IL TRIBUNALE MILITARE
    Ha  pronunciato  la seguente ordinanza nella causa contro Cerasino
 Giuseppe nato il 17 marzo 1949 ad Ostuni (Brindisi), atto di  nascita
 n.  176/A/I, maresciallo a.m. in servizio presso il presidio militare
 di Vicenza,  e  residente  a  Vicenza  in  via  R.  Leoncavallo,  68,
 coniugato,   incensurato,   libero,   imputato   di  abuso  d'ufficio
 continuato (artt. 81 cpv., del c.p. e 323, primo e secondo comma, del
 c.p. e 37 del  c.p.m.p.)  perche',  nella  qualita'  di  gestore  del
 circolo  ufficiali  interforze  del presidio militare di Vicenza, con
 piu' azioni esecutive di medesimo disegno criminoso, assumeva in  se'
 anche  la  qualifica (incompatibile son l'incarico amministrativo) di
 procuratore della ditta  GI.AL.GI.  (questa  solo  fittiziamente  del
 suocero  Zaninello  Carlo) che esercitava anche in orario di servizio
 e,  soprattutto,  esercitava  anche  in   orario   di   servizio   e,
 soprattutto,  esercitava  la  direzione di tale ditta all'interno del
 circolo ufficiali ove la stessa ditta aveva vinto le gare di  appalto
 per   servizio  pulizie,  servizio  bar,  servizio  mensa;  con  cio'
 abbinando alle funzioni di gestore e controllore delle attivita'  del
 circolo  quelle  di  appaltatore privato di servizi presso i medesimi
 locali e con cio' abusando del proprio ufficio al fine  di  ricavarne
 un vantaggio patrimoniale.
    Fatto commesso negli anni 1991-1992 in Vicenza.
                             O S S E R V A
    1.  -  Prima  della dichiarazione di apertura del dibattimento, la
 difesa  ha  chiesto  che  il  tribunale,  rilevato  il   difetto   di
 giurisdizione  in  ordine  al reato di abuso d'ufficio (art. 81 cpv.,
 prima e secondo comma del  c.p.  e  37  del  c.p.m.p.),  ascritto  al
 maresciallo  a.m.  Cerasino  Giuseppe, disponga la trasmissione degli
 atti all'a.g.o.;
    Il p.m., nell'opporsi alla richiesta declaratoria  di  difetto  di
 giurisdizione  sul  rilievo  che  il  reato  di  abuso  d'ufficio, in
 presenza di determinati requisiti sostanziali, e' reato militare,  ha
 chiesto sollevarsi questione di legittimita' costituzionale dell'art.
 37  del  c.p.m.p., in riferimento all'art. 3 della Costituzione (come
 da pronuncia di questo tribunale militare in fattispecie  analoga  di
 altro procedimento penale), motivando al riguardo.
    2.   -   Cio'  premesso,  e'  parere  del  Collegio  che  non  sia
 manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
 dell'art. 37 del c.p.m.p. in relazione all'art. 3 della Costituzione,
 nei termini che seguono.
    Il  detto  art.  37  afferma che "qualunque violazione della legge
 penale militare e' reato militare".
    Questa  enunciazione  e'  stata  comunemente  in  dottrina  ed  in
 giurisprudenza  -  ad eccezione di rare pronuncie di merito, smentite
 dalla suprema Corte  -  identificata  nella  "definizione"  di  reato
 militare.
    Infatti essa e' stata tradotta, mediante evidente violazione delle
 regole  della  sillogistica,  nella proposizione inversa, secondo cui
 "qualunque reato militare e' violazione della legge penale militare".
    Ne e' derivata un'interpretazione  estremamente  formalistica,  in
 base  alla  quale e' solo il dato dell'inclusione in una legge penale
 militare - definita tale dal legislatore  -  a  comportare,  in  modo
 vincolante  per  l'interprete,  la  qualificazione  di  un fatto come
 "reato militare", con negazione di spazi  interpretativi  finalizzati
 ad una nozione piu' sostanziale ed appagante che ponga come epicentro
 il bene giuridico leso.
