Ricorso  per  la  regione  Toscana,  in  persona   del   presidente
 pro-tempore  della  giunta  regionale,  rappresentata  e  difesa  per
 mandato a margine del presente  atto  dall'avv.  Alberto  Predieri  e
 presso  il  suo  studio  elettivamente  domiciliata  in  Roma, via G.
 Carducci,  n.  4, in forza di deliberazione g.r. n. 7865 del 1 agosto
 1994 contro il Presidente del Consiglio dei Ministri pro-tempore  per
 l'annullamento  previa  sospensione del decreto-legge 26 luglio 1994,
 n. 468, "Misure urgenti per il rilancio  economico  ed  occupazionale
 dei lavori pubblici e dell'edilizia privata".
    1.  -  L'architettura del decreto-legge ricalca quella della legge
 n. 47/1985: si tratta cioe'  di  un  testo  normativo  contenente  un
 condono  per  gli  illeciti  in  materia urbanistica e una riforma di
 parti  essenziali  della  regolazione   urbanistica,   con   profonde
 innovazioni  rispetto  alla  disciplina  vigente. Ma, mentre nel caso
 ricordato  veniva  correttamente  usato  lo  strumento  della  legge,
 indispensabile  quando  debba  essere regolata materia che appartenga
 alla competenza legislativa regionale che puo' essere esercitata  nei
 limiti  dei  principi posti da leggi dello Stato, nel caso sottoposto
 al giudizio della  Corte  lo  strumento  e'  quello  illegittimo  del
 decreto-legge,  provvedimento  provvisorio,  che  ontologicamente non
 puo' porre principi.
    Principio e' nozione (impiegata nell'art. 117 della  Costituzione)
 contrapposta   a   provvedimento   (impiegata   nell'art.   77  della
 Costituzione), con una serie di implicazioni gia' sottolineate  dalla
 dottrina  (per  tutti  ricordiamo  l'autorevole presa di posizione di
 Paladin, in G. Branca, Commentario della Costituzione, La  formazione
 delle  leggi,  vol. II, 69), tanto per quanto riguarda la generalita'
 quanto per cio' che attiene alla proiezione diacronica.
    I principi hanno "carattere fondamentale  e  si  possono  desumere
 dalla  connessione  sistematica,  dal  coordinamento  e  dalla intima
 razionalita' delle norme che concorrono a formare, in un dato momento
 storico, il tessuto dell'ordinamento giuridico",  come  la  Corte  ha
 ritenuto a partire dalla sentenza 6/1956, in Giur. cost., 1956, 586.
    Questa   formulazione   comporta   che  configurare  un  principio
 momentaneo contingente che viene assunto  provvisoriamente,  sia  una
 contraddizione  irragionevole.  Se  i  principi  vanno  desunti da un
 tessuto, l'inopportunita' funzionale di un rabberciamento provvisorio
 di un tessuto e' di per se' tale da escludere l'uso di uno  strumento
 incongruo  quale  il  decreto-legge. Che, comunque, e' da proscrivere
 per le ragioni  testuali  e  strutturali  alle  quali  ci  riferiamo.
 L'irragionevolezza  e'  lo  strumento  che  veicola  una  lesione del
 sistema posto dall'art. 117; essa e', di per se' sussistente (e' bene
 precisarlo) quand'anche  non  fosse  stato  usato  lo  strumento  del
 decreto-legge,   come   verra'   detto   piu'   avanti,   dimostrando
 l'irragionevolezza delle nuove  disposizioni  in  relazione  al  loro
 specifico contenuto.
    Le   ragioni  per  cui  la  costituzione  vuole  la  legge  (cioe'
 rappresentanza di punti di  vista  e  degli  interessi,  discussione,
 ponderazione,  tutela  delle  minoranze)  non hanno bisogno di lunghi
 commenti. Sono ragioni e finalita' tutte frustrate dal ricorso ad uno
 strumento che non risponde alle finalita' della riserva  posta  dalla
 costituzione,   anzi  e'  utilizzato  per  raggiungere  indebitamente
 obiettivi in contrasto con l'ordinamento costituzionale.  Si  ha,  in
 questo  modo, una peculiare forma di irragionevolezza che consiste in
 una consequenzialita'  perversa,  vale  a  dire  nello  scegliere  lo
 strumento  piu' efficiente per raggiungere un fine contrario a quello
 della norma costituzionale.
