, un effetto negativo in ordine alla possibilita' di rivolgersi ad adeguata difesa tecnica. 6. - D'altro canto, l'apertura di piu' procedimenti penali per un medesimo fatto dinanzi a piu' organi giudiziari, riguardata sotto altro profilo, finisce con l'appesantire l'andamento dell'Amministrazione giudiziaria, in quanto, alla fine, solo la decisione adottata in esito ad un procedimento fara' stato per il caso di specie, con evidente superfluita' delle energie lavorative e finanziarie profuse nelle altre sedi giudiziali. Sotto questo aspetto, si ravvisa l'incostituzionalita' dell'art. 30, terzo comma, del c.p.p. anche in riferimento all'art. 97 della Costituzione, in quanto il sistema dettato della menzionata norma procedurale non appare finalizzata a realizzare il buon andamento dell'amministrazione giudiziaria. 7. - Non ignora il tribunale che la Corte costituzionale, chiamata gia' a pronunciarsi sulla legittimita' costituzionale dell'art. 30, terzo comma, del c.p.p., a seguito di ordinanza di questo stesso t.m., ha rigettato la questione in riferimento ad altri parametri costituzionali (artt. 2, 3, 25, 76, 77 e 103 della Costituzione), ravvisando la ratio della norma processuale nell'esigenza di celerita' propria del nuovo rito penale e di evitare effetti dilatori conseguenti a "denunce di conflitti manifestamente inesistenti o pretestuosi" che possono "paralizzare temporaneamente le sorti del processo .. e possono incidere sui termini di custodia cautelare e di prescrizione" (sentenza 8-16 febbraio 1993, n. 59). La stessa Corte - anche se non investita del giudizio con esplicito riferimento all'art. 24, secondo comma, della Costituzione - riteneva "inconveniente non trascurabile" il fatto che l'imputato sia costretto a difendersi per lo stesso fatto innanzi a piu' giudici ed auspicava un intervento legislativo "volto ad approntare una disciplina idonea a contemperare in modo diverso gli interessi in gioco", identificabili, da un lato, nella necessita' di impedire manovre dilatorie mediante prospettazione di conflitti manifestamente inesistenti o pretestuosi (a fronte dei quali comunque sorge l'obbligo di remissione alla Corte di cassazione) e, d'altro lato, il diritto di difesa dell'imputato. A fronte di tali osservazioni della Corte costituzionale - cui a tutt'oggi nell'opportuna sede non e' stato dato seguito - questo tribunale, ponderando con attenzione il bilanciamento degli interessi in questione e, segnatamente, gli inconvenienti che deriverebbero da una diversa formulazione dell'art. 30 del c.p.p. implicante l'automatica sospensione del procedimento, non puo' non rilevare che la fittizia manipolazione dilatoria sui tempi dal processo non puo' certamente ravvisarsi nel caso (di cui al par. 3, sub a), in cui sia il giudice a rilevare d'ufficio - o su mera prospettazione delle parti - l'esistenza di un conflitto (art. 30, primo comma, del c.p.p.), essendo egli preposto a decidere autonomamente, al di fuori di cogenti obblighi processuali attivati dalle parti. Nell'ipotesi in cui siano, invece, queste ultime a denunciare formalmente (art. 30, secondo comma, del c.p.p.) un conflitto, devesi allora ritenere che, ricorrendo l'obbligo del giudice di trasmettere gli atti alla Corte di cassazione, effettivamente la previsione, a tal punto, di un effetto sospensivo del procedimento paralizzerebbe il giudizio a seguito di un atto di parte meramente potestativo ed eventualmente pretestuoso. Ritiene pero' il collegio che, proprio in considerazione degli interessi in gioco (necessita', da un lato, di evitare manovre dilatorie; dall'altro, rispetto dell'indipendenza del giudice e del diritto di difesa dell'imputato), un equo contemperamento sarebbe rinvenibile in una decisione del giudice circa la fondatezza dell'esistenza o meno di un effettivo conflitto, denunciato dalle parti; giudizio, questo che ricondurrebbe nell'alveo della garanzia giurisdizionale la conseguente questione relativa alla sospensione, per tal modo sottratta a manovre di parte. Resta inteso che, a fronte di una valutazione di segno opposto, comunque obbligo del giudice sarebbe quello di rimettere copia degli atti alla Corte di cassazione e di proseguire il giudizio. Ne' sussisterebbe il rischio di effetti negativi di fini della prescrizione, vigendo il disposto dell'art. 159, primo comma, del c.p., secondo cui il corso resta interrotto in ogni caso in cui la sospensione del procedimento penale e' imposta da una particolare disposizione di legge; ne' sarebbero estranee alla logica del sistema le conseguenze che in ordine alla custodia cautelare deriverebbero dalla sospensione del procedimento. Conseguentemente si solleva questione di legittimita' costituzionale dell'art. 30, terzo comma, del c.p.p., con riferimento agli artt. 24, secondo comma, 97, e 101, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui non prevede la sospensione del procedimento nel caso in cui sia il giudice remittente a ritenere fondata l'esistenza di un conflitto.