    Cosi',  il  reato  di abuso d'ufficio - che nella specie rileva -,
 non essendo previsto nei codici penali militari, ne' in  altre  leggi
 qualificate  penali  militari,  bensi' nel codice penale comune (art.
 323), dovrebbe essere sempre qualificato  come  reato  comune,  anche
 qualora - come appare ipotizzato in imputazione - l'abuso concerna un
 ufficio militare.
    Cio'  implica  rilevanti  conseguenze, da un lato, sul piano della
 disciplina sostanziale applicabile, che sara' la legge penale comune;
 dall'altro,  della  giurisdizione,   che   apparterra'   al   giudice
 ordinario.
    Eppure,  il  reato  in  questione  e'  norma  penale sussidiaria e
 residuale nella quale, come si evince dal dato testuale "salvo che il
 fatto non costituisca un piu' grave reato", sono riconducibili figure
 criminose non sussimibili in altre  fattispecie  penali  -  comuni  o
 militari - punite piu' gravemente.
    Tra  queste  ultime,  indubbiamente rientrano il peculato militare
 (art. 215 del c.p.m.p.), la  malversazione  militare  (art.  216  del
 c.p.m.p.),  l'abuso  di  autorita'  (artt.  195  e  196 del c.p.m.p.)
 l'abuso  nelle  requisizioni  (art.  134   del   c.p.m.p.),   l'abuso
 nell'imbarco  di  merci  o  di  passeggeri  (art.  135 del c.p.m.p.),
 l'abuso nel lavoro delle officine (art. 136 del c.p.m.p.) etc.; reati
 tutti che pur  comportano  una  illecita  strumentazione  dei  poteri
 connessi alla qualita' di p.u. e quindi abuso d'ufficio.
    Ma la sussidiarieta' della norma dell'art. 323 del c.p. implica il
 seguente  effetto:  che  qualora  non  trovino, applicazione le norme
 penali militari speciali, abbia vigenza, in presenza di un abuso piu'
 lieve non riconducibile in quelle fattispecie, la norma penale di cui
 all'art. 323 del c.p.
    Un  significativo  esempio,  riguardante  proprio  la  prospettata
 situazione,   e'   stato   recentemente   sottolineato   dalla  Corte
 costituzionale (sentenza n. 448/1991), la quale,  nel  dichiarare  la
 illegittimita' costituzionale del peculato militare per distrazione -
 a  seguito  dell'entrata  in  vigore  della  legge  n. 86/1990 che ha
 innovato solo rispetto nella disciplina comune -, ha affermato che le
 condotte dei  militari  prima  punite  a  tale  titolo,  in  avvenire
 "saranno  punibili se ed in quanto integrano le fattispecie descritte
 nei novellati artt. 314, secondo comma, e 323 del c.p., (Omissis)".
    Dal ragionamento si desume percio' un rapporto  di  persistente  e
 biunivoca   specialita'   reciproca,   in  tema  di  abusi  dei  p.u.
 (militari), tra disciplina penale comune e militare,  in  virtu'  del
 quale  l'applicazione  dell'una o dell'altra normativa emerge in modo
 accidentale ed irragionevole pur a  fronte  di  fatti  lesivi  di  un
 mesimo bene giuridico.
    Il  che  comporta  che,  mentre  alle  piu' gravi figure criminose
 contenute   nella   legge   penale   militare   (peculato   militare,
 malversazione  militare,  ecc.)  si  applichera' la disciplina penale
 militare, all'ipotesi sussidiaria (art. 323 del C.P.)  quella  penale
 comune.
