Ricorso   per   la   regione  Umbria,  in  persona  del  presidente
 pro-tempore  della  giunta  regionale,  rappresentata  e  difesa  per
 mandato  a  margine  del  presente  atto dall'avv. Alberto Predieri e
 presso il suo  studio  elettivamente  domiciliata  in  Roma,  via  G.
 Carducci,  n.  4, in forza di deliberazione g.r. n. 6299 del 4 agosto
 1994 contro il Presidente del Consigllo dei Ministri pro-tempore  per
 l'annullamento  previa  sospensione del d.l. 26 luglio 1994, n. 468,
 "Misure urgenti per il rilancio economico ed occupazionale dei lavori
 pubblici e dell'edilizia privata".
    1. - L'architettura del decreto-legge ricalca quella  della  legge
 n.  47/1985:  si  tratta  cioe'  di  un testo normativo contenente un
 condono per gli illeciti in materia  urbanistica  e  una  riforma  di
 parti   essenziali   della   regolazione  urbanistica,  con  profonde
 innovazioni rispetto alla disciplina vigente.  Ma,  mentre  nel  caso
 ricordato  veniva  correttamente  usato  lo  strumento  della  legge,
 indispensabile quando debba essere regolata  materia  che  appartenga
 alla  competenza legislativa regionale che puo' essere esercitata nei
 limiti dei principi posti da leggi dello Stato, nel  caso  sottoposto
 al  giudizio  della  Corte  lo  strumento  e'  quello illegittimo del
 decreto-legge, provvedimento  provvisorio,  che  ontologicamente  non
 puo' porre principi.
    Principio  e' nozione (impiegata nell'art. 117 della Costituzione)
 contrapposta  a   provvedimento   (impiegata   nell'art.   77   della
 Costistuzione), con una serie di implicazioni gia' sottolineate dalla
 dottrina  (per  tutti  ricordiamo  l'autorevole presa di posizione di
 Paladin, in G. Branca, Commentario della costituzione, La  formazione
 delle  leggi,  vol. II, 69), tanto per quanto riguarda la generalita'
 quanto per cio' che attiene alla proiezione diacronica.
    I principi hanno "carattere fondamentale  e  si  possono  desumere
 dalla  connessione  sistematica,  dal  coordinamento  e  dalla intima
 razionalita' delle norme che concorrono a formare, in un dato momento
 storico, il tessuto dell'ordinamento giuridico",  come  la  Corte  ha
 ritenuto a partire dalla sentenza 6/1956, in Giur. cost., 1956, 586.
    Questa   formulazione   comporta   che  configurare  un  principio
 momentaneo contingente che viene assunto  provvisoriamente,  sia  una
 contraddizione  irragionevole.  Se  i  principi  vanno  desunti da un
 tessuto, l'inopportunita' funzionale di un rabberciamento provvisorio
 di un tessuto e' di per se' tale da escludere l'uso di uno  strumento
 incongruo  quale  il  decreto-legge. Che, comunque, e' da proscrivere
 per le ragioni  testuali  e  strutturali  alle  quali  ci  riferiamo.
 L'irragionevolezza  e'  lo  strumento  che  veicola  una  lesione del
 sistema posto dall'art. 117; essa e', di per se' sussistente (e' bene
 precisarlo) quand'anche  non  fosse  stato  usato  lo  strumento  del
 decreto-legge,   come   verra'   detto   piu'   avanti,   dimostrando
 l'irragionevolezza delle nuove  disposizioni  in  relazione  al  loro
 specifico contenuto.
    Le   ragioni  per  cui  la  costituzione  vuole  la  legge  (cioe'
 rappresentanza di punti di  vista  e  degli  interessi,  discussione,
 ponderazione,  tutela  delle  minoranze)  non hanno bisogno di lunghi
 commenti. Sono ragioni e finalita' tutte frustrate dal ricorso ad uno
 strumento che non risponde alle finalita' della riserva  posta  dalla
 costituzione,   anzi  e'  utilizzato  per  raggiungere  indebitamente
 obiettivi in contrasto con l'ordinamento costituzionale.  Si  ha,  in
 questo  modo, una peculiare forma di irragionevolezza che consiste in
 una consequenzialita'  perversa,  vale  a  dire  nello  scegliere  lo
 strumento  piu' efficiente per raggiungere un fine contrario a quello
 della norma costituzionale.