    Obiettare che nel caso in questione il decreto ha forza di legge e
 quindi  non  puo'  esservi  diversita' fra i suoi effetti e quelli di
 legge, non supera l'obiezione per cui non basta una norma  di  legge,
 ma  occorre  una  norma  di  principio  posta  dalla  legge o da essa
 desumibile. Puo' essere significativo  notare  che  la  Corte,  nella
 sentenza  n.  100/1980, ha escluso che un d.P.R. potesse avere titolo
 per abrogare o contraddire una fonte locale in materia regionale  non
 essendo  neanche  dotato  di  forza  di  legge.  Il  che  vuol dire -
 proseguendo l'iter del ragionamento - che, se  anche  un  atto  fosse
 dotato  di forza di legge, questa attribuzione non avrebbe di per se'
 titolo sufficiente per porre quelle statuizioni di principio che solo
 una legge puo' fare. Non a caso in gran parte delle letture del testo
 costituzionale la conversione  del  decreto-legge  viene  vista  come
 novazione,  per cui ad una fonte ne viene sostituita un'altra con cui
 viene esercitata la funzione legislativa. Nel caso in cui  si  tratti
 di   principi,   la   legge   sola   e'   abilitata   a  porre  norme
 costituzionalmente  valide.  Sino  a  quando,  pero',  una  legge  di
 conversione  non sia sopravvenuta, il decreto-legge non ha titolo per
 alterare l'ordine dei principi fondamentali della materia.
    Il d.l. prodotto e' irragionevole, perche'  non  vi  e'  assoluta
 urgenza  di  cambiare  principi,  tanto meno in una materia in cui le
 oscillazioni  sono  frequenti.  Se  per  avventura  la  necessita'  e
 l'urgenza  vi fosse, andrebbe data una motivazione adeguata del nesso
 che intercorre secondo il governo fra il rilancio dell'economia e  il
 modificare  i  principi fondamentali della normazione, che nel nostro
 caso manca del tutto anche se in questo caso la costituzione esige la
 motivazione dell'atto normativo.
    2. - Le pesanti modificazioni all'ordinamento di settore  vigente,
 e  cioe' al complesso principi generali statali-normazione regionale,
 violano le competenze  garantite  alle  regioni  dall'art.  117,  con
 riferimento   al   rovesciamento  di  principi  posti  da  una  lunga
 tradizione normativa, che ha posto un assetto  della  regolazione  la
 cui  coerenza  e'  stata  riconosciuta dalla Corte, corrispondente ad
 esigenze di buon andamento e di corretto  impiego  delle  potesta'  e
 delle  disponibilita'  finanziarie,  violando  tanto  l'art.  117, in
 correlazione con l'art. 97 e l'art. 3, quanto l'art. 119,  sempre  in
 correlazione con gli artt. 97 e 3.
    3. - Scendendo ad esaminare i singoli articoli, va detto che oltre
 che nel capo secondo relativo alla regolazione urbanistica, anche nel
 capo  primo relativo al condono vengono inserite norme che violano le
 competenze regionali. L'art. 3 prevede che i  comuni  individuino  le
 zone   maggiormente   interessate   dall'abusivismo,  ai  fini  della
 realizzazione di programmi  di  intervento.  Si  tratta  di  atti  di
 incerta collocazione, che paiono istituire un nuovo tipo di strumenti
 urbanistici;  non  paiono,  infatti,  semplici  programmi di spesa di
 opere pubbliche, limitati a  stanziamenti  di  somme  per  realizzare
 progetti gia' localizzati. Comunque, in entrambi i casi, sia sotto il
 profilo  dell'urbanistica,  sia  sotto quello dei lavori pubblici, si
 tratta  di  competenze  previste  negli  artt.  117   e   118   della
 Costituzione.  Se  questi  programmi  determinassero (come sembra) le
 modificazioni di precedenti previsioni urbanistiche,  costituirebbero
 una  "causa  di  alterazione  del  quadro dei rapporti tra competenze
 attribuite alle regioni ed agli enti locali nel  vigente  sistema  di
 programmazione urbanistica, nelle sue articolazioni territoriali e di
 settore",  per  usare  le parole della sentenza n. 393/1992. La quale
 proseguiva rilevando "chiara l'irrazionalita' ed il  contrasto  della
 normativa  che  la  produce  con il principio di buon andamento della
 pubblica amministrazione".
    L'enunciato del decreto e' incerto e confuso. Non  si  sa  da  chi
 vengano  approvati  questi  programmi,  con quali effetti e con quali
 scopi. Il decreto nell'art. 3, secondo comma,  dice  che  "entro  tre
 mesi  dalla  data  di  entrata  in  vigore  del  presente decreto, il
 Ministro dei  lavori  pubblici  determina,  con  proprio  decreto,  i
 criteri  di  formazione  e  i  contenuti  dei programmi di intervento
 nonche' le modalita' di  concessione  dei  finanziamenti".  Il  terzo
 comma  aggiunge  che  "Per  la  realizzazione dei programmi di cui al
 primo comma si provvede utilizzando le somme, eccedenti  gli  importi
 di  lire  2.550  miliardi per il 1994 e di lire 5.915 miliardi per il
 1995, relative agli introiti derivanti dall'art. 1. Le predette somme
 sono riassegnate, con decreto del Ministro del  tesoro,  ad  appositi
 capitoli   dello   stato  di  previsione  del  Ministero  dei  lavori
 pubblici".
    Tutta  la  materia  viene  sottratta  all'attivita'  normativa   e
 amministrativa  delle  regioni,  violando gli artt. 117 e 118 con una
 normazione  irragionevole,  basata  sull'ignorare  completamente   la
 competenza  regionale, attribuendo al Ministro un potere normativo di
 attuazione della legge e in realta' di determinazione e conformazione
 di una scatola vuota di cui viene solo indicato il nome.