    Le  conseguenze  sul  piano pratico sono notevoli: esse riguardano
 l'applicazione delle pene militari o comuni (corrispondenti a diverse
 finalita' ed obbedienti a differenti  regimi),  delle  speciali  pene
 accessorie  (rimozione,  sospensione  dall'impiego, dal grado, ecc.),
 delle attenuanti previste dal codice penale  militare  (significativa
 quella  dell'ottima  condotta  militare),  delle scriminanti speciali
 (artt. 42, 44 del  c.p.m.p.),  delle  sanzioni  sostitutive  di  pene
 detentive  brevi,  ex  lege 24 novembre 1981, n. 689 (secondo recente
 decisione della suprema Corte,  non  ammissibili  in  materia  penale
 militare).  E  cio',  nonostante  si  tratti di fatti ontologicamente
 uguali,  sostanzialmente  consistenti  tutti   in   abusi   d'ufficio
 militare.
    E'  evidente,  poi,  che cio' intanto si verifica in quanto esiste
 nel codice penale militare la norma di cui all'art. 37  che  lega  al
 dato meramente formale la nozione di reato militare.
    D'altronde,  e'  opportuno  rimarcare  che l'irrazionalita' non e'
 circoscrivibile al solo  caso  in  questione,  ma  che  essa  ricorre
 immanentemente e sistematicamente nella vigente disciplina.
    A  titolo  meramente  esemplificativo,  e' infatti reato militare,
 sulla base dell'interpretazione dominante dell'art. 37 del  c.p.m.p.,
 il  peculato  militare  (art.  215  del  c.p.m.p.)  e non il peculato
 militare d'uso (314, secondo comma, del c.p.), la lesione dolosa  tra
 parigrado  (art. 223 del c.p.m.p.) e non le lesioni colpose (art. 590
 del  c.p.);  l'omicidio  volontario  a   carico   del   superiore   o
 dell'inferiore  (artt.  186 e 195 del c.p.m.p.), ma non nei confronti
 di  parigrado  (art.  575  del  c.p.)  e  non  l'omicidio  colposo  o
 preterintenzionale  ne'  a  danno  di  superiore ne' di parigrado; la
 minaccia (art. 229 del c.p.m.p.), ma non la  violenza  privata  (art.
 610  del  c.p.)  nella  quale ultima pur sono inquadrabili la maggior
 parte di fatti penalmente rilevanti di "nonnismo".
    Si  ribadisce  che   anche   l'irrazionalita'   del   sistema   e'
 addebitabile  alla nozione dell'art. 37 del c.p.m.p. che - si ritiene
 - percio' presenti aspetti di incostituzionalita' con l'art. 3  della
 Costituzione,  in quanto obbliga all'assoggettamento a diversi regimi
 giuridici sostanziali per fatti ontologicamente lesivi  del  medesimo
 bene giuridico.
    3.  -  Ma  la  violazione  del  detto  parametro costituzionale si
 ravvisa, con riferimento all'art. 37, anche sotto  il  profilo  della
 giurisdizione.
    Infatti, secondo l'art. 263 del c.p.m.p.: "appartiene ai tribunali
 militari la cognizione dei reati militari commessi dalle persone alle
 quali e' applicabile la legge penale militare".
    Secondo  il criterio formalistico proposto dall'art. 37, e' quindi
 l'inclusione in una legge penale militare, conferendo  la  natura  di
 "reato  militare"  al  fatto, ad implicare, nel concorso di requisiti
 soggettivi (art. 103  della  Costituzione),  la  sottoposizione  alla
 giurisdizione penale militare.
    Ma deve osservarsi, che per fatti - come sopra esemplificati - pur
 uguali  dal  punto  di vista dell'oggettivita' giuridica, finisce con
 l'applicarsi  alternativamente,  in  modo  cieco   e   volubile,   la
 giurisdizione  ordinaria  o quella speciale, in assenza di criteri di
 razionalita'.
