IL TRIBUNALE MILITARE
    Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa contro Zanfardino
 Vincenzo, nato il 15 marzo 1953 ad Acerra (Napoli), atto  di  nascita
 n.  167,  residente  a  Lombard  (Illinois), 632 West Road in U.S.A.,
 celibe, censurato; soldato
 nella  forza  assente  del  distretto  militare  di  Padova,  libero,
 imputato  di  diserzione  (art.  148,  n.  2,  del c.p.m.p.) perche',
 soldato nella forza assente del d.m. di Padova, faceva  perdurare  la
 propria assenza dal 26 novembre 1991, data della sentenza di condanna
 del tribunale militare di Padova, fino a tutt'oggi.
    In esito al pubblico ed orale dibattimento.
                            FATTO E DIRITTO
    Con sentenza del 26 novembre 1991 (irrevocabile l'8 febbraio 1993)
 soldato  Zanfardino  Vincenzo  veniva  condannato da questo tribunale
 militare per  reato  di  diserzione  (art.  148  del  c.p.m.p.)  che,
 iniziato  il  1$  gennaio  1974, non era ancora cessato alla data del
 giudizio.
    Il  procuratore  militare  in  sede,  a   fronte   del   perdurare
 dell'assenza,  instaurava  altro procedimento per un secondo reato di
 assenza dal servizio decorrente dal  26  novembre  1991,  data  della
 pronuncia  di  questo  tribunale.  Il  g.u.p. ha disposto il rinvio a
 giudizio, in quanto la prosecuzione della condotta criminosa dopo  la
 sentenza  di  primo  grado  costituisce  ad  ogni effetto un nuovo ed
 autonomo reato della stessa specie, come tale da giudicare senza  che
 per cio' venga violata la preclusione dell'art. 649 del c.p.p.
    A  conclusione dell'odierno dibattimento, il pubblico ministero ha
 chiesto  sollevarsi  questione  di  legittimita'  dell'art.  649  del
 c.p.p.,  in  relazione all'art. 3 della Costituzione. La difesa si e'
 associata.
    Questo tribunale ritiene che la decisione del g.u.p. sia corretta.
    Da  una  parte, infatti, l'unanime giurisprudenza regolatrice e la
 dottrina  (fatta  eccezione  per  un'autorevole,  ma   isolata   voce
 dissonante)  concordano  nel  ritenere  che  i  reati  di assenza dal
 servizio (artt. 148 e 151 del c.p.m.p.) siano permanenti.
    Dall'altra, la costante giurisprudenza e la  dottrina  prevalente,
 sul  presupposto  che il reato permanente congloba tutta una serie di
 azioni od omissioni sufficienti ciascuna a realizzare la consumazione
 del reato, affermano  che  la  sentenza  o  il  decreto  di  condanna
 "interrompono  la permanenza", di modo che il ne bis in idem riguarda
 la sola parte  del  reato  gia'  giudicata,  e  la  prosecuzione  del
 comportamento  illecito integra un nuovo reato, per il quale non puo'
 non intervenire un ulteriore giudizio.
    Il principio ha trovato applicazione per  i  reati  permanenti  di
 associazione   a  delinquere,  invasione  di  terreni,  sequestro  di
 persona, violazione degli obblighi  di  assistenza  familiare,  guida
 senza   patente,  in  materia  urbanistica  edilizia,  finanziaria  e
 previdenziale, ecc. E  recenti  pronunce  della  Cassazione  (sezione
 prima, 13 novembre 1992, c. D'Alessio; sezione prima, 15 luglio 1993,
 c.  Coppola), in linea con il tradizionale insegnamento del tribunale
 supremo militare, queste  stesse  regole  hanno  applicato  ai  reati
 militari di assenza dal servizio.
    Questo  tribunale non ritiene di dover mettere in dubbio ne' che i
 reati di diserzione e di mancanza dalla chiamata (artt. 148 e 151 del
 c.p.m.p.)  siano  permanenti  (benche'  non  manchi  in  dottrina  la
 concezione  secondo  cui  i  reati omissivi non potrebbero essere che
 istantanei), ne' in linea di principio le cennate  statuizioni  sulla
 preclusione  del ne bis in idem (anche se per coerenza sistematica il
 problema potrebbe essere oggetto di un approfondimento nel  confronto
 con   l'art.  151  del  c.p.  che  sembra  escludere  "l'interruzione
 giudiziale" quando ne deriverebbe la parziale  estinzione  del  reato
 per amnistia).
    Tuttavia,  non puo' non porsi un delicato problema di legittimita'
 in relazione alle conseguenze che  si  determinano  a  seguito  delle
 plurime   condanne   per   le   condotte   illecite  che,  perdurando
 successivamente ad ogni giudizio, danno  luogo  a  nuovi  e  autonomi
 reati della stessa specie. Conseguenze che, comunque riguardanti ogni
 caso  di  permanenza  nel reato, risultano particolarmente evidenti e
 gravi quando, come avviene per l'assenza dal servizio, la  permanenza
 nel  reato puo' protrarsi anche per venticinque anni circa (dall'eta'
 dell'obbligo di leva sino al compimento del  quarantacinquesimo  anno
 di eta').