    Si tratta di un potere illegittimo non  configurabile  in  materie
 trasferite  alle  regioni.  L'illegittimita' denunciata si aggiunge a
 quella della incoerenza della normativa, che istituisce un  programma
 senza  dire  che  cosa  intenda programmare, se opere o insediamenti,
 sapendo solo che entro  tre  mesi  il  Ministro  fara'  conoscere  il
 contenuto  e le modalita' per erogare i finanziamenti che egli dara',
 in materia di competenza regionale e quindi con ulteriore  violazione
 dell'art.  119  sia  sotto  il  profilo  della spesa sia sotto quello
 dell'entrata.
    La statuizione dell'art. 3, terzo comma, prevede un impiego  degli
 introiti derivanti dalle domande di condono affidato all'arbitrio del
 Ministro  che,  in  violazione  del principio di legalita', determina
 esso stesso con suo  decreto  a  che  cosa  debbano  essere  volti  i
 programmi,  che, sempre a suo arbitrio, finanziera': con nuova totale
 esclusione  delle  regioni  e  con  un  rovesciamento   delle   norme
 finanziarie  connesse  alle  leggi  come  la n. 457/1978, poste dalle
 leggi  regionali  in  attuazione  di  una  legislazione   concorrente
 coerente.
    4.  -  Lo  stesso  filo  conduttore  di  sottrazione di competenze
 istituzionali regge l'enunciato dell'art. 4, anch'esso brutto esempio
 di confusione. Nel primo comma, l'articolo prevede che  "in  caso  di
 inadempienze"  (quali  e  da  chi  commesse  il  testo  non  dice; se
 dovessimo pensare a previsioni sulla materia intera avremmo  evidenti
 sovrapposizioni  e  interferenze)  venga  nominato  dal  Ministro  un
 commissario ad acta per l'adozione di provvedimenti di competenza del
 sindaco. Anche in questo caso  viene  invasa  un'area  di  competenza
 della  regione  che  ha,  e  deve  avere,  funzioni  di  controllo  e
 sostitutive, sia per la regolazione delle competenze, come  e'  stata
 effettuata  dal  d.P.R.  n.  616,  sia per la coerenza del sistema di
 regolazione della  materia  urbanistica,  con  la  posizione  che  la
 regione  in  essa  deve  avere  agli  effetti  della  vigilanza,  del
 controllo e delle repressioni.
    5.  -  L'art.  5  del  decreto-legge  viola   un   principio   che
 universalmente  veniva considerato fermo, il rispetto del giudicato e
 del limite dei rapporti esauriti, con un'invasione  delle  competenze
 regionali.  Infatti  la  stutuizione  interferisce  con  le  funzioni
 amministrative della regione. Ad esempio, gli atti di annullamento di
 concessioni edilizie che fossero stati effettuati dalla regione sulla
 base di una sentenza passata in giudicato  che  avesse  accertato  la
 nullita'  di  un  trasferimento  di  immobili  a norma dell'art. 17 e
 dell'art  40  della  legge  n.  47/1985  con  correlativo  successivo
 annullamento   regionale   della   concessione   rilasciata   ad   un
 proprietario che tale non era in violazione dell'art. 4  della  legge
 n.  10/1977,  verrebbero travolti dall'eversiva statuizione dell'art.
 5.
    Esempio  a  parte,  con   il   sovvertimento   di   un   principio
 dell'ordinamento  che  e',  per usare la definizione altra volta data
 dalla  Corte,  principio  di  civilta'  giuridica,  si   ha   lesione
 dell'affidamento  nell'esercizio  del  propri  poteri  che compete ai
 soggetti costituzionali, con una violazione delle norme  degli  artt.
 3,  97,  117, 118 della Costituzione, nonche' dell'art. 24 inteso con
 riferimento alle garanzie che l'ordinamento deve  apprestare  per  la
 tutela  giurisdizionale  a livello generale, non solo con riferimento
 alle singole situazioni soggettive.
    6. -  Nell'art.  6,  undicesimo  comma,  viene  previsto  che  "le
 pubbliche  amministrazioni provvedono, per quanto di loro competenza,
 ad esaminare entro e non oltre novanta giorni dalla data  di  entrata
 in  vigore  del  presente  decreto  i casi relativi alle procedure di
 affidamento e di esecuzione delle opere pubbliche che, non rientrando
 nelle ipotesi di cui al presente articolo, possono  essere  riavviati
 con provvedimento amministrativo sulla base dei principi indicati nel
 presente  articolo".  Se  per  pubbliche amministrazioni si intendono
 anche quelle non  statali,  viene  posta  in  essere  una  normazione
 incoerente,  confusa  e  irragionevole  che  pretenderebbe  di  avere
 effetti immediatamente operativi  anche  per  le  regioni  e  per  le
 amministrazioni  che  hanno  funzioni  relative ad opere pubbliche di
 competenza regionale ex art. 117 della  Costituzione,  con  invasione
 della sfera regionale.
