IL TRIBUNALE MILITARE
    Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa contro Dragonetti
 Rocco  Salvatore, nato il 10 settembre 1972 a Pisticci (Matera), atto
 di nascita n. 114/A/I, ivi residente in fraz. Marconia, corso  Italia
 n. 45, celibe, censurato; soldato nel 7$ battaglione fanteria "Cuneo"
 in  Udine;  libero,  imputato  di  diserzione  (art.  148,  n. 2, del
 c.p.m.p.)  perche',  soldato  del  7$  btg.  ftr.  "Cuneo"  in  Udine
 condannato per diserzione dal tribunale militare di Padova in data 30
 marzo  1993,  ometteva senza giusto motivo di presentarsi al suddetto
 reparto dopo la predetta data,  permanendo  in  stato  di  arbitraria
 assenza per cinque giorni consecutivi e tuttora.
                            FATTO E DIRITTO
    Con sentenza del 30 marzo 1993 (irrevocabile il 28 settembre 1993)
 il  soldato  Dragonetti  Rocco  veniva condannato da questo tribunale
 militare per reato di diserzione (art. 148 del c.p.m.p.) in relazione
 ad assenza dal servizio che, iniziata il 18 luglio 1992,  ancora  non
 era cessata alla data del giudizio.
    Il   procuratore   militare   in  sede,  a  fronte  del  perdurare
 dell'assenza, instaurava altro  procedimento  per  un  secondo  reato
 decorrente  dal  30  marzo 1993, data della condanna. Ma con sentenza
 del 2 luglio 1993 il g.u.p. dichiarava  non  luogo  a  procedere  nei
 confronti del Dragonetti, ostandovi il principio del ne bis in idem.
    A  seguito  di  impugnativa  del  procuratore  generale,  la corte
 militare d'appello, sez. di Verona, ha disposto, tuttavia, il  rinvio
 a  giudizio  dinanzi  a questo tribunale per il reato in epigrafe, in
 relazione all'assenza che  a  tutt'oggi  ancora  non  e'  cessata,  a
 decorrere dal 30 marzo 1993.
    Osserva  il  giudice  d'appello  che la prosecuzione della condota
 criminosa dopo la sentenza di primo grado costituisce ad ogni effetto
 un nuovo  ed  autonomo  reato  della  stessa  specie,  come  tale  da
 giudicare  senza  che per cio' venga violata la preclusione dell'art.
 649 del c.p.p.
    A  conclusione dell'odierno dibattimento, il pubblico ministero ha
 chiesto l'assoluzione perche' il fatto "non e' previsto  dalla  legge
 come reato". La difesa si e' associata.
    Questo  tribunale  ritiene  che  la decisione della corte militare
 d'appello sia corretta.
    Da una parte, infatti, l'unanime giurisprudenza regolatrice  e  la
 dottrina   (fatta   eccezione  per  un'autorevole,  ma  isolata  voce
 dissonante) concordano nel  ritenere  che  i  reati  di  assenza  dal
 servizio (artt. 148 e 151 del c.p.m.p.) siano permanenti.
    Dall'altra,  la  costante giurisprudenza e la dottrina prevalente,
 sul presupposto che il reato permanente congloba tutta una  serie  di
 azioni od omissioni sufficienti ciascuna a realizzare la consumazione
 del  reato,  affermano  che  la  sentenza  o  il  decreto di condanna
 "interrompono la permanenza", di modo che il ne bis in idem  riguarda
 la  sola  parte  del  reato  gia'  giudicata,  e  la prosecuzione del
 comportamento illecito integra un nuovo reato, per il quale non  puo'
 non intervenire un ulteriore giudizio.
    Il  principio  ha  trovato  applicazione per i reati permanenti di
 associazione  a  delinquere,  invasione  di  terreni,  sequestro   di
 persona,  violazione  degli  obblighi  di assistenza familiare, guida
 senza  patente,  in  materia  urbanistica  edilizia,  finanziaria   e
 previdenziale,  ecc.  E recenti pronunce della Cassazione (sez. I, 13
 novembre 1992, c. D'Alessio; sez. I, 15 luglio 1993, c. Coppola),  in
 linea   con   il  tradizionale  insegnamento  del  tribunale  supremo
 militare, queste stesse regole hanno applicato ai reati  militari  di
 assenza dal servizio.
   Questo  tribunale  non ritiene di dover mettere in dubbio ne' che i
 reati di diserzione e di mancanza alla chiamata (artt. 148 e 151  del
 c.p.m.p.)  siano  permanenti  (benche'  non  manchi  in  dottrina  la
 concezione secondo cui i reati omissivi  non  potrebbero  essere  che
 istantanei),  ne'  in linea di principio le cennate statuizioni sulla
 preclusione del ne bis in idem (anche se per coerenza sistematica  il
 problema  potrebbe essere oggetto di un approfondimento nel confronto
 con l'art. 151 c.p. che sembra escludere "l'interruzione  giudiziale"
 quando ne deriverebbe la parziale estinzione del reato per amnistia).