    Obiettare che nel caso in questione il decreto ha forza di legge e
 quindi non puo' esservi diversita' fra i suoi  effetti  e  quelli  di
 legge,  non  supera l'obiezione per cui non basta una norma di legge,
 ma occorre una norma  di  principio  posta  dalla  legge  o  da  essa
 desumibile.  Puo'  essere  significativo  notare  che la Corte, nella
 sentenza n. 100/1980, ha escluso che un d.P.R. potesse  avere  titolo
 per  abrogare o contraddire una fonte locale in materia regionale non
 essendo neanche dotato  di  forza  di  legge.  Il  che  vuol  dire  -
 proseguendo  l'iter  del  ragionamento  - che, se anche un atto fosse
 dotato di forza di legge, questa attribuzione non avrebbe di per  se'
 titolo sufficiente per porre quelle statuizioni di principio che solo
 una legge puo' fare. Non a caso in gran parte delle letture del testo
 costituzionale  la  conversione  del  decreto-legge  viene vista come
 novazione, per cui ad una fonte ne viene sostituita un'altra con  cui
 viene  esercitata  la funzione legislativa. Nel caso in cui si tratti
 di  principi,  la   legge   sola   e'   abilitata   a   porre   norme
 costituzionalmente  valide.  Sino  a  quando,  pero',  una  legge  di
 conversione non sia sopravvenuta, il decreto-legge non ha titolo  per
 alterare l'ordine dei principi fondamentali della materia.
    Il  d.l.  prodotto  e'  irragionevole, perche' non vi e' assoluta
 urgenza di cambiare principi, tanto meno in una  materia  in  cui  le
 oscillazioni  sono  frequenti.  Se  per  avventura  la  necessita'  e
 l'urgenza vi fosse, andrebbe data una motivazione adeguata del  nesso
 che  intercorre secondo il governo fra il rilancio dell'economia e il
 modificare i principi fondamentali della normazione, che  nel  nostro
 caso manca del tutto anche se in questo caso la costituzione esige la
 motivazione dell'atto normativo.
    2.  - Le pesanti modificazioni all'ordinamento di settore vigente,
 e cioe' al complesso principi generali statali-normazione  regionale,
 violano  le  competenze  garantite  alle  regioni  dall'art. 117, con
 riferimento  al  rovesciamento  di  principi  posti  da   una   lunga
 tradizione  normativa,  che  ha posto un assetto della regolazione la
 cui coerenza e' stata riconosciuta  dalla  Corte,  corrispondente  ad
 esigenze  di  buon  andamento  e di corretto impiego delle potesta' e
 delle disponibilita'  finanziarie,  violando  tanto  l'art.  117,  in
 correlazione  con  l'art. 97 e l'art. 3, quanto l'art. 119, sempre in
 correlazione con gli artt. 97 e 3.
    3. - Scendendo ad esaminare i singoli articoli, va detto che oltre
 che nel capo secondo relativo alla regolazione urbanistica, anche nel
 capo primo relativo al condono vengono inserite norme che violano  le
 competenze  regionali.  L'art.  3 prevede che i comuni individuino le
 zone  maggiormente  interessate  dall'abusivismo,   ai   fini   della
 realizzazione  di  programmi  di  intervento.  Si  tratta  di atti di
 incerta collocazione, che paiono istituire un nuovo tipo di strumenti
 urbanistici; non paiono, infatti,  semplici  programmi  di  spesa  di
 opere  pubbliche,  limitati  a  stanziamenti  di somme per realizzare
 progetti gia' localizzati. Comunque, in entrambi i casi, sia sotto il
 profilo dell'urbanistica, sia sotto quello dei  lavori  pubblici,  si
 tratta di competenze previste nell'art. 117 e 118 della Costituzione.