    7.  - L'art. 8 rovescia la logica posta dall'art. 4 della legge n.
 493/1993. Questo aveva escluso completamente il silenzio-accoglimento
 nella submateria della  concessione  edilizia,  dopo  un  periodo  di
 estensione transitoria disposta dalla legge n. 94/1982. Quest'ultima,
 pero',  si  riferiva  al  silenzio  accoglimento  nei  casi in cui la
 concessione fosse atto  dovuto  per  l'esecuzione  di  uno  strumento
 urbanistico  direttamente  operativo. Con l'illegittimo decreto-legge
 n. 468/1994 il metodo del silenzio-assenso viene  esteso  ad  ogni  e
 qualsiasi caso.
    Chiunque  puo' presentare una domanda di concessione e, decorso il
 termine indicato, e' abilitato a costruire in forza della regola  del
 silenzio-assenso  posta  dall'art.  4,  primo  comma, del nuovo testo
 della legge n. 493/1993 riscritto dal primo comma,  dell'art.  8  del
 d.l. n. 468/1994. La prova del titolo all'edificazione e' data dalla
 copia dell'istanza presentata da cui risulti la data del deposito.
    Anche  se  la  domanda  di concessione non fosse conforme al piano
 regolatore oppure se un piano valido ed efficace mancasse, oppure  se
 il   piano  richiedesse  una  ponderazione  e  la  concessione  fosse
 tutt'altro che atto dovuto (come e' nella normalita'  dei  casi),  il
 silenzio-assenso opera sempre.
    Questa  e'  la  profonda  diversita'  con il metodo della legge n.
 94/1982,  che  prevedeva  il  silenzio-accoglimento   nei   casi   di
 "interventi  da  attuare  su  aree  dotate  di  strumenti urbanistici
 attuativi vigenti  ed  approvati  non  anteriormente  all'entrata  in
 vigore  della  legge  6  agosto  1967,  n.  765,  nonche'  quando  la
 concessione o autorizzazione e' atto dovuto in forza degli  strumenti
 urbanistici  vigenti  e  approvati  non  anteriormente  alla predetta
 data". Altro e'  superare  una  impasse  dovuta  ad  una  inattivita'
 dell'amministrazione   in   un  caso  particolare  (che  puo'  essere
 ragionevole perche' utile metodo per aumentare  l'efficienza),  altro
 elevare  il  silenzio-assenso  a  regola  normale,  arrivando  ad una
 normativa per cui ben si  puo'  parlare  di  incostituzionalita'  per
 abuso di silenzio-assenso.
    Con   l'illegittimo   decreto-legge,  il  meccanismo  consente  la
 costruzione immediata,  decorso  il  termine,  con  un  congegno  che
 depotenzia  il  momento  della  ponderazione  cosi'  come  quello del
 controllo. La  legislazione  urbanistica,  per  lunga  e  consolidata
 tradizione, e' fondata sulla esistenza di una fase di predisposizione
 di  previsioni  vincolanti  con  i  piani e su un'altra di attuazione
 attraverso il  rilascio  di  concessioni  o  di  autorizzazioni,  che
 debbono  essere conformi al piano e, se discrezionali, debbono essere
 ponderate al momento del  rilascio.  Invero  se  in  taluni  casi  la
 concessione  puo'  essere  configurata,  in  relazione  alle  singole
 concrete previsioni di quel determinato piano, come atto  dovuto,  in
 altri casi e' discrezionale; e' sempre subordinata ad accertamento di
 fatto  a  norma  dell'art.  31, quinto comma, l. urb., ad esempio con
 conseguenti illegittimita' di una concessione di costruzione "in zona
 non servita, o insufficientemente servita, da opere di urbanizzazione
 primaria" (Cons. Stato, sezione V, 4 gennaio 1993,  n.  26,  in  Foro
 it., 1993, III, 573 e segg.); ed e' sempre subordinata a ponderazioni
 in relazione alle previsioni.
