Ricorso della regione Emilia-Romagna, in persona del presidente della giunta regionale pro-tempore Pierluigi Bersani, autorizzato con deliberazione della giunta regionale n. 3698 del 29 luglio 1994, rappresentata e difesa, come da mandato a margine, dall'avv. Giandomenico Falcon di Padova, con domicilio eletto in Roma, presso l'avv. Luigi Manzi, via Confalonieri 5, contro il Presidente del Consiglio dei Ministri per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale del d.l. 26 luglio 1994, n. 468, recante "Misure urgenti per il rilancio economico ed occupazionale dei lavori pubblici e dell'edilizia privata" (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 175 del 28 luglio 1994), e precisamente: dell'art. 1, primo comma (in connessione con il secondo comma), in quanto, in violazione dell'art. 97, primo comma, dell'art. 117, primo comma, dell'art. 3 della Costituzione, nonche' dei principi fondamentali dello Stato di diritto riapre ed estende i termini del condono edilizio, vanificando l'azione di controllo e repressione delle amministrazioni e in particolare delle piu' attente, privilegiando coloro che hanno trasgredito le leggi rispetto ai cittadini comuni e ingenerando affidamenti di future impunita' per nuove illegalita'; dell'art. 1, decimo comma, in quanto assimila il silenzio delle amministrazioni di tutela dei vincoli ad un parere favorevole, in violazione degli artt. 3 e 9 della Costituzione, nonche' del principio del buon andamento dell'amministrazione e del principio generale di ragionevolezza; dell'art. 2, primo comma, e della connessa tabella in quanto omette di prevedere una categoria di contribuzione per le opere di restauro e risanamento conservativo, quando tali opere nel regime ordinario sarebbero soggette a concessione onerosa, in violazione degli artt. 3 e 97, primo comma della Costituzione; dell'art. 3, secondo comma, in quando affida al Ministro dei lavori pubblici, anziche' alle competenti regioni, la determinazione dei criteri di formazione e dei contenuti dei programmi di intervento per il rientro dell'abusivismo di necessita', in violazione degli artt. 117, primo comma, e 118, primo comma, della Costituzione; dell'art. 4, primo comma, in quando attribuisce al Ministro dei lavori pubblici, anziche' alle competenti regioni, gli eventuali poteri. sostitutivi per i provvedimenti di competenza del sindaco mediante la nomina di commissari ad acta, in violazione degli artt. 117, primo comma, e 118, primo comma, nonche' dell'art. 130 della Costituzione; dell'art. 4, primo comma, in quando attribuisce al Ministro dei lavori pubblici, anziche' alle competenti regioni, il compito di stipulare accordi con il Ministero della difesa per l'utilizzazione delle strutture tecnico-operative del Ministero stesso per le opere di demolizione, in 'violazione dell'art. 118, primo comma, della Costituzione; dell'art. 6, decimo comma, in quanto costringe le regioni che volessero utilizzare la procedura prevista dallo stesso art. 6, di possibile deroga alle norme di "contabilita'", a "chiedere" al Ministro l'autorizzazione, anziche' direttamente consentire tale possibilita', in violazione dell'autonomia amministrativa e legislativa regionale, nonche' in quanto assegna al Ministro a non alle regioni competenti il compito di autorizzare le amministrazioni infraregionali ad utilizzare la procedura di cui all'art. 6 per le opere pubbliche di competenza regionale; dell'art. 7, secondo comma, il quale dispone che decorsi i sessanta giorni dall'ordine di sospensione dei lavori senza ulteriori provvedimenti, "I'ordine del sindaco perde efficacia", senza disporre o consentire nessuna possibile forma di tutela dell'interesse pubblico, in violazione dell'art. 97, primo comma, e dell'art. 9 della Costituzione. dell'art. 7, quarto comma, che introduce la possibilita' di "monetizzare" gli abusi sui beni paesistici e storico-artistici compiuti mediante opere di ristrutturazione edilizia, "quando la restituzione in pristino non sia possibile o non consenta il recupero dei valori tutelati", in violazione dell'art. 9 della Costituzione; dell'art. 7, quinto comma, prima frase del nuovo testo dell'art. 11, primo comma, legge 47/1985, in quanto drasticamente riduce la sanzione per chi abbia costruito sulla base di concessioni annullate, in violazione degli artt. 97, 24, e 9 della Costituzione; dell'art. 7, quinto comma, seconda frase del nuovo testo dell'art. 11, primo comma, della legge 47/1985, in quanto prevede una sanzione assurdamente tenue e priva di congruenza con lo scopo, in violazione dell'art. 97, primo comma, della Costituzione, nonche' del principio di proporzionalita' e ragionevolezza; dell'art. 7, sesto comma, in quanto liberalizza totalmente le varianti "non essenziali" ed in parte le stesse varianti essenziali, in violazione degli artt. 117, primo comma, 118, primo comma, 97, primo comma, e 9 della Costituzione; dell'art. 8, primo comma, in quanto priva i comuni della possibilita' di disciplinare nel tempo l'espansione dell'abitato, in violazione degli artt. 97, primo comma, 128, 117, primo comma e 118 primo comma della Costituzione; dell'art. 8, terzo comma, in quanto, modificando l'art. 4 del d.l. n. 398 del 1193, introduce nell'ordinamento il principio generale del silenzio assenso per le concessioni edilizie, per l'ipotesi che entro novanta giorni "non venga comunicato all'interessato il provvedimento di diniego" (primo comma, ed in connessione terzo comma, e quarto comma), senza disporre le cautele minime necessarie ad assicurare la salvaguardia degli interessi pubblici, in violazione degli artt. 97, primo comma, 9, 128, 117, primo comma, 118, primo comma, della Costituzione; dell'art. 8, terzo comma, in quanto nel nuovo testo del terzo comma, dell'art. 4 d.l. n. 398/1993 si fa divieto all'amministrazione in termini assoluti di richiedere, ove necessarie, "ulteriori integrazioni documentali", in violazione dell'art. 97, primo comma, della Costituzione; dell'art. 8, settimo comma, in quanto attribuisce la giurisdizione sulla responsabilita' per danno del sindaco e del responsabile del procedimento per illegittimo diniego di concessioni edilizie alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo senza provvedere alle necessarie modifiche delle regole processuali e senza il necessario coordinamento con la giurisdizione del giudice ordinario per la responsabilita' dell'amministrazione, in violazione degli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione; Il d.l. 26 luglio 1994, n. 468, qui impugnato, contiene numerose disposizioni, che concettualmente conviene distinguere in diverse categorie. Da una parte, esso costituisce una riapertura ed una estensione agli immobili costruiti abusivamente sino a tutto il 31 dicembre 1993 del condono edilizio introdotto come misura eccezionale ed una tantum con la legge statale n. 47/1985. Dall'altra parte, esso introduce alcune innovazioni nella disciplina urbanistica generale. Infine, esso contiene talune disposizioni non riportabili a nessuna delle due categorie, e segnatamente talune disposizioni in materia di lavori pubblici. In tutti i propri ambiti di intervento esso tuttavia contiene disposizioni costituzionalmente illegittime sia perche' costituiscono diretta violazione delle prerogative costituzionali delle regioni, sia perche' costringono l'attivita' legislativa ed amministrativa delle regioni stesse a svolgersi entro un quadro normativo per diversi aspetti costituzionalmente illegittimo, ed ad assumere percio' esse stesse contenuti illegittimi. L'illustrazione di quanto affermato deve necessariamente condursi, in ossequio a regole logiche e processuali, analiticamente per singoli punti, all'interno dei profili sopra individuati. Sia consentito soltanto in termini generali di rilevare come l'intera disciplina statale qui impugnata, destinata a disciplinare - anche se in concreto a stravolgere - una materia che sia per il profilo urbanistico che per il profilo dei lavori pubblici pressoche' integralmente spettante alla responsabilita' delle regioni, paradossalmente non contenga neppure una volta la parola "Regione", ed in realta' neppure indirettamente si riferisca mai ai poteri legislativi ed amministrativi regionali. Nella "nuova" disciplina tutto e' concepito come se l'organizzazione istituzionale ed amministrativa italiana fosse quella precostituzionale, con i comuni quali diretti terminali periferici delle amministrazioni ministeriali. Ne' la rilevazione di tale paradosso e' dovuta ad una egoistica percezione delle proprie prerogative costituzionali da parte delle stesse e sole regioni interessate: sia consentito rilevare qui, nella narrativa generale, che e' in questi giorni proprio il presidente dell'Istituto nazionale di urbanistica - Istituto autorevole e certo mai pregiudizialmente favorevole alle regioni - a ricordare che mentre "vari ministri risultano impegnati alla definizione della riforma federalistica dello Stato", non solo la "centralistica concezione" del d.l. qui impugnato "e' in netta contraddizione con i principi di tale riforma", ma addirittura, come sopra notato, "l'esistenza delle regioni e' ignorata e le loro competenze costituzionali in materia urbanistica espropriate" (cosi' in Il Sole-24 Ore del 3 agosto 1994). Cio' dicendo, non si vuole certo attribuire all'Istituto nazionale di Urbanistica improprie competenze o autorita' in tema di accertamento della legittimita' costituzionale delle leggi, ma solo segnalare come le illegittimita' del decreto siano cosi' macroscopiche e palesi da essere percepite con nitidezza ed immediatezza, prima ancora che dai giuristi, dall'opinione pubblica e professionale piu' qualificata ed avvertita. 1. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 1, primo comma, in connessione con il secondo comma), in quanto, in violazione dell'art. 97, primo comma, dell'art. 117, primo comma, dell'art. 3 della Costituzione nonche' dei principi fondamentali strutturali dello Stato di diritto riapre ed estende i termini del condono edilizio. L'art. 1, primo comma, del decreto impugnato stabilisce che "le disposizioni di cui al capo IV e V della legge 28 febbraio 1985, n. 47, e successive modificazioni e integrazioni, come ulteriormente modificate dal presente decreto, si applicano alle opere abusive che risultano ultimate entro il 31 dicembre 1993". In concreto, la norma riapre ed estende i termini del condono edilizio. Da una parte, esso consente una nuova possibilita' di condono a chi non soltanto avesse compiuto illeciti edilizi, ma avesse anche ritenuto di non sottoporsi al condono previsto dalla legge n. 47/1985, e fosse percio' ricaduto nelle specifiche sanzioni comminate dall'art. 40, primo comma: che vengono percio' vanificate nel loro unico possibile ambito di applicazione. Dall'altra parte, la disposizione apre la possibilita' di condono a tutti coloro per i quali il precedente condono era stato non - come nella logica della norme e nelle intenzioni del legislatore - il momento di chiudere la stagione delle illegalita', ma il momento di aprire una nuova catena di illegalita' ed abusi: soggetti i quali, vista la prima falla aperta nel sistema della protezione dei beni e valori territoriali ed urbanistici dal condono del 1985, si sono sentiti autorizzati a pensare che anche il nuovo sistema di regole urbanistiche introdotte dalla stessa legge n. 47/1985 non fosse da prendere sul serio, e che anche il nuovo sistema di drastiche sanzioni introdotte dal legislatore non fosse che una vuota minaccia utile soltanto a fermare i cittadini timorosi, e si sono sentiti ugualmente autorizzati a sperare che il loro comportamento abusivo ed illegale, avrebbe alla fine meritato loro non la sanzione minacciata, ma un premio ed un privilegio, consistente nella possibilita' di conservare il bene illecitamente ottenuto e di trarne ogni possibile provento, purche' accettino di pagare una somma di danaro a quella stessa amministrazione pubblica che avrebbe dovuto essere invece lo strumento per l'irrogazione delle sanzioni. I cittadini comuni, invece, si vedono doppiamente puniti: da una parte per essere rimasti privi di quei beni edilizi che anch'essi avrebbero potuto e voluto costruire, ma che non hanno costruito non avendo ottenuto il necessario permesso; dall'altra per essere costretti ormai in via permanente a subire il degrado urbanistico ed ambientale prodotto dalle illegalita' edilizie altrui. Ingiusto e discriminatore per il passato, il nuovo condono non lo e' di meno per il futuro. Una volta reiterato, infatti, ed uscito percio' da quella eccezionalita' e singolarita' che caratterizzava il primo, l'istituto del condono tende a farsi sistema. La stessa tecnica legislativa seguita rende manifesto cio': non e' stato piu' necessario scrivere la legge sul condono, e' bastato, salve talune integrazioni e modifiche, richiare le "classiche" disposizioni della legge n. 47/1985. Il condono edilizio si e' fatto ormai istituto giuridico tra gli altri, anche se di applicazione non ordinaria ma "speciale", nel senso tecnico giuridico di istituto applicabile soltanto quando sia previsto da una specifica legge. D'altronde, se si ammette la reiterazione, e si esce percio' dalla logica della eccezionalita' e singolarita' che caratterizzava il primo condono, sullo stesso piano dell'equita' sostanziale si tolgono le basi per una reale applicazione anche in futuro delle severe sanzioni previste dalla legislazione urbanistica. Se a chi ha compiuto abusi entro il 1985 e' stato concesso, a pagamento, il premio del godimento e mantenimento dell'abuso, e se altrettanto avviene per chi abbia commesso abusi sino a tutto il 1993, in base a quale principio potrebbe risultare giusto ed equo sottoporre a gravose sanzioni chi commetta abusi equivalenti in futuro? Non si potra' neppure rispondere, a chi faccia valere i precedenti per reclamare l'impunita', che ben si sapeva che non ci sarebbero stati altri condoni: perche' la stessa cosa era stata detta solennemente, anche se oramai vanamente, all'atto del primo. D'altronde, per quale ragione le amministrazioni preposte alla tutela dovrebbero in futuro mostrarsi efficaci e diligenti nel reprimere l'illegalita' e l'abusivismo, dopo aver visto ogni loro precedente sforzo frustrato e vanificato, si vorrebbe dire irriso, dalla reiterazione del condono, e con la piu' che fondata attesa che anche i nuovi sforzi subirebbero la stessa ingloriosa fine?. Gli evidenti effetti del nuovo condono sono esattamente il contrario degli scopi che il d.l. impugnato dichiara nella "relazione" di accompagnamento di voler perseguire: come infatti si potra' "evitare che riprendano in maniera diffusa fenomeni di abusivismo e venga portato ad ulteriori livelli inaccettabili lo scempio dell'ambiente e del patrimonio artistico e culturale" se in primo luogo si consente agli autori di quegIi stessi lamentati misfatti di goderne il premio? Come si intende rimediare al risultato dichiarato del condono del 1985, cioe' al "risultato di paralizzare gli uffici tecnici locali" (tanto che, come pure si dice, per circa il novanta per cento dei casi" le pratiche relative al condono del 1985 sono ancora in corso) e di "incitare un nuovo abusivismo edilizio", facendo affluire sugli stessi enti locali ulteriori migliaia di nuove pratiche di condono? E' evidente invece che la reiterazione del condono scardina il sistema della legalita', viola il principio di uguaglianza dei cittadini, persino privilegia l'illegalita' sulla legalita', impedisce il normale ed ordinario funzionamento della pubblica amministrazione, produce le condizioni per un ulteriore degrado ambientale ed amministrativo. In termini giuridici definitori, il primo e sinora unico condono edilizio era stato fatto autorevolmente rientrare tra i provvedimenti espressione del "potere di clemenza" dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 369/1988. Sia consentito osservare che per la verita' e' lecito dubitare, se non dell'esattezza, almeno della esaustivita' di tale rappresentazione. Nella stessa sentenza ora citata autorevolmente si osservava come il "legislatore moderno, repentinamente destando la dottrina e la giurisprudenza" avesse mostrato come la "punibilita'" possa "essere usata per ottenere dall'autore dell'illecito prestazioni 'utili' a fini spesso estranei alla tutela del bene 'offeso' dal reato": sicche' "facendo balenare all'autore dell'illecito punibile, l'esclusione o attenuazione della punibilita', il legislatore 'orienta', 'dirige' la condotta del reo susseguente al reato al raggiungimento di fini dallo stesso legislatore 'desiderati'". Risulta evidente percio' che la "clemenza" non e' la vera causa dell'estinzione della punibilita' (non importa qui se penale, come nel testo citato, o amministrativa, come piu' rileva per gli interessi della ricorrente regione), e che al di la' dell'apparente clemenza appare una "causa di scambio" in termini piu' semplici, ma realistici, "clemenza" contro danaro. D'altronde, che la causa del decreto qui impugnato sia tale risulta dalla stessa relazione ufficiale, la quale, dopo le inesatte e improprie dichiarazioni di scopo sopra illustrate, piu' concretamente illustra come dal provvedimento sia da attendersi un gettito definito appunto "rilevante", e piu' precisamente qualificato, per la sola parte di oblazione, in oltre undicimila miliardi. Piu' che ad un puro provvedimento di clemenza, il condono assomiglia dunque, salvo che per l'oggetto profano, a quelle vendite di indulgenze che nella prima eta' moderna risultarono cosi' rilevanti per la storia civile e religiosa. Ora, che il sistema della finanza pubblica si trovi attualmente nella situazione dolorosa e deplorevole che viene spesso segnalata, e' un fatto certo; ma che tale fatto autorizzi lo Stato allo "scambio" tra illegalita' edilizia e pre'stazioni in danaro non puo' altrettanto certamente dirsi ammesso dalla Carta costituzionale, e corrispondente alla tutela di quei valori irrinunciabili che la stessa carta protegge. Al contrario, proprio la condizione disastrosa della finanza pubblica non puo' non avvisare della circostanza che, se tale scambio dovesse essere riconosciuto come costituzionalmente legittimo e consentito, ad esso fatalmente ed inevitabilmente si tornerebbe a ricorrere ogni volta che le stime di probabile gettito lo rendessero "consigliabile". Ma basta enunciare tale prospettiva per rendere evidente come essa drasticamente ripugni ai valori costituzionali, trasformi l'imperativo della legalita' in una mera facolta' per chi voglia semplicemente vivere tranquillo, trasformi la tutela degli interessi pubblici e dei valori costituzionali cui lo Stato e' chiamato in un termine meramente economico, rimpiazzabile per veri o presunti equivalenti monetari, secondo la necessita' dei governanti di trarre fondi dai governati senza loro troppo dispiacere. La stessa sentenza costituzionale n. 369/1988, sopra richiamata, poneva il problema dei "vincoli costituzionali al potere di clemenza". Essa lo poneva con riferimento soprattutto al profilo della punibilita' penale, mentre la ricorrente regione, nella sua veste di rappresentante degli interessi urbanistici della propria comunita' territoriale, oltre che di titolare di poteri e funzioni in materia, e' interessata maggiormente al profilo della salvaguardia, appunto, di tali interessi urbanistici e territoriali. Non pare dubbio tuttavia che i limiti enunciati in quella sede rimangano comunque validi, ed anzi, si consenta di soggiungere, vadano intesi ancor piu' restrittivamente quando si ponga il problema non della clemenza in astratto, ma della legittimita' costituzionale dello scambio tra accettazione del comportamento illegale e danaro, quando il comportamento illegale si sia tradotto in compromissioni dell'assetto edilizio ed