    Tuttavia,  non puo' non porsi un delicato problema di legittimita'
 in relazione alle conseguenze che  si  determinano  a  seguito  delle
 plurime   condanne   per   le   condotte   illecite  che,  perdurando
 successivamente ad ogni giudizio, danno  luogo  a  nuovi  e  autonomi
 reati della stessa specie. Conseguenze che, comunque riguardanti ogni
 caso  di  permanenza  nel reato, risultano particolarmente evidenti e
 gravi quando, come avviene per l'assenza dal servizio, la  permanenza
 nel  reato puo' protrarsi anche per venticinque anni circa (dall'eta'
 dell'obbligo di leva sino al compimento del  quarantacinquesimo  anno
 di eta').
    E'  chiaro che il trattamento sanzionatorio per un illecito penale
 deve poter tenere conto anche dell'ampiezza  del  periodo  nel  quale
 perdura la comsumazione del reato. Tuttavia, di fronte all'indefinita
 possibilita'    del    moltiplicarsi    delle    condanne   a   causa
 dell'"interruzione giudiziale  della  permanenza"  ex  art.  649  del
 c.p.p.,  non  puo' non porsi un problema di legittimita', che valga a
 individuare un limite a questa spirale secondo cui,  sin  quando  non
 termini  il  periodo  di  lesione  del  bene  giuridico,  la condotta
 illecita porta ad una condanna che a sua volta pone  un  nuovo  fatto
 richiedente un'ulteriore sanzione, e cosi' via.
    Sensibile  a quest'esigenza, l'art. 377 del c.p.m.p. stabiliva che
 per i reati di assenza dal servizio di regola non si poteva procedere
 al giudizio sin quando non ne fosse cessata la permanenza.  La  norma
 tuttavia,  su  istanza  di  questo  tribunale,  e'  stata dalla Corte
 costituzionale caducata (sentenza n. 469 del  1990),  dopo  che,  con
 l'entrata  in  vigore  del  nuovo  c.p.p.  e  per la dichiarazione di
 illegittimita' dell'art. 308 del c.p.m.p. (sentenza n. 503 del 1989),
 pure a seguito di questione sollevata da  questo  tribunale,  ne  era
 venuto  meno  il  necessario  completamento, vale a dire il potere di
 adottare misure cautelari e precautelari  idonee  a  far  cessare  la
 permanenza nel reato.
    L'attuale  situazione,  purtroppo,  si caratterizza per ancor piu'
 gravi violazioni di principi costituzionali.
    L'"interruzione giudiziale  della  permanenza"  ex  art.  649  del
 c.p.p.  comporta,  innanzitutto,  che  la  responsabilita' penale del
 disertore  o  mancante  alla  chiamata  ancor  assente  non   dipenda
 solamente  dal suo operato, come richiederebbe il principio dell'art.
 27,  primo  comma,  della  Costituzione,  ma   anche   dallo   stesso
 funzionamento   dell'apparato   giudiziario   militare:   essa,  piu'
 concretamente, cresce in ragione del numero delle  condanne  che  nel
 periodo del perdurante reato gli vengono inflitte.
    Questo   moltiplicarsi  dei  giudizi  e  delle  sanzioni  produce,
 inoltre,  in  violazione   dell'art.   25,   secondo   comma,   della
 Costituzione,  un  innalzamento della pena edittalmente stabilita per
 il  reato  e  una  sanzione  praticamente  indeterminata  o,  se   si
 preferisce,  che  ex  art.  81 del c.p. trova un limite solamente nel
 triplo del massimo della pena edittale.
    Infine, ne risulta violato anche il principio  dell'art.  3  della
 Costituzione,  essendo  evidente che, a parita' di periodo di assenza
 dal  servizio,  il  trattamento  sanzionatorio  complessivo  viene  a
 derivare dal grado di efficienza dell'apparato giudiziario competente
 a  conoscere  del  reato  nei vari autonomi episodi che si creano con
 l'"interruzione   giudiziale".   La   trasgressione   del   principio
 costituzionale  e',  del  resto,  evidente  anche  per  le  fasi  del
 procedimento  precedente  il  giudizio:  da  una  posticipazione  del
 dibattimento    puo',    ad   esempio,   dipendere   la   sussistenza
 dell'aggravante di aver protratto l'assenza oltre sei mesi (art. 154,
 n. 2, del c.p.m.p.).
    E' chiaro, dunque, in quale senso la denunciata illegittimita' non
 puo' riguardare l'"interruzione giudiziale della permanenza" ex  art.
 649  del c.p.p. in quanto tale, bensi' solamente nella parte in cui -
 il che e' ampiamente sottolineato  dalla  giurisprudenza  regolatrice
 che  senza  mezzi termini si riferisce al comportamento successivo al
 giudizio come ad un episodio del tutto nuovo ed autonomo  -  consente
 che  per  un  unico reato permanente, una o piu' volte giudizialmente
 "interrotto", sia irrogabile un complessivo trattamento sanzionatorio
 superiore a quello edittalmente stabilito per il reato medesimo.
    La questione di legittimita' e' rilevante nel  presente  giudizio,
 in quanto questo limite potrebbe venir superato per il Dragonetti con
 l'aumento ex art. 81 del c.p. rispetto al massimo della pena edittale
 comminabile per il reato piu' grave.