    Il   rilascio  della  concessione  presuppone  un'istruttoria  per
 l'accertamento  della  sussistenza  dei  requisiti.  Per  addurre  un
 esempio,  secondo  l'art. 9 della variante p.r.g. del capoluogo della
 Toscana, gli interventi di risanamento conservativo per  i  quali  si
 prevede  con  concessione  gratuita "sono quelli rivolti a conservare
 l'organismo edilizio e ad assicurarne la  funzionalita'  mediante  un
 insieme  sistematico  di opere che, sulla base di una attenta analisi
 storico-critica e nel rispetto degli elementi tipologici,  formali  e
 strutturali  dell'organismo stesso, consentano destinazioni d'uso con
 essi  compatibili",  la  cui  compatibilita'  va   determinata;   "E'
 consentito  l'uso  di  solai  in  cemento  armato,  ferro e misti, in
 sostituzione di preesistenti strutture in legno, qualora non vi siano
 elementi di interesse architettonico, pittorico, storico che comunque
 saranno  oggetto  di  analisi  preventiva  da  parte   degli   uffici
 competenti,  ai fini del parere della commissione edilizia", art. 29,
 lett. o). Nella maggioranza dei casi non basta  l'accertamento  della
 sussistenza  dei  requisiti:  occorrono  valutazioni  discrezionali o
 ponderazioni, per usare il linguaggio pertinentemente impiegato dalla
 Corte. Sempre per addurre ad esempio le previsioni del piano  citato,
 le  "concessioni  che  comportino  mutamenti  di destinazione possono
 essere non rilasciate se a causa del tipo di  attivita'  svolta,  dei
 movimenti  di  traffico indotti, della nocivita' e rumorosita', o per
 altro motivo, le destinazioni  possano  alterare,  in  modo  dannoso,
 l'equilibrio  urbanistico  della  zona  limitrofa  all'edificio o dei
 tessuti storici e consolidati", art. 30,  secondo  comma;  oppure  "i
 parcheggi  multipiano  sono condizionati alle esigenze funzionali, ed
 alla compatibilita' con la viabilita' e con  i  valori  ambientali  e
 paesistici   della   zona   circostante",   art.  68,  ottavo  comma;
 altrettanto per i progetti di parcheggi privati, art. 69, nono comma.
 Del pari e' evidente che la concessione  per  un  opificio  ben  puo'
 contenere  "la  prescrizione secondo cui la rumorosita' dell'opificio
 stesso durante le fasi di  lavorazione  a  pieno  regime  non  dovra'
 superare   i  valori  determinati"  (Cons.  giust.  amm.  sic.,  sez.
 giurisdiz., 1 marzo 1993, n. 103, in  Giur.  amm.  sic.,  1993,  62);
 cosi'  come  il piano puo' prevedere una convenzione come presupposto
 per il rilascio di  concessione  ai  fini  produttivi,  Cons.  Stato,
 sezione V, 19 settembre 1992, n. 839, in Foro amm., 1992, 1936.
    Senza  soffermarsi su fattispecie singole, puo' essere sufficiente
 ricordare che le sezioni unite della Corte di cassazione  considerano
 sempre  discrezionale il rilascio della concessione (cfr. Cass., sez.
 un., 5 marzo 1993, n. 2667, in Foro it., 1993, I, 3062,  "il  privato
 non  ha,  neppure  di  fronte  a  strumenti urbanistici che prevedono
 determinate edificabilita', un diritto soggettivo al  rilascio  della
 concessione  edilizia,  potendo  comunque  la  p.a. discrezionalmente
 determinare  le  concrete  modalita'  di  esercizio   del   richiesto
 'diritto'").
     Di  fronte a queste constatazioni sulla necessita' del momento di
 ponderazione e' evidente che il prevedere che il  progettista  assuma
 la funzione di legittimare il silenzio accoglimento ("alla domanda di
 concessione  edilizia  e'  allegata  anche  una relazione a firma del
 progettista  che  asseveri  la  conformita'   degli   interventi   da
 realizzare  alle  prescrizioni  urbanistiche  ed edilizie, nonche' il
 rispetto delle norme di sicurezza e sanitarie"), e' insufficiente. Il
 progettista potra' dire al piu' che esiste una norma che  costituisce
 un  quadro  e  una  base che consente all'autorita' amministrativa la
 ponderazione  degli  interessi.  Anche  ammesso  che  sia   legittimo
 sostituire   alla   norma   vigente   (che   prevede  un  certificato
 dell'amministrazione che deve applicare e interpretare la legge)  una
 nuova  statuizione  che  prevede  invece  una  relazione  di  persona
 tecnicamente valida per progettare interventi costruttivi,  meno  per
 interpretare  norme,  resta  sempre indubitabile che il momento della
 ponderazione viene abbandonato e pretermesso.
    Sarebbe superfluo ripetere che la  necessaria  strutturazione  con
 una   fase   istruttoria   e   di  ponderazione  deriva  direttamente
 dall'insegnamento  della   Corte,   nel   quadro   del   collegamento
 riaffermato  dalla  giurisprudenza  della  Corte fra accertamento del
 rispetto   dell'art.   97   della   Costituzione   e   sindacato   di
 ragionevolezza.
    L'insegnamento della Corte viene disatteso con l'istituzione di un
 silenzio-assenso che impedisce un esame dettagliato e puntuale di cui
 parla    la    sentenza   n.   392/l992   e   che   pone   previsioni
 accelerativo-derogatorie di fatto contrarie al buon andamento e  alla
 ragionevolezza  di  un  assetto  normativo  in  area  di legislazione
 concorrente.   Del   resto   questo   giudizio   non   positivo   sul
 silenzio-assenso e' stato dato dalla Corte di giustizia europea nella
 sentenza 28 febbraio 1991, causa 360/87.