 Se  questi programmi determinassero (come sembra) le modificazioni di
 precedenti previsioni urbanistiche,  costituirebbero  una  "causa  di
 alterazione  del  quadro  dei rapporti tra competenze attribuite alle
 regioni ed agli enti locali nel  vigente  sistema  di  programmazione
 urbanistica,  nelle sue articolazioni territoriali e di settore", per
 usare le parole della  sentenza  n.  393/1992.  La  quale  proseguiva
 rilevando  "chiara  l'irrazionalita'  ed il contrasto della normativa
 che la produce con il principio  di  buon  andamento  della  pubblica
 amministrazione".
    L'enunciato  del  decreto  e'  incerto e confuso. Non si sa da chi
 vengano approvati questi programmi, con quali  effetti  e  con  quali
 scopi.  Il  decreto  nell'art.  3, secondo comma, dice che "entro tre
 mesi dalla data  di  entrata  in  vigore  del  presente  decreto,  il
 Ministro  dei  lavori  pubblici  determina,  con  proprio  decreto, i
 criteri di formazione e i  contenuti  dei  programmi  di  intervento,
 nonche'  le  modalita'  di  concessione  dei finanziamenti". Il terzo
 comma aggiunge che "per la realizzazione  dei  programmi  di  cui  al
 primo  comma  si provvede utilizzando le somme, eccedenti gli importi
 di lire 2.550 miliardi per il 1994 e di lire 5.915  miliardi  per  il
 1995, relative agli introiti derivanti dall'art. 1. Le predette somme
 sono  riassegnate,  con  decreto del Ministro del tesoro, ad appositi
 capitoli  dello  stato  di  previsione  del  Ministero   dei   lavori
 pubblici".
    Tutta   la  materia  viene  sottratta  all'attivita'  normativa  e
 amministrativa delle regioni, violando gli artt. 117 e  118  con  una
 normazione   irragionevole,  basata  sull'ignorare  completamente  la
 competenza regionale, attribuendo al Ministro un potere normativo  di
 attuazione della legge e in realta' di determinazione e conformazione
 di una scatola vuota di cui viene solo indicato il nome.
    Si  tratta  di  un potere illegittimo non configurabile in materie
 trasferite alle regioni. L'illegittimita' denunciata  si  aggiunge  a
 quella  della incoerenza della normativa, che istituisce un programma
 senza dire che cosa intenda programmare,  se  opere  o  insediamenti,
 sapendo  solo  che  entro  tre  mesi  il  Ministro fara' conoscere il
 contenuto e le modalita' per erogare i finanziamenti che egli  dara',
 in  materia di competenza regionale e quindi con ulteriore violazione
 dell'art. 119 sia sotto il  profilo  della  spesa  sia  sotto  quello
 dell'entrata.
    La  statuizione  dell'art. 3, terzo comma prevede un impiego degli
 introiti derivanti dalle domande di condono affidato all'arbitrio del
 Ministro che, in violazione del  principio  di  legalita',  determina
 esso  stesso  con  suo  decreto  a  che  cosa  debbano essere volti i
 programmi, che, sempre a suo arbitrio, finanziera': con nuova  totale
 esclusione   delle   regioni  e  con  un  rovesciamento  delle  norme
 finanziarie connesse alle leggi come  la  n.  457/1978,  poste  dalle
 leggi   regionali  in  attuazione  di  una  legislazione  concorrente
 coerente.
    4. - Lo  stesso  filo  conduttore  di  sottrazione  di  competenze
 istituzionali regge l'enunciato dell'art. 4, anch'esso brutto esempio
 di  confusione.  Nel  primo comma, l'articolo prevede che "in caso di
 inadempienze" (quali  e  da  chi  commesse  il  testo  non  dice;  se
 dovessimo  pensare a previsioni sulla materia intera avremmo evidenti
 sovrapposizioni  e  interferenze)  venga  nominato  dal  Ministro  un
 commissario ad acta per l'adozione di provvedimenti di competenza del
 sindaco.  Anche  in  questo  caso  viene invasa un'area di competenza
 della  regione  che  ha,  e  deve  avere,  funzioni  di  controllo  e
 sostitutive,  sia  per la regolazione delle competenze, come e' stata
 effettuata dal d.P.R. n. 616, sia per  la  coerenza  del  sistema  di
 regolazione  della  materia  urbanistica,  con  la  posizione  che la
 regione  in  essa  deve  avere  agli  effetti  della  vigilanza,  del
 controllo e delle repressioni.
