IL TRIBUNALE MILITARE
    Ha  pronunciato  la seguente ordinanza nella causa contro D'Avossa
 Gianalfonso, nato il 17 marzo 1940 a Torino, atto di nascita n.  1260
 P.1  S.01, e residente a Roma in via Monte Savello n. 30; generale di
 brigata E.I. effettivo presso ispettorato dell'arma di artiglieria  e
 della  difesa  N.B.C.  in  Roma,  gia'  comandante della 132a brigata
 corazzata "Ariete"  in  Pordenone;  coniugato,  incensurato,  libero,
 imputato  di  peculato  militare continuato (artt. 81, secondo comma,
 del c.p., 215 del c.p.m.p., 314, secondo comma, del c.p.) perche'  in
 qualita'  di  comandante  della  brigata  "Ariete" di Pordenone dal 2
 settembre 1990 si appropriava in piu' occasioni, in esecuzione di  un
 medesimo disegno criminoso, delle due autovetture in dotazione al suo
 comando  (Alfa  33  targata EI-102 CB, Alfa 33 targata EI041 CQ) e le
 utilizzava per scopi privati per  raggiugere  localita'  fuori  dalla
 propria giurisdizione e sempre senza la prescritta autorizzazione del
 comandante  del  quinto  corpo  d'armata  di  Vittorio  Veneto  (ved.
 circolare USG-G-007 del Ministero della difesa).
                            FATTO E DIRITTO
    Il gen. b.  D'Avossa  e',  tra  l'altro,  imputato  del  reato  di
 peculato d'uso, corrispondente alla previsione dell'art. 314, secondo
 comma, del c.p.
    In  relazione  a  quest'imputazione si richiede un approfondimento
 del problema di giurisdizione. Com'e' noto, dispone  l'art.  263  del
 c.p.m.p.  che  al giudice militare appartiene la cognizione dei reati
 militari, ed e' pertanto necessario determinare se presenti carattere
 di militarita' il reato p. e p. dall'art.  314,  secondo  comma,  del
 c.p. attribuito al gen. D'Avossa.
    Stabilisce, al riguardo, l'art. 37, primo comma, del c.p.m.p., che
 "qualunque violazione della legge penale militare e' reato militare".
 La  disposizione,  apparentemente  inutile (non essendosi a tutt'oggi
 avuto un interprete  cosi'  fantasioso  da  negare  il  carattere  di
 militarita'  alla  violazione  di detta legge) e cosi' strutturata da
 lasciare un senso di incompletezza e  l'aspettativa  di  un'ulteriore
 disposizione  comportante che anche violazioni di altre leggi possano
 essere reato militare, nella realta' e' stata, invece,  intesa  quale
 autentica  ed  esaustiva  definizione  del  reato  militare. In altri
 termini, previa infrazione delle regole della sillogistica,  essa  e'
 stata  convertita  nella  proposizione  "qualunque  reato militare e'
 violazione  della  legge   penale   militare".   E   si   tratta   di
 interpretazione  cosi'  quasi  unanimamente  pacifica  da  non aver a
 tutt'oggi reso necessarie significative pronunce della giurisprudenza
 regolatrice.
    Alla stregua dell'art. 37, primo  comma,  interpretato  nel  senso
 suindicato,  e'  evidente la conclusione che nella specie ne derivano
 sul problema di giurisdizione: la violazione dell'art.  314,  secondo
 comma, del c.p., in quanto legge penale comune, non puo' essere reato
 militare, quando posta in essere dal militare "incaricato di funzioni
 amministrative  o  di comando" a danno dell'amministrazione militare.
 Per la  disposizione  medesima  e'  invece,  senz'altro  militare  il
 peculato delineato nell'art. 215 del c.p.m.p., commesso per l'appunto
 dal funzionario militare a danno dell'amministrazione militare. Cosi'
 sono militari anche i peculati degli artt. 217 e 218 del c.p.m.p.
    Ma  questo  tribunale  dubita  della  legittimita'  costituzionale
 dell'art. 37, primo comma, come sopra inteso, quale  definizione  del
 reato militare.
    Ne  appare  vulnerato  il principio costituzionale dell'art. 3, in
 quanto reati  ontologicamente  identici,  quali  da  un  lato  quello
 previsto  dall'art.  314,  secondo  comma,  del  c.p. e attribuito al
 D'Avossa e dall'altro quello previsto dall'art. 215 del c.p.m.p.,  il
 primo  considerato  comune  ed  il  secondo  militare,  sono tuttavia
 assoggettati a regimi giuridici diversi (per elemento  soggettivo  ex
 art.  39  del  c.p.m.p.,  aggravanti,  attenuanti,  scriminanti, pene
 principali ed  accessorie,  sanzioni  sostitutive,  esecuzioni  della
 pena,  effetti  penali  della  condanna,  ecc.).  Si  considerino, al
 riguardo, soprattutto la parte generale del  vigente  c.p.m.p.  e  le
 leggi sullo stato giuridico delle varie categorie di militari.