    La normazione "non europea" dell'art.  8  del  d.l.  n.  468/1994
 stravolge  il sistema sinora seguito dalla normazione urbanistica con
 una diversificazione di momenti, sulla base di una  lunga  tradizione
 della  legislazione urbanistica (per usare la formula impiegata dalla
 Corte) per  cui  pianificazione,  attuazione  ed  esecuzione  debbono
 rimanere  separati.  Nel  nostro  caso,  invece, l'accoglimento della
 concessione,  diventando  automatico,  priva  il  rilascio  dell'atto
 concessorio  del  momento  del riscontro alla conformita' e al piano,
 che potrebbe addirittura non esserci (o potrebbe,  quanto  meno,  non
 esserci  come  strumento  efficace  e/o  valido).  In  altre  parole,
 potrebbe effettuarsi  il  deposito  di  una  domanda  di  concessione
 contraria  al  piano  o  in  regime  di assenza di normativa di piano
 efficace e valido e produrre  automaticamente  l'accoglimento,  senza
 che  vi  sia  stato ne' controllo, ne' ponderazione sulla concessione
 che viene rilasciata con il silenzio, automaticamente,  cosicche'  la
 concessione  viene  a tener luogo di uno strumento pianificatorio che
 non c'e', oppure di fatto vi deroga. Tutto cio' e'  precluso  ad  una
 legge  statale che non puo' derogare "al principio di distinzione tra
 programmazione territoriale, come diretta a regolare la  destinazione
 e  l'uso  del territorio, e legittimazione all'esecuzione dell'opera,
 conferita  al  soggetto  interessato  con   il   rilascio   dell'atto
 amministrativo   senza   il   controllo  di  coerenza  dell'ntervento
 specifico con gli indirizzi programmatici, controllo  particolarmente
 necessario,   per  l'osservanza,  che  esso  consente,  del  precetto
 dell'art. 4, primo comma, della stessa legge n. 10/1977,  secondo  il
 quale  la  concessione  e'  data in conformita' alle previsioni degli
 strumenti  urbanistici  e  dei  regolamenti  edilizi"  (sentenza   n.
 393/1992).
    Se  e'  illegittima  (come  lo  e'  in  forza  della  sentenza ora
 ricordata) una normativa che consenta all'atto con effetti concessori
 di  derogare  ad  uno  strumento  di  pianificazione,  non  e'   meno
 illegittima e irragionevole una pianificazione che attribuisce ad una
 concessione  "silenziosa"  in  fatto  lo  stesso  valore derogatorio,
 legittimando  l'inizio  di   una   edificazione   derogatoria,   anzi
 contraria, al piano regolatore.
    8.  -  Non  diverse  sono  le  conclusioni  per quanto riguarda la
 statuizione del primo comma dello stesso  art.  8  per  l'abrogazione
 della  norma  di principio posta dall'art. 13 della legge n. 10/1977.
 La   scansione   temporale   e'   elemento   fondamentale   di   ogni
 programmazione  che  e' l'individuazione di finalita' od obiettivi da
 raggiungere  con  determinati  mezzi  in  un  determinato  tempo.  Il
 congegno  del  programma  pluriennale  di  attuazione  costituisce la
 risposta  a  questa  esigenza  di  determinazione  del  tempo  e   di
 correlativo   apprestamento   concreto   e  reale  di  disponibilita'
 finanziarie  tali  da  evitare  che  il  piano  diventi  una  sterile
 operazione puramente grafica.
    L'elemento   temporale   fa  parte  anch'esso  della  tradizionale
 configurazione dell'assetto urbanistico che deve investire  tanto  lo
 spazio  quanto il tempo. Originariamente, nella struttura della legge
 urbanistica del 1942, esso era affidato all'articolazione  del  piano
 particolareggiato che conteneva un piano di spesa. Successivamente la
 funzione  di  regolazione  dell'attuazione  nel  tempo  ha trovato un
 assetto nella dimensione temporale, che adesso viene scardinata.  Nel
 diritto  vivente  (ricordiamo  per tutte la sentenza del Cons. Stato,
 sezione quarta, 5 novembre 1991, n. 882, in Riv. giur. urb., 1993, I,
 235 e segg.), "pur se il p.p.a. e' stato introdotto con la  legge  n.
 10/1977,  la  potesta'  di  distribuire  nel tempo gli interventi sul
 territorio era  gia'  contenuta  per  grandi  linee,  nel  potere  di
 pianificazione  di cui alla legge 17 agosto 1942, n. 1150. Ogni piano
 regolatore, invero, benche' destinato a valere a tempo indeterminato,
 in effetti non contempla che gli  interventi  la  cui  attuazione  e'
 prevedibile  nel  momento  in  cui  lo  strumento e' redatto, talche'
 l'amministrazione gode di ampia discrezionalita' nello scegliere,  in
 pratica,  il  limite  temporale  entro  il  quale  circoscrivere tali
 previsioni".