    5.   -   L'art.   5  del  decreto-legge  viola  un  principio  che
 universalmente veniva considerato fermo, il rispetto del giudicato  e
 del  limite  dei rapporti esauriti, con un'invasione delle competenze
 regionali.  Infatti  la  statuizione  interferisce  con  le  funzioni
 amministrative della regione. Ad esempio, gli atti di annullamento di
 concessioni edilizie che fossero stati effettuati dalla regione sulla
 base  di  una  sentenza  passata in giudicato che avesse accertato la
 nullita' di un trasferimento di  immobili  a  norma  dell'art.  17  e
 dell'art  40  della  legge  n.  47/1985  con  correlativo  successivo
 annullamento   regionale   della   concessione   rilasciata   ad   un
 proprietario  che  tale non era in violazione dell'art. 4 della legge
 n. 10/1977, verrebbero travolti dall'eversiva  statuizione  dell'art.
 5.
    Esempio   a   parte,   con   il   sovvertimento  di  un  principio
 dell'ordinamento che e', per usare la definizione  altra  volta  data
 dalla   Corte,   principio  di  civilta'  giuridica,  si  ha  lesione
 dell'affidamento nell'esercizio del  propri  poteri  che  compete  ai
 soggetti  costituzionali,  con una violazione delle norme degli artt.
 3, 97, 117, 118 della Costituzione, nonche' dell'art. 24  inteso  con
 riferimento  alle  garanzie  che l'ordinamento deve apprestare per la
 tutela giurisdizionale a livello generale, non solo  con  riferimento
 alle singole situazioni soggettive.
    6.  -  Nell'art.  6,  undicesimo  comma,  viene  previsto  che "le
 pubbliche amministrazioni provvedono, per quanto di loro  competenza,
 ad  esaminare  entro e non oltre novanta giorni dalla data di entrata
 in vigore del presente decreto i  casi  relativi  alle  procedure  di
 affidamento e di esecuzione delle opere pubbliche che, non rientrando
 nelle  ipotesi  di cui al presente articolo, possono essere riavviati
 con provvedimento amministrativo sulla base dei principi indicati nel
 presente articolo". Se per  pubbliche  amministrazioni  si  intendono
 anche  quelle  non  statali,  viene  posta  in  essere una normazione
 incoerente,  confusa  e  irragionevole  che  pretenderebbe  di  avere
 effetti  immediatamente  operativi  anche  per  le  regioni  e per le
 amministrazioni che hanno funzioni relative  ad  opere  pubbliche  di
 competenza  regionale  ex  art.  117 della Cost., con invasione della
 sfera regionale.
    7. - L'art. 8 rovescia la logica posta dall'art. 4 della legge  n.
 493/1993. Questo aveva escluso completamente il silenzio-accoglimento
 nella  submateria  della  concessione  edilizia,  dopo  un periodo di
 estensione transitoria disposta dalla legge n. 94/1982. Quest'ultima,
 pero', si riferiva al  silenzio  accoglimento  nei  casi  in  cui  la
 concessione  fosse  atto  dovuto  per  l'esecuzione  di uno strumento
 urbanistico direttamente operativo. Con  l'illegittimo  decreto-legge
 n.  468/1994  il  metodo  del silenzio-assenso viene esteso ad ogni e
 qualsiasi caso.
    Chiunque puo' presentare una domanda di concessione e, decorso  il
 termine  indicato, e' abilitato a costruire in forza della regola del
 silenzio-assenso posta dall'art. 4,  primo  comma,  del  nuovo  testo
 della  legge  n.  493/1993  riscritto dal primo comma dell'art. 8 del
 d.l. n. 468/1994. La prova del titolo all'edificazione e' data dalla
 copia dell'istanza presentata da cui risulti la data del deposito.
    Anche se la domanda di concessione non  fosse  conforme  al  piano
 regolatore  oppure se un piano valido ed efficace mancasse, oppure se
 il  piano  richiedesse  una  ponderazione  e  la  concessione   fosse
 tutt'altro  che  atto  dovuto (come e' nella normalita' dei casi), il
 silenzio-assenso opera sempre.