    E'  chiaro che il trattamento sanzionatorio per un illecito penale
 deve poter tener conto anche  dell'ampiezza  del  periodo  nel  quale
 perdura la consumazione del reato. Tuttavia, di fronte all'indefinita
 possibilita'    del    moltiplicarsi    delle    condanne   a   causa
 dell'"interruzione giudiziale  della  permanenza"  ex  art.  649  del
 c.p.p.,  non  puo' non porsi un problema di legittimita', che valga a
 individuare un limite a questa spirale secondo cui,  sin  quando  non
 termini  il  periodo  di  lesione  del  bene  giuridico,  la condotta
 illecita porta ad una condanna che a sua volta pone  un  nuovo  fatto
 richiedente un'ulteriore sanzione, e cosi' via.
    Sensibile  a quest'esigenza, l'art. 377 del c.p.m.p. stabiliva che
 per i reati di assenza dal servizio di regola non si poteva procedere
 al giudizio sin quando non ne fosse cessata la permanenza.  La  norma
 tuttavia,  su  istanza  di  questo  tribunale,  e'  stata dalla Corte
 costituzionale  caducata  (sentenza  n.  469/1990),  dopo  che,   con
 l'entrata  in  vigore  del  nuovo  c.p.p.  e  per la dichiarazione di
 illegittimita' dell'art. 308 del  c.p.m.p.  (sentenza  n.  503/1989),
 pure  a  seguito  di  questione sollevata da questo tribunale, ne era
 venuto meno il necessario complemento,  vale  a  dire  il  potere  di
 adottare  misure  cautelari  e  precautelari  idonee a far cessare la
 permanenza nel reato.
    L'attuale situazione, purtroppo, si caratterizza  per  ancor  piu'
 gravi violazioni di principi costituzionali.
    L'"interruzione  giudiziale  della  permanenza"  ex  art.  649 del
 c.p.p. comporta, innanzitutto,  che  la  responsabilita'  penale  del
 disertore  o  mancante  alla  chiamata  ancora  assente  non  dipenda
 solamente dal suo operato, come richiederebbe il principio  dell'art.
 27,   primo   comma,   della  Costituzione,  ma  anche  dallo  stesso
 funzionamento  dell'apparato   giudiziario   militare:   essa,   piu'
 concretamente,  cresce  in  ragione del numero delle condanne che nel
 periodo del perdurante reato gli vengono inflitte.
    Questo  moltiplicarsi  dei  giudizi  e  delle  sanzioni   produce,
 inoltre,   in   violazione   dell'art.   25,   secondo  comma,  della
 Costituzione un innalzamento della pena stabilita per il reato e  una
 sanzione  praticamente indeterminata o, se si preferisce, che ex art.
 81 del c.p. trova un limite solamente nel triplo  del  massimo  della
 pena edittale.
    Infine,  ne  risulta  violato anche il principio dell'art. 3 della
 Costituzione essendo evidente che, a parita' di  periodo  di  assenza
 dal  servizio,  il  trattamento  sanzionatorio  complessivo  viene  a
 derivare dal grado di efficienza dell'apparato giudiziario competente
 a conoscere del reato nei vari autonomi episodi  che  si  creano  con
 l'"interruzione   giudiziale".   La   trasgressione   del   principio
 costituzionale  e',  del  resto,  evidente  anche  per  le  fasi  del
 procedimento  precedenti  il  giudizio:  da  una  posticipazione  del
 dibattimento   puo',   ad   esempio,   dipendere    la    sussistenza
 dell'aggravante di aver protratto l'assenza oltre sei mesi (art. 154,
 n. 2, del c.p.m.p.).
    E' chiaro, dunque, in quale senso la denunciata illegittimita' non
 puo'  riguardare l'"interruzione giudiziale della permanenza" ex art.
 649 del c.p.p. in quanto tale, bensi' solamente nella parte in cui  -
 il  che  e'  ampiamente sottolineato dalla giurisprudenza regolatrice
 che senza mezzi termini si riferisce al comportamento  successivo  al
 giudizio  come  ad un episodio del tutto nuovo ed autonomo - consente
 che per un unico reato permanente, una o  piu'  volte  giudizialmente
 "interrotto", sia irrogabile un complessivo trattamento sanzionatorio
 superiore a quello edittalmente stabilito per il reato medesimo.
    La  questione  di legittimita' e' rilevante nel presente giudizio,
 in quanto, a causa della lunga  durata  dell'assenza,  questo  limite
 gia'  puo'  venir superato per lo Zanfardino con l'aumento ex art. 81
 del c.p., rispetto al massimo della  pena  edittale  comminabile  per
 l'episodio  dal  26  novembre  1991  a  tutt'oggi,  aggravato a norma
 dell'art. 154, n. 2, del c.p.m.p.