urbanistico, e quando dunque l'accettazione dell'illegalita' si traduca nella definitiva accettazione della degradazione di tali valori. Da questo punto di vista, occorre sottolineare come il condono edilizio non sia in nessun modo assimilabile ad altri condoni che pure comportino "clemenza" penale, quali i condoni fiscali. Infatti, se anche per questi si pone indubbiamente il problema del complessivo sovvertimento della legalita', e dell'incoraggiamento che da essi deriva a nuove illegalita', va pero' osservato che, nell'oggetto specifico, si tratta di una rinuncia ad una pretesa economica in vista di una diversa, e sia pure piu' ridotta, pretesa economica. In altre parole, sia la pretesa originaria che quella derivante dal condono si riferiscono sempre a somme di danaro: di modo che, pur ferma ogni riserva ed ogni limite, la questione acquista, nel suo oggetto specifico, un connotato quasi di transazione ordinaria in relazione ad una lite patrimoniale. Il condono edilizio opera invece, anche nel suo oggetto specifico, su beni e interessi indisponibili e costituzionalmente tutelati della comunita'. Tali beni, costituzionalmente protetti sia direttamente in se stessi, sia indirettamente mediante un equilibrato riparto di competenze tra diversi livelli di responsabilita' territoriale, appartengono alla comunita' e non possono in linea di principio essere scambiati con "denaro" da nessun livello di governo, senza contraddire quella "gerarchia di valori" sottolineata proprio nella giurisprudenza costituzionale. Ed e' percio', ad avviso della ricorrente regione, che occorre partire da una valutazione costituzionale tendenzialmente negativa, e valutare con rigore se ed in che misura possano esistere presupposti legittimanti che conducano a superare, in singoli casi, la illegittimita' di principio. Ma sembra chiaro che nel caso in esame tali presupposti ostituzionali legittimanti devono essere drasticamente esclusi. Non solo, infatti, nella citata sentenza, la Corte costituzionale osserva, in termini generali, che "la 'non punibilita'' e la 'non procedibilita'', di cui ai moderni condoni penali, specie quando 'cancellano' reati lesivi di beni fondamentali della comunita', va usata negli stretti limiti consentiti dal sistema costituzionale", ma piu' specificamente rileva che il fenomeno puo' giustificarsi, in sostanza, in circostanze eccezionali, quando il legislatore intenda imprimere un nuovo orientamento alla disciplina di una materia, e sia percio' quasi necessitato, nel 'cancellare' il passato, ad incidere sulle sanzioni penali poste a rafforzamento delle sanzioni extrapenali" (punto 5 in diritto). Ma nel nostro caso nulla di tutto cio' si verifica, dato che, salvi gli aggiustamenti procedurali, rimangono immutati i cardini fondamentali della disciplina urbanistica, immutati i comportamenti leciti o illeciti, immutate le sanzioni. Se poi si considera la ratio della citata sente'nza con riferimento specifico al condono edilizio, risulta evidente che la ragione per la quale la Corte costituzionale ne ha ritenuto la legittimita' sta appunto nei concetti di eccezionalita' e soprattutto di singolarita', nella natura assegnata al condono di irripetibile punto di cesura tra un passato da sistemare con le misure di condono ed un futuro posto su basi ormai certe e sicure, nella natura percio' del condono di punto di partenza di una nuova legalita'. Ma e' evidente che tutto cio' non si puo' reiterare, quando ancora il primo condono non e' sostanzialmente concluso (la stessa relazione ricorda che il novanta per cento delle pratiche non e' ancora definita in via amministrativa; per non dire di tutta l'inevitabile fase contenziosa) senza ridicolo, e soprattutto senza naufragio degli irrinunciabili valori costituzionali. Cosi' la legge del 1985 e' stata ritenuta non contraria a costituzione proprio in quanto essa poneva (punto 6 in diritto) "'sicure' basi normative per la repressione futura di atti che violano fondamentali esigenze sottese al governo del territorio, come la sicurezza dell'esercizio dell'iniziativa economica privata (art. 41, secondo e terzo comma, della Costituzione), la funzione sociale della proprieta' (art. 42, secondo comma, della Costituzione) la tutela del paesaggio e del patrimonio storico artistico (art. 9, secondo comma, della Costiuzione) ecc." (punto 6 in diritto). Ancora, la Corte ha rilevato come andasse "nettamente distinto, nella legge in esame, cio' che attiene al futuro, nel quale il legislatore, nel riordinare la materia, non ammette in alcun modo sanatorie per le opere contrastanti con gli strumenti urbanistici, da cio' che riguarda il passato". Ne' la legge e' minimamente mutata sul punto di cio' che, nel regime ordinario, e' sanabile. Insomma, il, condono della legge n. 47 poteva e pote' considerarsi legittimo solo in quanto considerato eccezionale e singolare, pegno definitivo del superamento di una fase passata e di apertura di una nuova fase del diritto urbanistico, ormai certo ed irretrattabile. Se si pone in discussione, in diritto o in fatto, questo assetto di interessi e valori, si pone semmai in forse (smentendo in fatto l'argomentazione della Corte) la sostanziale legittimita' ed efficacia di quello passato, ma non si giunge certo a fondare la legittimita' costituzionale di un nuovo condono. In questo contesto non sia fuor di luogo notare che dunque il nuovo condono edilizio drasticamente contraddice, senza minimamente mutarli sul piano generale, i principi ed i valori della normativa urbanistica: il principio per cui si puo' costruire solo nel rispetto della regole, e si puo' ottenere la sanatoria ordinaria solo a rigide e precise condizioni (art. 13 della legge n. 47/1985), il principio per cui le illegalita' vanno combattute e represse, il principio cardine per cui l'illegalita' non deve comunque andare a beneficio di chi l'ha commessa, principio nel quale sta il fondamento razionale dell'acquisizione alla mano pubblica degli immobili abusivi. Tali principi sono quelli che secondo la Costituzione vincolano le regioni nella propria azione legislativa ed amministrativa. Ma cio' che la Costituzione impone alle regioni si impone ugualmente allo Stato: libero esso di innovare e dettare nuovi principi, non puo' tuttavia stracciare tali principi in singoli casi o per singoli periodi di tempo, senza violare ogni complessivo quadro di riferimento della legalita' costituzionale, dettando "norme" derogatorie per classi di casi gia' conclusi, che non possono che qualificarsi come norme di ingiustificato privilegio. Tali norme illegittimamente spogliano i pubblici poteri delle loro facolta' di reprimere gli abusi, ed addirittura assicurano agli autori beni che secondo le regole sanzionatorie ordinarie sono gia' entrati nel patrimonio pubblico. Sotto ognuno dei profili indicati emerge la complessiva illegittimita' costituzionale della reiterazione ed estensione del condono edilizio. 2. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 1, decimo comma, in quanto assimila il silenzio delle amministrazioni di tutela dei vincoli ad un parere favorevole, in violazione deqli artt. 3 e 9 della Costituzione, del principio del buon andamento dell'amministrazione e del principio generale di ragionevolezza. Il comma 10 dell'art. 1, dispone (integrando l'art. 32 della legge n. 47/1985) che quando la domanda di condono si riferisca ad opere su aree sottoposte a vincolo, ivi comprese quelle realizzate nei parchi, ed il condono stesso sia percio' subordinato al parere favorevole dell'autorita' di tutela, tale parere "si intende reso in senso favorevole" qualora esso non venga formulato entro centoventi giorni. E' evidente che la contestazione della legittimita' costituzionale di tale disposizione si pone su un piano diverso e del tutto subordinato, rispetto a quanto sopra argomentato. Tuttavia, anche tale specifica illegittimita' e' per se' grave ed agevolmente rilevabile. Va rilevato intanto che attualmente, diversamente da quanto avveniva nel 1985, la posizione dei pareri nel procedimento ha trovato, proprio per l'aspetto che qui interessa, disciplina generale. Dispone infatti l'art. 16, primo comma, della legge n. 241/1990 che "ove debba essere obbligatoriamente sentito un organo consultivo, questo deve emettere il proprio parere entro il termine prefissato" o, in mancanza, entro novanta giorni; ed il secondo comma specifica che "in caso di decorrenza del termine senza che sia stato comunicato il parere .. e' in facolta' dell'amministrazione richiedente di procedere indipendentemente dall'acquisizione del parere". Il terzo comma precisa tuttavia che le disposizioni di cui ai primi due commi "non si applicano in caso di pareri che debbano essere rilasciati da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico territoriale e della salute dei cittadini". Dunque, in via ordinaria e' dettata una disciplina generale che privilegia la speditezza dei procedimenti, consentendo all'amministrazione attiva di procedere anche in caso di inerzia dell'organo consultivo; ma tale principio non si applica in caso di' pareri finalizzati alla tutela di una serie di valori, che il legislatore, in ossequio al loro particolare valore costituzionale e alla rilevanza per i cittadini, privilegia rispetto alla stessa speditezza del procedimento. Ora, se cio' vale per la procedura ordinaria, a maggiore ragione dovrebbe valere in una procedura come quella relativa al condono edilizio: nella quale colui che richiede la sanatoria si trova per sua stessa ammissione in una condizione di illegalita', nella quale non si e' verosimilmente curato dei valori ambientali o di altri valori privilegiati. Sembra anche troppo ovvio che da una parte la disposizione in esame rende del tutto eventuale la tutela dei valori costituzionalmente protetti, dall'altra che tale soluzione e' altresi' irragionevole, costituendo un privilegio favorevole per l'autore di un abuso, rispetto a colui che versi nella situazione ordinaria di legalita' e di controllo preventivo. Inoltre, la disposizione e' anche intrinsecamente irragionevole. Infatti, se un parere richiesto dalla legge tarda, il legislatore potra', se lo ritiene opportuno, e salvi i limiti ora illustrati, consentire all'autorita' che deve provvedere di farlo anche in assenza del parere: con il risultato che l'autorita' provvedente riassorbira' in se' e decidera' anche esercitando quella discezionalita' che il parere avrebbe trattato. Ma non puo' il legislatore, senza far violenza alla realta' e ledere la tutela dei valori costituzionali, trasformare il silenzio in un presunto "parere favorevole": assegnando dunque al silenzio il compito di orientare positivamente la decisione dell'autorita' che provvede, che si troverebbe praticamente vincolata ad una valutazione positiva che non esiste e non e' stata resa. Di qui un profilo di ulteriore irragionevolezza e di contrasto con il principio di buon andamento dell'amministrazione. 3. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 2, primo comma, e della connessa tabella, in quanto omette di prevedere una categoria di contribuzione per la opere di restauro e risanamento conservativo, quando tali opere nel regime ordinario sarebbero soggette a concessione onerosa in quanto non rientranti nelle ipotesi previste dall'art. 9 della legge n. 10/1977 (edifici unifamiliari e restauri convenzionati) e dall'art. 7 del d.l. n. 9/1982 (recupero abitativo), in violazione dell'art. 3 e 97, primo comma, della Costituzione. Sempre in via subordinata alla questione principale relativa al condono, va osservato che il decreto impugnato sembra omettere di prevedere una categoria di contribuzione per talune opere abusive, e precisamente per le opere costituenti restauro conservativo, quando queste siano soggette a concessione onerosa. E' probabile che l'omissione sia dovuta all'opinione che il restauro conservativo non sia soggetto a concessione onerosa. Tuttavia, cio' non appare esatto, dato che il legislatore sottrae al principio generale della soggezione a concessione e della onerosita' solo talune fattispecie di restauro, indicate in epigrafe. Se il rilievo e' fondato, la mancata previsione di una apposita contribuzione per le altre fattispecie discrimina in modo favorevole gli autori di certi abusi, in violazione dell'art. 3 della Costituzione. 4. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, secondo comma, in quando affida al Ministro dei lavori pubblici, anziche' alle competenti regioni, la determinazione dei criteri di formazione e dei contenuti dei programmi di intervento per il rientro dell'abusivismo di necessita', in violazione degli artt. 117, primo comma, e 118, primo comma, della Costituzione. L'art. 3, primo comma, prevede che "i comuni, ai fini della realizzazione di programmi di intervento .. individuano le zone maggiormente interessate dall'abusivismo, con particolare riferimento agli immobili utilizzati come abitazione primaria". Il secondo comma prevede che sia il Ministro dei lavori pubblici a determinare "con proprio decreto, i criteri di formazione e i contenuti dei programmi di intervento, nonche' le modalita' di concessione dei finanziamenti". A parte il carattere intrinsecamente criticabile di una disciplina che non definisce neppure ad un livello minimo l'oggetto ed i contenuti dei programmi comunali di intervento, lasciando solo supporre che si tratti di programmi di lavori pubblici, non potrebbe essere piu' evidente la lesione dell'autonomia legislativa ed amministrativa delle regioni. Qui semplicemente il legislatore attribuisce al Ministro dei lavori pubblici i compiti che la Costituzione assegna alle regioni. Ad esse spetta di definire i programmi di intervento nei loro contenuti e nelle modalita' di formazione, ad esse spetta di finanziare le relative spese, ad esse spetta di acquisire e destinare le risorse necessarie, qualora si tratti di interventi non rientranti nella finanza ordinaria delle regioni. In particolare, lo sviluppo e la specificazione delle disposizioni di principio statali e' il compito proprio della potesta' legislativa regionale. Ma ugualmente deve dirsi per la potesta' amministrativa in materia di programmi di lavori pubblici, secondo il riparto di competenze fissato, in attuazione della Costituzione, dagli artt. 87 e 88 del d.P.R. n. 616/1977. Ne' si puo' invocare per un diverso riparto qualunque interesse nazionale. Il fatto e', come detto in premessa, che il legislatore del decreto n. 468 ha ragionato come se l'articolazione istituzionale italiana fosse oggi ancora quella precostituzionale, nella quale ogni incombenza di una certa rilevanza in materia di urbanistica e lavori pubblici era in sostanza cogestita tra i comuni interessati e il Ministero. Che l'articolazione precostituzionale delle competenze e degli interventi risulti, se riproposta oggi, incostituzionale, sembra davvero troppo evidente per richiedere ulteriore illustrazione. 5. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, primo comma, in quando attribuisce al Ministro dei lavori pubblici. anziche' alle competenti regioni, gli eventuali poteri sostitutivi per i provvedimenti di competenza del sindaco mediante la nomina di commissari ad acta, in violazione degli artt. 117, primo comma, e 118, primo comma, nonche' dell'art. 130 della Costituzione. L'art. 4, primo comma, dispone che "in caso di inadempienze il Ministro dei lavori pubblici, ai fini dell'attuazione di quanto previsto dal presente decreto, su richiesta del sindaco, del comitato regionale di controllo, ai sensi dell'art. 48 della legge 8 giugno 1990, n. 142, ovvero su segnalazione del prefetto competente per territorio, nomina un commissario ad acta per l'adozione di provvedimenti di competenza del sindaco". A parte l'apparente assurdita' della norma che prevede che il sindaco chieda al Ministro la nomina di un commissario ad acta per adottare provvedimenti che lo stesso sindaco potrebbe e dovrebbe adottare (altrimenti infatti non ci sarebbe inadempienza), e la stravaganza solo leggermente inferiore di quella che assegna al comitato regionale di controllo il compito di chiedere al Ministro la nomina di un commissario che secondo le regole ordinarie dell'art. 48 della legge 142/1990 dovrebbe nominare esso stesso, la disposizione risulta platealmente incostituzionale. L'art. 130 della Costituzione dispone che il controllo sugli atti dei comuni e province e' esercitato da un organo regionale, identificato dal legislatore nel Comitato regionale di controllo. Come sembra pacifico in dottrina e in giurisprudenza, l'attribuzione costituzionale si riferisce sia al controllo preventivo che a quello sostitutivo, ove se ne verifichino gli estremi. La regola costituzionale e' d'altronde codificata a livello di legislazione ordinaria proprio dall'art. 48, primo comma, della legge n. 142/1990, cosi' impropriamente richiamato dal decreto impugnato, secondo il quale "qualora i comuni e le province, sebbene invitati a provvedere .. ritardino o omettano di compiere atti obbligatori per legge, il comitato regionale di controllo provvede a mezzo di un commissario". Il secondo comma assegna poi alla legge regionale il compito di disciplinare le modalita' di esercizio di tale potere. Dunque, sia che la disposizione venga intesa come un potere aggiuntivo a quello del comitato regionale di controllo, sia che venga intesa come un potere sostitutivo di questo, la disposizione risulta incostituzionale. Ugualmente risulterebbe incostituzionale se si volesse considerare il potere in questione come potere di amministrazione attiva, anziche' di controllo, perche' esso spetterebbe comunque all'autonomia amministrativa e legislativa delle regioni in relazione alla materia di intervento. 6. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, secondo comma, in quanto attribuisce al Ministro dei lavori pubblici, anziche' alle competenti regioni, il compito di stipulare accordi con il Ministero della difesa per l'utilizzazione delle strutture tecnico-operative del Ministero stesso per le opere di demolizione, in violazione dell'art. 118, primo comma, della Costituzione. In ragione della materia (lavori pubblici e urbanistica) spetta alle regioni e non al Ministro dei lavori pubblici, ed ancor meno ad organi periferici di esso, di stipulare intese relative all'uso delle strutture tecnico-operative del Ministero della difesa per le opere di demolizione di edifici abusivi. Il legislatore del decreto sembra credere che, poiche' si tratta di questioni coinvolgenti la difesa, la competenza regionale deve essere esclusa. Ma qui la difesa non c'entra per nulla, e il problema sta tutto nel concordare le modalita' per l'attivita' di demolizione, a tutela dei valori urbanistici, edilizi, paesistici, ambientali, ecc. L'attivita' amministrativa in relazione ad essi e' assegnata dalla Costituzione e dalle leggi alle regioni, ed esse possono svolgerla in collaborazione con altre amministrazioni, anche statali, secondo le regole generali, codificate ad esempio dall'art. 15 della legge n. 241/1990. La sola cosa che richiede intervento dello Stato e' l'autorizzazione legislativa al Ministero della difesa di occuparsi di cio': infatti, la tutela dei valori sopra detti non rientra nei compiti ordinari delle strutture tecnico-operative di tale Ministero, e richiede percio' apposita previsione statale. Su tale base, tuttavia, rimane intatta la competenza regionale a tradurre anche tale intervento in attivita' operativa, stipulando con l'amministrazione della difesa le necessarie convenzioni sul piano locale. Al piu', potrebbe ammettersi, se il legislatore lo ritenesse necessario, che le convenzioni locali possano trovare un punto di riferimento in convenzioni quadro a livello nazionale: ma ogni previsione eccedente questa risulta contraria alle attribuzioni costituzionali di competenza. 7. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 6, decimo comma, in quanto costringe le regioni che volessero utilizzare la procedura prevista dallo stesso art. 6, di possibile deroga alle norme di "contabilita'", a "chiedere" al Ministro l'autorizzazione, anziche' direttamente consentire tale possibilita', in violazione dell'autonomia amministrativa e legislativa regionale, e, in quanto assegna al Ministro a non alle regioni competenti il compito di autorizzare le amministrazioni infraregionali ad utilizzare la procedura di cui all'art. 6 per le opere pubbliche di competenza regionale. L'art. 6 del decreto, sotto il titolo "definizione del contenzioso in materia di opere pubbliche" individua una procedura di riattivazione di opere di competenza statale per qualunque ragione sospese, anche di fatto. Tale procedura e' avviata da una "istanza" del "ricorrente", della quale si dice (ottavo comma) che essa comporta rinuncia irrevocabile ad ogni possibile azione connessa alla sospensione, nonche' ad ogni pretesa, compresi i danni, gli interessi e le revisioni prezzi se dovute per il periodo dalla sospensione. Poiche' tale rinuncia sembra operare a prescindere dall'esito dell'istanza (sembra cioe' valere anche in caso di suo non accoglimento), la disposizione si direbbe incostituzionale. In ogni modo, sulla base dell'istanza una apposita commissione valuta la situazione, formulando al Ministro le proposte conseguenti; e qualora "la valutazione si concluda con esito positivo la procedura di affidamento o di esecuzione deve essere ripresa e portata a conclusione, anche in deroga alle norme di contabilita' dello Stato" (settimo comma). La disposizione appare oscura e la possibilita' cosi' indeterminata di deroga alle norme di contabilita' appare essa stessa di dubbia costituzionalita'. Tale procedura riguarda in primo luogo, come detto, opere di competenza statale. Tuttavia, il decimo comma, dello stesso art. 6 dispone che "le pubbliche amministrazioni .. possono chiedere al Ministro dei lavori pubblici l'applicazione delle disposizioni di cui al presente articolo alle procedure di affidamento e di realizzazione di lavori di rispettiva competenza, ove ricorrano le condizioni indicate nel presente articolo". In altre parole, e' il Ministro a decidere, in tali casi, se debba essere applicata la legislazione ordinaria (anche eventualmente regionale) o le regole derogatorie dell'art. 6. Tale disposizione si rivela illegittima sotto un duplice profilo. Da una parte, ed a prescindere da ogni valutazione specifica della procedura prevista dall'art. 6 in se' considerata, la disposizione del decimo comma costringe le regioni che volessero utilizzare tale procedura, anziche' quelle previste in via ordinaria a "chiedere" al Ministro l'autorizzazione, rendendo oltretutto il Ministro arbitro di decidere se vadano o meno applicate le stesse leggi regionali che disciplinano la materia dei lavori pubblici e della contabilita' regionale. E' evidente che tale potere ministeriale, e la corrispondente soggezione regionale, sono abnormi, privi di ragione e di corrispondenza nelle regole costituzionali. Se il principio della legislazione statale e' che per le opere sospese puo' essere seguita una speciale procedura derogatoria, per quanto riguarda le regioni ogni decisione al riguardo, qualora il legislatore statale non voglia stabilire direttamente tale possibilita' anche per esse, non puo' spettare che alle stesse regioni, nel rispetto delle regole costituzionali e statutarie. Ma il decimo comma dell'art. 6 viola le prerogative regionali anche sotto un secondo e non meno rilevante profilo. Esso in pratica attribuisce al Ministro dei lavori pubblici ogni decisione non solo sulle regioni stesse, ma anche su tutte le amministrazioni che rientrano, ai fini dei lavori pubblici, nel "sistema regionale". In realta', sono tutte le amministrazioni locali interne alla regione ad essere soggette alle leggi regionali in materia di opere pubbliche. E' chiaro dunque che, una volta ammessa dal legislatore statale la possibilita' astratta di una procedura derogatoria, ogni decisione sull'applicazione di tale procedura nei singoli ambiti locali, soggetti alla potesta' legislativa ed amministrativa regionale, non puo' spettare che alla stessa regione, e che ogni diversa statuizione si traduce in una grave lesione delle prerogative costituzionali della regione. 8. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 7, secondo comma, in quanto dispone, decorsi i sessanta qiorni dall'ordine di sospensione dei lavori senza ulteriori provvedimenti, la cessazione dell'efficacia dell'ordine del sindaco, senza disporre o consentire nessuna possibile forma di tutela dell'interesse pubblico, in violazione dell'art. 97, primo comma, e dell'art. 9 della Costituzione. L'art. 7, secondo comma, del decreto impugnato dispone, modificando ed integrando l'art. 4, terzo comma, della legge n. 47/1985, che decorsi i sessanta giorni dall'ordine di sospensione dei lavori senza ulteriori provvedimenti, "l'ordine del sindaco perde efficacia". Cosi' facendo la legge privilegia in modo assoluto, tra i due interessi confliggenti, l'interesse del privato ad una celere definizione della sua posizione, subordinando completamente ad esso l'interesse pubblico alla tutela dei valori urbanistici. La ricorrente regione Emilia-Romagna non nega che ciascuno degli interessi in gioco sia degno di tutela, e non contesta in assoluto che sia possibile per il legislatore statale definire un equilibrio diverso da quello fissato dal diritto sin qui vigente: ma dovra' pur sempre trattarsi di un equilibrio, e non delle semplice subordinazione dell'interesse pubblico a quello privato. D'altronde, se una attenuazione dell'efficacia dell'ordine di sospensione dei lavori potrebbe essere comprensibile qualora essa venisse riferita a violazioni urbanistiche minori, la sua estensione a qualunque trasgressione di regole urbanistiche appare ingiustificata ed abnorme: si pensi alle opere costruite in assenza di concessione o in totale difformita', o addirittura ad opere costruite su aree assoggettate a vincoli di totale inedificabilita' o destinate a spazi pubblici. Sembra assurdo, in tali ipotesi, consentire a chi ha intrapreso una costruzione radicalmente illecita di proseguire nella sua attivita', soltanto perche' il comune non ha provveduto a completare l'iter istruttorio per i provvedimenti definitivi. In effetti, le opere realizzate, a stare alla disciplina urbanistica, dovrebbero comunque alla fine essere demolite: il vantaggio di poter continuare nell'abuso e' tale dunque solo se si pensi che, una volta fatta l'opera, in qualche modo essa verra' "sanata", e dunque in una logica di condono permanente. Diversamente, infatti, si tratta solo di un costo sia per il privato che per la comunita'. Inoltre, il legislatore non subordina la possibilita' di continuare nell'opera intrapresa, ed oggetto dell'ordine di sospensione, a nessuna tra le molte possibili cautele: dalla costituzione di cauzioni, a poteri sindacali di reiterare l'ordine per gravi motivi, alla presentazione di asseverazioni di professionisti terzi attestanti, sotto la loro responsabilita', la conformita' dei lavori alle previsioni urbanistiche e la loro regolarita' sotto il profilo dei permessi edilizi, ecc. Insomma, mentre sarebbe altamente utile uno strumento di effettivo contemperamento degli interessi, che consentisse, in certi casi e con determinate modalita', di sottrarsi all'eventuale inerzia dell'amministrazione, la pura e semplice dichiarazione di decadenza dell'ordinanza sindacale di sospensione compromette gravissimamente l'interesse pubblico, senza giovare nella sostanza a quello privato. Di qui l'illegittimita' costituzionale per violazione dell'art. 97, primo comma, della Costituzione, e dei principi di proporzionalita' e di ragionevolezza. 8. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 7, quarto comma, in quanto introduce la possibilita' di "monetizzare" gli abusi sui beni paesistici e storico-artistici compiuti mediante opere di ristrutturazione edilizia, in violazione dell'art. 9 della Costituzione. L'art. 7, quarto comma, del decreto impugnato, modificando l'art. 9 della legge n. 47/1985, introduce la possibilita' di "monetizzare" gli abusi sui beni paesistici e storico-artistici compiuti mediante opere di ristrutturazione edilizia, "quando la restituzione in pristino non sia possibile o non consenta il recupero dei valori tutelati". Va ricordato che l'art. 9 della legge n. 47/1985, prima della modifica, disponeva norme speciali per gli interventi di ristrutturazione edilizia che interessassero i beni di interesse storico-artistico ovvero di interesse paesistico ambientale gia' tutelati dalle leggi del 1939 n. 1089 e n. 1497, prescrivendo che in ogni caso l'autorita', oltre ad irrogare una sanzione pecuniaria fino a dieci milioni, ordinasse "la riduzione in pristino a cura e spese del responsabile dell'abuso, indicando criteri e modalita' diretti a ricostituire l'originario organismo edilizio". In altre parole, la legge considerava l'intervento abusivo di ristrutturazione edilizia come un intervento sempre reversibile: nel senso che anche in caso di distruzione dovesse sempre essere ricostituito "l'originario organismo edilizio". Cio' da una parte tutelava la comunita' minimizzando il danno, d'altra parte scoraggiava la produzione del danno stesso, dato che l'autore non avrebbe mai potuto conservare il prodotto del proprio abuso. Sotto questo aspetto, la disciplina dei beni storico-artistici si differenziava e si contrapponeva alla tutela "ordinaria": in relazione alla quale lo stesso art. 9 disponeva si', al primo comma, la rimessione in pristino, precisando pero' al secondo comma che "qualora, sulla base di motivato accertamento comunale, il ripristino dello stato dei luoghi" si rivelasse "impossibile", il sindaco