    Naturalmente, l'irrazionalita' non e' solo in questo caso, perche'
 anzi essa e' elevata a sistema.
    Nell'esemplificazione  occorre,  tuttavia,  attenersi a criteri di
 stringatezza.  Si  consideri  che,  sulla  base   della   comunemente
 accettata  interpretazione  dell'art.  37,  primo  comma, con le gia'
 evidenziate diverse  conseguenze  in  ordine  al  complessivo  regime
 giuridico,  e' reato militare: l'abuso dell'ufficio di comando quando
 dia luogo a peculato o malversazione (artt. 212 e 216 del  c.p.m.p.),
 ma non il generico abuso del medesimo ufficio; l'omicidio a danno del
 superiore  o  dell'inferiore  (artt.  186  e  195 del c.p.m.p.) nelle
 situazioni  indicate  nell'art.  199  del  c.p.m.p.,  ma  non  quando
 commesso  nell'ambiente  militare  in qualsiasi altra circostanza; le
 lesioni volontarie  (artt.  223  e  224  del  c.p.m.p.)  a  danno  di
 qualsiasi  militare  (parigrado,  e inferiore e superiore al di fuori
 delle  circostanze  indicate  nell'art.  199),  ma   mai   l'omicidio
 preterintenzionale  e  volontario; persino (T.S.M., 14 novembre 1969,
 c. Malavasi) l'eccesso colposo in una causa di giustificazione  (art.
 45  del c.p.m.p.), ma non il corrispondente reato colposo; il furto a
 danno di militare in luogo militare (art. 230 del c.p.m.p.),  ma  non
 la  rapina  avente  identiche caratteristiche; la minaccia a danno di
 militare (art. 229 del  c.p.m.p.),  ma  non  la  violenza  privata  o
 l'estorsione,  pur  trattandosi di norme delittuose in cui a volte si
 realizza il c.d. nonnismo; ecc.
    Il criterio, di  diritto  vivente,  per  il  riconoscimento  della
 militarita'  del  reato  porta  davvero  all'applicazione  di  regimi
 giuridici diversi a reati ontologicamente identici. Ma dall'art.  37,
 primo  comma,  deriva  anche  un'ulteriore  violazione  del principio
 dell'art. 3 della Costituzione, in quanto reati  aventi  la  medesima
 oggettivita'    giuridica    sono,   assoggettati   a   due   diverse
 giurisdizioni.
    Quest'ultimo aspetto, in verita', non e' cosi' drammatico come  il
 primo,  dal  momento  che  le regole processuali applicate dinanzi ai
 tribunali militari sono ormai quelle stesse,  in  ogni  aspetto,  che
 regolano   il   processo  penale  comune.  Inoltre,  le  garanzie  di
 indipendenza dei magistrati militari sono quelle stesse  riconosciute
 alla  magistratura  ordinaria  (leggi  7  maggio  1981,  n. 180, e 30
 dicembre 1988, n. 561).  Rimane  tuttavia  un  dato,  posto  bene  in
 rilievo  dalla  Corte  costituzionale  con  la  sentenza  n. 49/1989,
 caratterizzante  la  giurisdizione  militare,  e  sul  quale   questo
 tribunale fonda l'ulteriore profilo di apparente violazione dell'art.
 3 della Costituzione.
    Si  tratta  della  presenza nel collegio giudicante dell'ufficiale
 delle forze armate (art. 2, secondo comma, n. 3, della  citata  legge
 n.  180/1981)  che,  come  argomenta la Corte, e' "chiamato a dare un
 qualificato  contributo  inerente  alla  peculiarita'  della  vita  e
 dell'organizzazione  militare; contributo consistente nell'aiutare il
 collegio a fondare le proprie valutazioni sulla piena conoscenza e la
 piena comprensione dei molteplici aspetti del concreto atteggiarsi di
 quel settore; delle condizioni che lo caratterizzano e  dei  problemi
 che  vi  si  pongono.  Aspetti  tutti che non possono non riflettersi
 sulla  ricostruzione  e  valutazione  degli  elementi   oggettivi   e
 soggettivi  dei  fatti-reati  sottoposti  al  giudizio del tribunale,
 anche alla luce di quei valori tipici dell'ordinamento  militare  che
 gia'   la  Corte  ha  ritenuto  tali  da  concorrere  a  giustificare
 l'esistenza della speciale giurisdizione (sentenza n. 192/1976)".
    Ora, se si e' per cio' in presenza di una giurisdizione speciale e
 specializzata,  ne  risulta  dall'art.  37, primo comma, del c.p.m.p.
 vulnerato il principio dell'art. 3 della Costituzione, in quanto, tra
 reati oggettivamente identici, solamente quelli  compresi  in  quella
 "definizione" sono devoluti alla cognizione del giudice militare.