    Il  potere  di  pianificare  la  graduazione   cronologica   degli
 interventi  sul territorio e' dunque implicito nel concetto stesso di
 pianificazione  urbanistica,  mezzo  per  "uno  sviluppo  ordinato  e
 razionale  del  territorio", e non (solo) un mezzo per "perseguire la
 politica finanziaria" dei comuni. Se e' pur vero che una gestione dei
 suoli improntata  a  criteri  di  economicita'  rientra  tra  i  fini
 istituzionali  dei  comuni  in  generale, deve in ogni caso ritenersi
 interesse  prioritario  uno  sviluppo   organico,   e   questo   deve
 soprattutto  rispondere  alle  esigenze della collettivita', esigenze
 che non ricomprendono semplicemente il c.d. "diritto alla  casa",  ma
 anche  un  ambiente  salubre, un paesaggio il piu' possibile intatto,
 ecc.
    Scardinare questo sistema senza motivazione, in  modo  affrettato,
 non risponde ai criteri di ragionevolezza e di buon andamento.
    Il  fatto  che  possa essere migliorata la risposta alla esigenza,
 non consente di considerare ragionevole la negazione pura e  semplice
 delle   esigenze   di   regolazione   temporale   sotto   il  profilo
 dell'attuazione  ordinata  delle  previsioni  con  riferimento   alle
 manovre  di  spesa di urbanizzazione che i comuni possono determinare
 con riferimento alla scansione nel  tempo.  Tanto  meno  consente  di
 ritenere   ragionevole   un'immediata  abrogazione  della  norma  sui
 programmi pluriennali, con conseguente annullamento di quelli vigenti
 e una situazione di immediata paralisi e confusione.
    9.  -  Del  provvedimento  impugnato  deve   essere   chiesta   la
 sospensione,  in  considerazione  della  gravita'  degli  effetti  di
 turbativa dell'ordine costituzionale delle competenze e di  disordine
 sulla  corretta amministrazione della materia oggetto del decreto che
 esso  produce,  rovesciando  il  sistema   in   vigore,   consentendo
 l'immediato  uso  del  silenzio-assenso e l'immediata decadenza degli
 strumenti di programmazione temporale.
    L'ammissibilita' del potere cautelare della  Corte  costituzionale
 quale giudice delle leggi e' stata riconosciuta dalla piu' autorevole
 dotttrina (Mortati, Istituzioni di diritto pubbilico, IX ed., Padova,
 1976,  p.  1391).  Essa  ha  giustamente  rinvenuto il fondamento del
 potere inibitorio nelle esigenze di un sistema com'e' il  nostro,  il
 quale  (come rileva Pace, Sulla sospensione cautelare dell'esecuzione
 delle leggi autoapplicative  impugnate  per  incostituzionalita',  in
 Riv.  trim.  dir.  pubbl.,  1968,  517 e segg.) impone l'effettivita'
 della  tutela  e  conseguentemente  fa  considerare  come   attivita'
 istituzionale  del  potere  del  giudice  il potere cautelare, che e'
 stato riconosciuto dal Consiglio di Stato il quale, in carenza di una
 disposizione  testuale  nella  legge  6  dicembre  1971,  n. 1034, ha
 ritenuto la sussistenza del potere di inibitoria, per  considerazioni
 interpretative   sistematiche   relative  alla  "generale  competenza
 giurisdizionale a sindacare la  legittimita'  degli  atti  definitivi
 posti  in essere dalla pubblica amministrazione statale e non statale
 e lesivi di interessi legittimi. Ed e' proprio la  generalita'  della
 sfera di competenza del Consiglio di Stato che induce a ritenere che,
 nella  perdurante  sua natura di giudice di unico grado per la tutela
 degli interessi legittimi,  spetti  al  Consiglio  stesso  almeno  la
 tutela  cautelare  ed  urgente  in relazione ai ricorsi proposti dopo
 l'entrata in vigore della nuova  normativa"  (Adunanza  plenaria,  14
 aprile 1972 n. 5, in Foro it., 1972, III, 105 e segg.).
    La  decisione  del  Consiglio  di  Stato  sembra avere particolare
 importanza anche in relazione all'art. 22 della legge 11 marzo  1953,
 n.  87,  che  rinvia  al  regolamento  per  la  procedura  davanti al
 Consiglio di Stato, tenendo conto che esattamente  la  dottrina  piu'
 autorevole   (Mortati)  richiama  l'art.  39  t.u.  delle  leggi  sul
 Consiglio di Stato per  il  procedimento  relativo  alla  sospensione
 dell'atto impugnato.