avrebbe irrogato una sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento di valore realizzato. Si aveva cosi', per la tutela ordinaria la restituzione in pristino o, in caso di impossibilita', la sanzione del doppio del valore; per la tutela rafforzata dei beni storico-artistici e paesistici, la riduzione in pristino "secca" oltre alla sanzione assoluta fino a 10 milioni. La disciplina ora descritta non impediva affatto che, nel caso nel corso dei lavori venissero prodotti danni irrimediabili a beni storico-artistici, tali danni venissero addossati al loro autore ai sensi dell'art. 59, terzo comma, della legge n. 1089/1939. La nuova disciplina recata dall'impugnato decreto introduce e disciplina l'ipotesi che "la restituzione in pristino non sia possibile o non consenta il recupero dei valori tutelati", e per essa prevede, accanto alla sanzione pecuniaria di cui s'e' detto, "il pagamento di una indennita' determinata con i criteri e le modalita' previste dalle citate leggi 1 giugno 1939, n. 1089, e 29 giugno 1939, n. 1497". Dunque, mentre nel regime precedente, la tutela delle bellezze protette era assoluta, richiedendosi in ogni caso la rimessione in pristino, ora essa e' "relativizzata", dato che tale rimessione in pristino e' esclusa non in caso di "impossibilita'" (come gia' prima per le opere su beni non soggetti a speciale tutela) ma anche per il caso che la rimessione in pristino, pur possibile, "non consenta il recupero dei valori tutelati". Ne consegue che oggi la tutela specifica dei beni protetti e' inferiore alla tutela ordinaria: perche' nei casi normali si evitera' la riduzione in pristino soltanto nei casi di impossibilita', nei casi di speciale protezione anche quando la rimessione in pristino non consentirebbe il recupero dei valori tutelati. Gia' sotto questo profilo e' evidente la contraddittorieta' e l'assurdita' di tale normativa. Ma va in aggiunta considerato che, al di la' dell'apparente neutralita', il concetto di "impossibilita'" della rimessione in pristino e' un concetto che la stessa esperienza mostra largamente opinabile: la giurisprudenza amministrativa ha in passato ammesso che nella valutazione di tale "impossibilita'" entri la considerazione degli interessi in gioco (Cons. Stato, V, 19 gennaio 1979, n. 29; Cons. St., V, 18 novembre 1982, n. 782, rispetto all'essere gli immobili gia' abitati; Cons. St., V, 15 aprile 1983, n. 127, rispetto all'esigenza di conservare il patrimonio immobiliare esistente), e piu' in generale ha ammesso l'esistenza di una "discrezionalita'" (Cons. St., V, 27 marzo 1981, n. 113). Sembra dunque chiaro che, nella realta' del diritto vivente, l'introduzione anche per i beni oggetto di speciale tutela della nozione di "impossibilita'" della rimessione in pristino apre la strada a valutazioni che in concreto rappresentano una diminuzione di tutela. E cio' va detto a maggior ragione se all'ipotesi dell'impossibilita' di aggiunge quella, ancor piu' opinabile, di "recuperabilita'" dei valori tutelati. Ma la tutela dei beni specialmente protetti rischia di rivelarsi ormai inferiore a quella ordinaria anche sotto il profilo della sanzione pecuniaria. Prima della modifica, infatti, era chiaro che nell'ipotesi di ristrutturazione edilizia abusiva su beni oggetto di tutela speciale non si applicava la sanzione del doppio dell'aumento di valore dell'immobile: dato che tale sanzione presupponeva la conservazione delle opere realizzate, esclusa invece nel caso specifico dal terzo comma dell'art. 9. In altre parole, il richiamo alle "altre misure e sanzioni previste da norme vigenti" non sembrava nella sua formulazione e non poteva in sostanza riferirsi alle sanzioni pecuniarie del comma precedente. Nella nuova formulazione, il legislatore mantiene "ferme" le sanzioni di cui al periodo precedente: cioe' quelle del vecchio terzo comma. Ma tali sanzioni, come detto, non comprendevano la sanzione del secondo comma, ovvero il doppio dell'aumento di valore. E' dunque da ritenere, o da temere, che anche nella formulazione integrata dal decreto impugnato le sanzioni per i beni specialmente protetti non comprendano la sanzione prevista dal secondo comma. Se cosi' e', anche sotto questo profilo la tutela dei beni specialmente protetti potrebbe rivelarsi complessivamente inferiore a quella ordinaria, e consentire la realizzazione di plusvalori di notevole dimensione attraverso l'abuso, con la sola sanzione di dieci milioni nel massimo e del pagamento di una indennita' commisurata al valore del bene distrutto. Sembra alla ricorrente regione che la situazione descritta non corrisponda al principio di uguaglianza, tradotto in questo caso ne' al principio di una giusta proporzione delle tutele, ne' al principio di protezione del patrimonio storico artistico e paesistico, che trova il suo punto di riferimento nell'art. 9, secondo comma, della Costituzione. 9. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 7, quinto comma, prima frase del nuovo testo dell'art. 11, primo comma, della legge n. 47/1985, in quanto drasticamente riduce la sanzione per chi abbia costruito sulla base di concessioni annulllate, in violazione degli artt. 97, 24 e 9 della Costituzione. Il nuovo testo dell'art. 11 della legge n. 47/1985 dispone che in caso di annullamento della concessione, qualora non sia possibile la rimozione dei vizi di legittimita' della procedura, il sindaco dispone la riduzione in pristino e, qualora questa non sia possibile "una sanzione pecuniaria pari al triplo degli oneri di urbanizzazione relativi alle opere o loro parti abusivamente eseguite". Il testo precedente disponeva che, nello stesso caso, il sindaco avrebbe applicato una sanzione pecuniaria "pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite". E' di immediata evidenza la drastica riduzione della sanzione, ormai ridotta a ben poco e del tutto slegata dal vantaggio economico che il costruttore tragga dall'abuso. Va ricordato che la sanzione non si riferisce alle ipotesi di illegittimita' formale (per le quali opera con evidenza la rimozione dei vizi di legittimita'), ma ai veri e propri abusi sostanziali, commessi dietro lo schermo di concessioni illegittime, in seguito annullate proprio per tale illegittimita'. Una prima illegittimita' della nuova disciplina e' agevolmente individuabile nell'ingiusto vantaggio di cui gode il proprietario di un immobile per il quale non sia possibile la restituzione in pristino, rispetto al proprietario di un immobile per la quale tale restituzione sia possibile, come di norma accade. Se infatti e' possibile la restituzione in pristino, il proprietario perde per intero il bene; se invece questa non e' possibile - e l'abuso e' dunque tanto piu' grave per il fatto che risulta irrimediabile - il proprietario conserva il bene, ed e' soggetto soltanto alla sanzione pari al triplo degli oneri di urbanizzazione. E' ovvio che tale assurda situazione costituisce anche un ulteriore incentivo a rendere "impossibile" la restituzione in pristino, o comunque un potente interesse a vedere riconosciuta tale impossibilita': mentre prima, giustamente, la legge si sforzava di mantenere la parita' delle situazioni, e percio' di rendere i proprietari, nei limiti del possibile, "indifferenti" rispetto alla sanzione demolitoria ovvero pecuniaria. Ma e' in assoluto la stessa esiguita' della nuova sanzione a renderla uno strumento del tutto inidoneo a combattere il rilascio di concessioni illegittime, e ad aumentare invece la pressione degli interessati ad ottenere con qualunque mezzo una concessione purchessia, la cui sola esistenza di fatto elimina per il costruttore il rischio di dover subire rilevanti conseguenze per l'abuso. Non a caso la modifica di cui parliamo e' stata definita a livello giornalistico "un vero regalo per gli abusivi, in quanto la sanzione si riduce sino ad un decimo rispetto alle precedenti norme" (Lunghini, in Il Sole - 24 Ore, 29 luglio 1994, Guida al condono edilizio, Documenti 1). Anche in questo caso la ricorrente regione non contesta la possibilita' e persino l'opportunita' di migliorare la precedente disciplina, mitigandola ad esempio in caso di evidente buona fede di chi ha ottenuto la concessione, ed in caso non siano coinvolti gli interessi di altri soggetti che abbiano ottenuto l'annullamento in sede giurisdizionale (soggetti per i quali la nuova disciplina costituisce una vera lesione dei diritti stessi di azione, rendendola nella sostanza inutile e vana). Cio' che non puo' costituzionalmente ammettersi invece e' il sostanziale venir meno della portata sanzionatoria della disposizione in modo generale ed indifferenziato, senza riguardo ne' per la tutela degli interessi pubblici, ne' alla posizione di uguaglianza per chi invece nella stessa situazione subisca la demolizione, ne' per gli interessi di altri privati, ne' per la situazione di buona o mala fede del costruttore. La disposizione si preoccupa invece dell'eventuale "dolo o colpa grave" dell'amministratore che abbia rilasciato la concessione illegittima, per ammettere verso di esso una cosiddetta "azione di rivalsa" da parte del costruttore che abbia subito la sanzione: persino, a quel che sembra, se nello stesso dolo o colpa grave versasse anche il costruttore. 10. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 7, quinto comma, seconda frase del nuovo testo dell'art. 11, primo comma, della legge n. 47/1985, concernente la sanzione per il caso di mancato ripristino della destinazione d'uso illegittimamente mutata, in violazione dell'art. 97, primo comma, della Costituzione, nonche' del principio di proporzionalita' e ragionevolezza. La seconda frase del nuovo testo del primo comma dell'art. 11 della legge n. 47/1985 dispone che "in caso di mutamenti di destinazione d'uso in contrasto con le norme degli strumenti urbanistici vigenti ai sensi dell'art. 25, ferma l'applicazione dell'art. 9, terzo comma, nei casi in cui il ripristino della destinazione d'uso non trovi luogo, e' irrogata la sanzione pecuniaria pari al triplo della differenza tra gli oneri di urbanizzazione relativi all'immobile secondo le previsioni urbanistiche violate e quelli corrispondenti alla destinazione dell'immobile realizzato in forza della concessione e comunque per l'importo non inferiore a 2.000.000". Va in primo luogo rilevato, per chiarezza, che il riferimento all'applicazione dell'art. 9, terzo comma, che rimarrebbe "ferma", sembra in realta' privo di oggetto, dato che l'art. 25 della stessa legge n. 47/1985, la cui violazione la presente disposizione sanziona, si riferisce soltanto, come esattamente rilevato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 73/1991, al mutamento di destinazione d'uso senza opere (mentre il terzo comma dell'art. 9 si occupa, come sopra visto, delle ristrutturazioni edilizie su beni specialmente protetti). A prescindere da cio', ed anche a prescindere dalla scarsa chiarezza del testo legislativo nel descrivere la sanzione, risulta tuttavia evidente che il tipo di sanzione prescelto vanifica il principio stesso del controllo, in ambiti particolari del territorio, delle destinazioni d'uso, consentendo in sostanza all'interessato di mantenere indefinitamente una destinazione d'uso urbanisticamente incompatibile al solo "prezzo" di un onere di urbanizzazione economicamente piu' impegnativo. Ora, se lo scopo della disciplina urbanistica fosse il ristoro della finanza comunale rimarrebbe solo da discutere se il prezzo pagato sia o meno remunerativo per il comune e sia o meno conveniente anche per il privato; ma se, come sembra, la disciplina urbanistica ha principalmente lo scopo di mantenere lo sviluppo dei centri urbani e del territorio in generale in termini di ordinata vivibilita', allora occorre constatare che tale sanzione contrasta con il perseguimento dei fini propri dell'urbanistica, ed anzi lo rende impossibile. Se in certi ambiti determinati usi degli immobili e determinati mutamenti di destinazione sono vietati, allora la sanzione pecuniaria non puo' concepirsi come una sanatoria dell'uso non ammesso, ma piuttosto come una contravvenzione rivolta a sanzionare un comportamento illegale, una sanzione che, come in generale le contravvenzioni, non potra' che essere ripetibile sin tanto che il comportamento si mantenga (nessuno infatti si stupisce di essere multato piu' volte se per diversi giorni contravviene alle regole stradali, ad esempio sulla sosta). Cio' si dice, naturalmente, per il tipo di sanzione necessario, mentre l'importo delle sanzioni per le singole violazioni dovra' essere prudentemente stabilito dal legislatore. 11. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 7, sesto comma, in quanto liberalizza totalmente le varianti "non essenziali" e parzialmente le stesse varianti essenziali, rendendo meramente facoltativa ed opzionale la realizzazione del progetto cui la concessione si riferisce o di un altro simile, in violazione degli artt. 117, primo comma, 118, primo comma, 97, primo comma, e 9 della Costituzione. Prima della modifica, l'art. 15, primo comma, della legge n. 47/1985 prevedeva un regime particolarmente favorevole per le varianti aventi certe caratteristiche (conformita' agli strumenti urbanistici ed alla normativa edilizia, non modifica della sagoma o delle superfici utili, non modifica delle destinazioni d'uso delle singole unita' immobiliari e del numero di queste). Si trattava, pacificamente, delle varianti di minore rilevanza, per le quali veniva esclusa in assoluto la sanzionabilita' penale, e veniva esclusa altresi' la sanzionabilita' amministrativa purche' la relativa richiesta avvenisse prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori. Qualora invece non ci fosse la richiesta, si riteneva che esse, data la loro natura, ricadessero nelle previsioni dell'art. 10 (opere senza autorizzazione). L'art. 7, sesto comma, inserisce nel testo del primo comma dell'art. 15 le parole "varianti non essenziali nonche' di varianti" tra le parole "realizzazione di" e "varianti". In conseguenza di questa operazione, risulta soggetta al particolare regime sopra descritto "la realizzazione di varianti non essenziali, nonche' di varianti" aventi le caratteristiche sopra indicate. Ora, pur non essendo certamente il testo cosi' ottenuto un modello di chiarezza, se occorre dare un senso alle parole e alla presumibile intenzione del legislatore, se ne dovrebbe dedurre che in primo luogo risultano completamente sottratte al regime sanzionatorio le "varianti non essenziali". Che cosa esse siano, non appare chiaro, ed in particolare non appare chiaro se debbano considerarsi "varianti non essenziali" tutte quelle che alla stregua dell'art. 8 non costituirebbero, ove abusivamente realizzate, "variazioni essenziali". In ogni modo, se davvero il testo deve essere inteso, come sembra, nel senso di una totale liberalizzazione di tali varianti cosi' definite "non essenziali" si renderebbe meramente facoltativa ed opzionale la realizzazione del progetto cui la concessione si riferisce o di un altro simile. Il testo della disposizione, nella nuova versione, prosegue estendendo il regime piu' favorevole, oltre che alle varianti dette "non essenziali", anche alle "varianti", purche' corrispondenti alle caratteristiche sopra dette. Poiche' le varianti "non essenziali" sono gia' liberalizzate a parte, queste ulteriori varianti non potrebbero essere, a quel che sembra, che varianti "essenziali". Se cosi' fosse, non potrebbe non porsi il problema del coordinamento con le "variazioni essenziali" di cui agli artt. 7 e 8 della legge n. 47/1985, la cui realizzazione e' peraltro assimilata dagli stessi articoli alla costruzione in assenza di concessione edilizia: sicche' non si comprenderebbe poi come talune di queste varianti possano godere del particolare regime dell'art. 15. 12. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 8, primo comma, in quanto, produce una situazione di incertezza giuridica, e in quanto rivolto a privare i comuni della possibilita' di disciplinare nel tempo l'espansione dell'abitato, in violazione degli artt. 97, primo comma, 128, 117, primo comma, e 118, primo comma, della Costituzione. L'art. 8, primo comma, del d.l. n. 468/1994 lapidariamente dispone che "l'art. 13 della legge 28 gennaio 1977, n. 10, e' abrogato". Ma la lapidarieta' non si addice forse alla complessita' del nostro sistema istituzionale, e cio' che ne deriva e' in primo luogo una situazione di incertezza giuridica. Converra' ricordare che l'art. 13 della legge n. 10/1977, ora abrogato, disciplinava l'istituto del programma pluriennale di attuazione. Era infatti stabilito che l'attuazione degli strumenti urbanistici avvenisse, appunto, sulla base di programmi di attuazione, volti a scadenzare nel tempo l'edificazione. La ragione, facilmente comprensibile, stava nel fatto che l'edificazione di nuove aree e zone comporta scelte rilevanti ed investimenti ingenti per il comune, che a seguito dell'edificazione deve garantire le opere di urbanizzazione e l'intera rete dei servizi pubblici, dai trasporti, all'acquedotto, all'illuminazione, all'asporto rifiuti, alla manutenzione delle strade, per limitarsi ad alcuni esempi. Dall'obbligo del piano pluriennale di attuazione potevano essere esonerati soltanto taluni comuni minori, e interventi edilizi al di fuori del piano potevano essere realizzati soltanto in zone gia' urbanizzate o in zone di completamento. Sulla base dell'art. 13 della legge statale n. 10/1977 le regioni avevano legiferato. Per la ricorrente regione, il piano pluriennale di attuazione e' disciplinato dalla l.r. 12 gennaio 1978, n. 2 e dall'art. 19 della l.r. n. 47/1978. Ora, l'abrogazione dell'art. 13 della legge n. 10/1977 produce in primo luogo una situazione di incertezza giuridica. Infatti, venuto meno il principio dell'obbligatorieta' del piano pluriennale di attuazione come principio statale, non sembra tuttavia che la semplice abrogazione della disposizione statale che lo prevedeva possa determinare l'automatica abrogazione di tutte le disposizioni regionali che ugualmente lo prevedono e lo disciplinano. In altre parole, non sembra che la semplice abrogazione di un istituto possa essere intesa come divieto di una legislazione regionale che continui ad ispirarsi all'istituto stesso. Venuto meno come principio obbligatorio, la "temporalizzazione" degli interventi urbanistici ed edilizi puo' sopravvivere sulla base della autonomia regionale. Ma a parte cio', e' evidente che il piano pluriennale di attuazione e' lo strumento per contemperare la liberta dell'iniziativa privata con le esigenze della comunita'. Anche in questo caso, la ricorrente regione non intende sostenere che l'istituto non potesse essere modificato o migliorato, ma rileva che l'esigenza cui esso corrispondeva era quella di garantire che l'iniziativa privata non si svolgesse in contrasto con l'utilita' sociale, esigenza imposta dall'art. 41, secondo comma, della Costituzione. E questo necessario contemperamento non puo' legittimamente essere "abrogato", con un colpo di penna, tornando a costringere i comuni, come nell'ancien re'gime urbanistico, a "inseguire" le scelte edificatorie dei privati, sopportandone i pesanti costi in termini meramente consequenziali. Nel momento in cui il valore dell'elemento "tempo" e' acquisito all'azione amministrativa (se ne veda soltanto un esempio in tutta la disciplina del procedimento recata dalla legge n. 241/1990), come elemento essenziale del buon andamento e dell'economicita' di essa, non puo' essere senza contraddizione tolto al comune lo strumento essenziale per scadenzare e programmare nel tempo i propri interventi, correlati all'iniziativa privata. 13. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 8, terzo comma, in quanto, modificando l'art. 4 del d.l. n. 398/1193, introduce nell'ordinamento il principio generale del silenzio assenso per le concessioni edilizie, per l'ipotesi che entro novanta giorni "non venga comunicato all'interessato il provvedimento di diniego" (primo comma, ed in connessione terzo comma, e quarto comma), in violazione degli artt. 97, primo comma, 9, 128, 117, primo comma, 118, primo comma, della Costituzione. Converra' in primo luogo ricordare che l'istituto del silenzio-assenso era gia' previsto sia per gli interventi edilizi minori, soggetti a semplice autorizzazione, sia (prima in via provvisoria, poi definitivamente) per le stesse concessioni edilizia quando si riferissero ad "interventi di edilizia residenziale diretti alla costruzione di abitazioni od al recupero del patrimonio edilizio esistente" (art. 8, primo comma, d.l. 23 gennaio 1982, n. 9). In questo caso, tuttavia, chi si avvalesse del silenzio assenso costruiva a suo rischio. Stabiliva infatti il sesto comma, dello stesso articolo che "le sanzioni contemplate dagli artt. 15 e 17 della legge 28 gennaio 1977, n. 10, si applicano anche ai soggetti" che abbiano ottenuto il silenzio-assenso qualora le opere assentite "siano state assentite e risultino in contrasto con norme di legge, di regolamenti edilizi, di strumenti urbanistici generali ovvero con i vincoli posti a tutela dei bene ambientali ed architettonici". In modo diverso funziona il meccanismo introdotto ora dal d.l. qui impugnato, che riprende (con l'eliminazione di alcune garanzie per l'interesse pubblico) in sostanza il testo dell'art. 5 del d.l. 8 aprile 1993, n. 101 (primo di una catena di decreti non convertiti, che avevano infine portato alla legge n. 493/1993, nella quale peraltro il meccanismo del silenzio assenso era stato correttamente eliminato). Si prevede infatti semplicemente che la concessione venga tacitamente assentita, senza piu' prevedere non solo la salvaguardia degli interessi pubblici disposta dal sesto comma, dell'art. 8 del d.l. n. 9/1982 sopra citato (permanenza delle sanzioni in caso di violazione delle norme urbanistiche e di tutela speciale), ma neppure (come prevedeva invece ancora il comma 7 dell'art. 5 del d.l. n. 101/1993) che le disposizioni sul silenzio-assenso si applicano "quando la concessione deve essere rilasciata in forza degli strumenti urbanistici vigenti ed approvati". In altre parole, la regolarita' urbanistica sostanziale della costruzione non e' piu', nel d.l. impugnato, presupposto giuridico e condizione del silenzio-assenso. La regolarita' edilizia e generale della costruzione dovrebbe invece essere assicurata da una asseverazione del progettista, che dichiara "la conformita' degli interventi da realizzare alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie, nonche' il rispetto delle norme di sicurezza e sanitarie" (art. 8, secondo comma). Ma tale garanzia, intrinsecamente molto modesta, e' ulteriormente sminuita dal fatto che il progettista in tale asseverazione non assume nessuna responsabilita' particolare, neppure quella dell'art. 373 del codice penale (per il reato di falsa perizia o interpretazione). Dunque nella nuova versione il silenzio-assenso si forma anche nel caso del piu' totale contrasto con le normative urbanistiche e persino di tutela storica e paesistica vigenti. Anche in questi caso, trascorsi novanta giorni, la concessione si forma tacitamente, e il richiedente ha pieno diritto di costruire. La gravita' della situazione che cosi' si determina e' evidente. Ma essa diviene ancor piu' palese se si collegano le previsioni sul silenzio assenso con quanto disposto dallo stesso d.l. n. 468 in tema di annullamento delle concessioni illegittime. Se anche infatti la concessione tacitamente assentita fosse in seguito annullata per la sua totale illegittimita', al costruttore non occorrerebbe altro (sempre che la rimessione in pristino risultasse per qualunque causa "impossibile") che pagare il triplo degli oneri di urbanizzazione. In sintesi, sembra evidente che la nuova disciplina del silenzio-assenso in tema di concessioni edilizie rende del tutto eventuale la tutela degli interessi urbanistici. Ne' si puo' ribattere che la colpa e' dei comuni che rimangano inerti: qui infatti non e' in gioco il "diritto" dei comuni di controllare lo sviluppo edilizio, ma e' in gioco il diritto dei cittadini, costituzionalmente protetto, di vivere in un ambiente urbanisticamente, paesisticamente ed architettonicamente non degradato. La questione delle concessioni edilizie non e' una partita a due tra richiedente e comune, ma un problema ben piu' complesso, che investe l'identita' territoriale delle comunita'. E' da rilevare, infine, che, nei termini in cui e' disciplinato, l'istituto del silenzio assenso travolge non solo, come detto, la tutela urbanistica, ma anche le tutele parallele di altri interessi pubblici, che nel procedimento ordinario si esprimono mediante i nulla osta dei vigili del fuoco e delle autorita' sanitarie (art. 220 t.u.l.s.), e che, quando si tratti di beni soggetti a tutela paesistica o storico-artistica, si esprime mediante i nulla osta delle competenti autorita'. Risulta cosi' vanificata anche quella "assistenza di meccanismi diversificati e di organi tecnici" che pure la Corte costituzionale ha ritenuto essenziali al meccanismo concessorio nella sentenza n. 393/1992. Una questione particolare investe poi l'art. 8, terzo comma, in quanto nel nuovo testo del terzo comma, dell'art. 4 del d.l. n. 398/1993 si fa divieto all'amministrazione in termini assoluti di richiedere, ove necessarie, "ulteriori integrazioni documentali", in violazione dell'art. 97, primo comma, della Costituzione. Non si vede infatti come si possa ragionevolmente impedire all'amministrazione che, sia pure tardivamente, si avveda della mancanza di un documento essenziale, di richiederlo all'interessato: d'altronde nello stesso interesse di quest'ultimo. Si potra' stabilire semmai che la richiesta tardiva non sospende il termine dato all'amministrazione per provvedere, ma e' del tutto assurdo impedire ad essa di richiedere l'integrazione documentale. 14. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 8, settimo comma, in quanto attribuisce la giurisdizione sulla responsabilita' per danno del sindaco e del responsabile del provvedimento per illegittimo diniego di concessioni edilizie alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo senza provvedere alle necessarie modifiche delle regole processuali e senza il necessario coordinamento con la giurisdizione del giudice ordinario per la responsabilita' dell'amministrazione, in violazione degli artt. 24 e 113 della Costituzione. Il settimo comma dell'art. 8 stabilisce che "il soggetto competente all'adozione del provvedimento e il responsabile del procedimento rispondono, in caso di dolo o colpa grave, per i danni arrecati per l'illegittimo diniego della concessione", e che "la giurisdizione esclusiva in materia e' attribuita al giudice amministrativo". La disposizione consta dunque di due norme, una sostanziale ed una processuale. Della prima non e' chiaro il contenuto innovativo, dato che la responsabilita' per i danni creati ai privati dai pubblici agenti e' da sempre principio dell'ordinamento italiano, costituzionalmente codificato dall'art. 28. Anche la limitazione di tale responsabilita' ai casi di dolo e colpa grave era gia' prevista per i pubblici impiegati, mentre l'estensione della limitazione anche al "soggetto competente all'adozione del provvedimento", ovvero al sindaco o a chi operi per sua delega, e' forse il contenuto proprio della nuova disposizione. Qui interessa pero' la disposizione processuale, in virtu' della quale la giurisdizione in materia e' attribuita al giudice amministrativo quale giurisdizione esclusiva. E' ben noto che l'art. 103, primo comma, della Costituzione consente al legislatore ordinario di demandare al giudice amministrativo, in particolari materie, anche la tutela dei diritti soggettivi. Cionondimeno, l'attribuzione a tale giudice della giurisdizione in materia di responsabilita' civile per danni prodotti dagli agenti pubblici rappresenta una singolarita' nel sistema, essendosi sempre ritenuto che l'accertamento e la valutazione del danno richiedono tecniche e modi processuali propri del giudice ordinario. Cio' e' vero a tal punto che anche quando, in ossequio a normativa comunitaria, il legislatore italiano ha stabilito (con la legge 19 febbraio 1992, n. 142, art. 13) che "i soggetti che hanno subito una lesione a causa di atti compiuti in violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici di lavori o di forniture o delle relative norme interne di recepimento possono chiedere all'amministrazione aggiudicatrice il risarcimento del danno" (primo comma), esso ha tuttavia disposto (secondo comma) che "la domanda di risarcimento e' proponibile dinanzi al giudice ordinario da chi ha ottenuto l'annullamento dell'atto lesivo con sentenza del giudice amministrativo". La ragione della presente attribuzione di giurisdizione sul danno al giudice amministrativo non e' chiara: sembra invece chiaro che essa per l'intanto, a causa delle regole processuali proprie della giurisdizione esclusiva, ed in particolare delle limitazioni imposte al giudice nella tipologia delle prove ammissibili, si traduce in una netta diminuzione della possibilita' per il privato di ottenere la tutela risarcitoria, diminuzione lesiva delle garanzie costituzionali in materia. Inoltre, sembra evidente che, se si volesse davvero attribuire al giudice amministrativo la giurisdizione in questione, non si potrebbe poi mancare di attribuire ad esso la giurisdizione anche sui corrispondenti giudizi, quando sia chiamata in causa anche o soltanto l'amministrazione di appartenenza. Diversamente, infatti, potrebbero o addirittura dovrebbero svolgersi contemporaneamente due diversi giudizi sullo stesso oggetto, con duplicazione delle procedure e rischio di contrasto tra i giudicati.