    Certo, vero e'  che  uguale  rito  ormai  si  applica  dinanzi  ai
 tribunali militari ed alla giurisdizione ordinaria e che delle stesse
 garanzie  d'indipendenza  godono  i  giudici militari (leggi 7 maggio
 1981, n. 180  e  30  dicembre  1988,  n.  561)  rispetto  ai  giudici
 ordinari.
    Ma  non  e'  men vero, pero', che il fondamento dell'esistenza dei
 tribunali militari si giustifica anche nella differente composizione,
 rispetto all'organo ordinario: l'elemento caratterizzante e'  infatti
 dato  dalla  presenza  di  un ufficiale delle FF.AA. (art. 2, secondo
 comma, n. 3, della legge n. 180/1981, che, come rilevato dalla  Corte
 costituzionale   (sentenze  nn.  191/1976,  49/1989  e  151/1992,  e'
 "chiamato a dare un qualificato contributo inerente alla peculiarita'
 della vita e  dell'organizzazione  militare;  contributo  consistente
 nell'aiutare il collegio a fondare le proprie valutazioni sulla piena
 conoscenza  e  la  piena  comprensione  dei  molteplici  aspetti  del
 concreto  atteggiarsi  di  quel  settore;  delle  condizioni  che  lo
 caratterizzano  e  dei  problemi che vi si pongono. Aspetti tutti che
 non possono non riflettersi sulla ricostruzione e  valutazione  degli
 elementi   oggettivi  e  soggettivi  dei  fatti-reati  sottoposti  al
 giudizio del  Tribunale,  anche  alla  luce  di  quei  valori  tipici
 dell'ordinamento  militare  che gia' la Corte ha ritenuto tali da non
 correre a  giustificare  l'esistenza  della  speciale  giurisdizione"
 (sentenza n. 192/1976).
    Proprio  alla stregua delle citate argomentazioni e' evidente che,
 se  trattasi  di   giurisdizione   speciale   e   specializzata,   la
 sottoposizione  alla cognizione dei tribunali militari solo dei fatti
 riconducibili nell'art. 37  del  c.p.m.p.,  e  non  anche  di  quelli
 identici  che non possano rientrarvi alla stregua della "definizione"
 contenutavi, introduce un ulteriore elemento  di  irrazionalita'  che
 appare violare l'art. 3 della Costituzione.
    4. - Vi e' infine da rilevare un ultimo aspetto.
    La  sussidiarieta'  della  norma  in questione comporta che la sua
 applicazione frequentemente emerga, in via residuale, solo  in  esito
 al procedimento, allorche', essendo piena la cognizione del fatto, si
 escluda la sussistenza di "un piu' grave reato".
    Tuttavia,  se cio' non comporta rilevanti effetti qualora il reato
 contestato ab origine sia reato comune perche' il giudizio ha  luogo,
 tutto, dinanzi al giudice ordinario, invece obbliga alla celebrazione
 di  un  secondo,  nuovo  processo  allorche' si sia in presenza di un
 fatto contestato inizialmente come reato militare e consistente in un
 abuso (artt. 215, 216, 195, 134, 135, 136  del  c.p.m.p.,  etc.),  ma
 emerga,  in  esito ad un completo esame, la figura sussidiaria di cui
 all'art. 323, non riconducibile nella "definizione" di cui al'art. 37
 e, percio', reato comune, di competenza dell'a.g.o.
    Ne deriva che l'art. 37 del c.p.m.p., nella parte in  cui  esclude
 la  riconducibilita'  nel  proprio ambito di fatti di abuso d'ufficio
 "militare", appare violare l'art. 97 della  Costituzione,  in  quanto
 normalmente   vanifica  le  energie  profuse  nel  primo  processo  e
 costringe ad una - inutile - duplicazione di giudizi per il  medesimo
 fatto,  con  conseguente  lesione  del  principio  del buon andamento
 dell'amministrazione della giustizia, costretta a reiterarsi in  piu'
 sedi ed a subire, in violazione delle regole di economia processuali,
 una inutile dilatazine dei tempi di definizione.