    Una  rilevanza ancora maggiore, nella stessa linea interpretativa,
 deve essere riconosciuta all'insegnamento della Corte nella  sentenza
 n.  284/1974,  in cui e' stato statuito che "il potere di sospensione
 dell'esecuzione dell'atto impugnato e'  elemento  connaturale  di  un
 sistema  di  tutela giurisdizionale che si realizzi in definitiva con
 l'annullamento degli atti".  L'affermazione della Corte si  riferisce
 agli  atti  amministrativi,  ma  la  ratio  e  la  motivazione  della
 decisione si attagliano anche all'annullamento dell'atto legislativo,
 perche' tale  e'  la  configurazione  dell'esito  delle  sentenze  di
 accoglimento,  quale risulta dal terzo comma dell'art. 30 della legge
 11 marzo 1953,  n.    87,  e  secondo  le  affermazioni  della  Corte
 (sentenze  nn.  127/1966  e  49/1970) e posto che in tale funzione la
 Corte  e'  giudice.  La  Corte  costituzionale,  secondo  il  proprio
 indiscusso  insegnamento (sentenze nn. 22, 73 e 74 del 1960, 57/1961,
 67 e 68 del 1962, 73, 75 e 76 del 1965, 130/1968, 127 e 128 del 1969,
 100 e 190 del 1970, 181/1971, 96, 97, 101 e  151  del  1972,  ord.  9
 ottobre 1974, nn. 259/1974, 13 e 230 del 1975, 179, 38, 246 e 247 del
 1976,  ord.  7 luglio 1977, n.  125/1977, sentenze 2 agosto 1979, nn.
 44, 68 e 69 del 1978) e' come tale titolare del  potere  di  decidere
 sull'azione cautelare che inerisce alla funzione del giudice.
    A  conferma  si  puo'  aggiungere  la constatazione che, secondo i
 canoni piu' volte affermati dalla Corte, l'effettivita' del potere e'
 il parametro con cui ne vanno valutate le implicazioni. Cosicche'  ad
 un  potere  che  ha  competenza di annullamento sull'atto legislativo
 inerisce  il  potere  cautelare,  cosi'  come  al   potere   che   ha
 giurisdizione  sull'atto  amministrativo  anche normativo inerisce il
 potere cautelare nei confronti di quest'ultimo.  Non  a  caso  questo
 principio  del potere cautelare sull'atto legislativo e' una costante
 negli ordinamenti che hanno un sistema  di  giustizia  costituzionale
 anche di data antecedente al nostro.
    Le  constatazioni  precedenti  hanno  trovato  la  piu' autorevole
 sanzione nella giurisprudenza della Corte. Essa nella sua sentenza n.
 190/1985 ha affermato con chiarezza il "principio, per  il  quale  la
 durata  del  processo  non  deve  andare  a  danno dell'attore che ha
 ragione"  e conseguentemente ha dichiarato l'illegittimita' di talune
 norme della legge n. 1034/1971. Sulla base di questo  principio,  che
 la  Corte  ha  richiamato  nella  sentenza n. 146/1987, punto 5.2. in
 diritto, i dubbi interpretativi sul  potere  cautelare  in  relazione
 agli  atti  normativi  trovano  la loro soluzione nel principio posto
 dalla  Corte,  che  non  puo'   non   estendersi   al   processo   di
 illegittimita'  costituzionale.  Esso  e'  un  processo non dissimile
 nella sua struttura dagli altri in cui la Corte e' giudice (ed  ormai
 la  giurisprudenza  della Corte sulla Corte come giudice e' pacifica:
 ordinanze nn. 95/1980, 100/1970, 73/1965, 230/1975, 57/1961, 22/1960)
 e come tale fornito di tutti i poteri che ha  ogni  giudice  in  ogni
 processo,  come e' quello di sollevare questioni di costituzionalita'
 - riconosciuto da una giurisprudenza costante - e come  e',  appunto,
 il potere cautelare di cui viene chiesto l'esercizio.
    Nel  caso  del  decreto impugnato ricorrono tutti gli elementi che
 giustificano la domanda cautelare. Il decreto-legge e' per sua natura
 caratterizzato   dalla    temporaneita',    come    atto    che    e'
 istituzionalmente a tempo predeterminato.
    Esso  ha  immediati  effetti, che, come abbiamo visto, determinano
 irragionevolezza della disciplina complessiva;  ledono  l'affidamento
 ingenerato nel cittadino; modificano con effetto immediato (cosicche'
 -  se il decreto non fosse sospeso, e poi fosse invece, per auspicata
 ipotesi, annullato - si ingenerebbe il caos) meccanismi  e  procedure
 di  rilascio  del  titolo concessorio stabiliti solo un anno prima, e
 provvedimenti di programmazione temporale, senza nessuna  motivazione
 ne' sulla necessita', ne' sull'urgenza di operare in tal senso.
    Per questo, la regione Toscana deve fare ricorso alla tutela della
 Corte,  unico organo che puo' intervenire dal momento che la sinergia
 perversa  e  concentrata  dei   vizi   di   illegittimita',   sommati
 all'immediata   operativita'   dell'incostituzionale   decreto  rende
 indispensabile l'intervento della Corte per  sospendere  l'esecuzione
 del  medesimo:  e  nel  valutare  la  opportunita'  del provvedimento
 cautelare,  crediamo  che  la  Corte  non  possa  prescindere   dalle
 illegittimita' strutturali del decreto-legge, dalla assoluta mancanza
 di  motivazione  e  di  indicazione  dei  presupposti costituzionali,
 dall'incoerenza e  dalla  contraddittorieta',  dalla  violazione  dei
 principi piu' volte richiamati.