    Questa e' la profonda diversita' con  il  metodo  della  legge  n.
 94/1982,   che   prevedeva   il   silenzio-accoglimento  nei  cai  di
 "interventi da  attuare  su  aree  dotate  di  strumenti  urbanistici
 attuativi  vigenti  ed  approvati  non  anteriormente  all'entrata in
 vigore  della  legge  6  agosto  1967,  n.  765,  nonche'  quando  la
 concessione  o autorizzazione e' atto dovuto in forza degli strumenti
 urbanistici vigenti  e  approvati  non  anteriormente  alla  predetta
 data".  Altro  e'  superare  una  impasse  dovuta  ad una inattivita'
 dell'amministrazione  in  un  caso  particolare  (che   puo'   essere
 ragionevole  perche'  utile metodo per aumentare l'efficienza), altro
 elevare il  silenzio-assenso  a  regola  normale,  arrivando  ad  una
 normativa  per  cui  ben  si  puo' parlare di incostituzionalita' per
 abuso di silenzio-assenso.
    Con   l'illegittimo   decreto-legge,  il  meccanismo  consente  la
 costruzione immediata,  decorso  il  termine,  con  un  congegno  che
 depotenzia  il  momento  della  ponderazione  cosi'  come  quello del
 controllo. La  legislazione  urbanistica,  per  lunga  e  consolidata
 tradizione, e' fondata sulla esistenza di una fase di predisposizione
 di  previsioni  vincolanti  con  i  piani e su un'altra di attuazione
 attraverso il  rilascio  di  concessioni  o  di  autorizzazioni,  che
 debbono  essere conformi al piano e, se discrezionali, debbono essere
 ponderate al momento del  rilascio.  Invero  se  in  taluni  casi  la
 concessione  puo'  essere  configurata,  in  relazione  alle  singole
 concrete previsioni di quel determinato piano, come atto  dovuto,  in
 altri casi e' discrezionale; e' sempre subordinata ad accertamento di
 fatto  a  norma  dell'art.  31, quinto comma, l. urb., ad esempio con
 conseguenti illegittimita' di una concessione di costruzione "in zona
 non servita, o insufficientemente servita, da opere di urbanizzazione
 primaria" (Cons. Stato, Sez. V, 4 gennaio 1993, n. 26, in  Foro  it.,
 1993,  III,  573  e segg., ed e' sempre subordinata a ponderazioni in
 relazione alle previsioni.
    Il  rilascio  della  concessione  presuppone  un'istruttoria   per
 l'accertamento della sussistenza dei requisiti. Nella maggioranza dei
 casi  non  basta  l'accertamento  della  sussistenza  dei  requisiti:
 occorrono valutazioni discrezionali  o  ponderazioni,  per  usare  il
 linguaggio  pertinente  impiegato  dalla  Corte. Senza soffermarsi su
 fattispecie singole, puo' essere sufficiente ricordare che le sezioni
 unite della Corte di cassazione considerano sempre  discrezionale  il
 rilascio  della concessione (cfr. Cass., sezioni unite, 5 marzo 1993,
 n. 2667, in Foro it., 1993, I, 3062, "il privato non ha,  neppure  di
 fronte    a   strumenti   urbanistici   che   prevedono   determinate
 edificabilita', un diritto soggettivo al rilascio  della  concessione
 edilizia,  potendo  comunque la p.a. discrezionalmente determinare le
 concrete modalita' di esercizio del richiesto 'diritto'").
    Di fronte a queste constatazioni sulla necessita' del  momento  di
 ponderazione  e'  evidente che il prevedere che il progettista assuma
 la funzione di legittimare il silenzio accoglimento ("alla domanda di
 concessione edilizia e' allegata anche  una  relazione  a  firma  del
 progettista   che   asseveri   la  conformita'  degli  interventi  da
 realizzare alle prescrizioni urbanistiche  ed  edilizie,  nonche'  il
 rispetto delle norme di sicurezza e sanitarie"), e' insufficiente. Il
 progettista  potra' dire al piu' che esiste una norma che costituisce
 un quadro e una base che  consente  all'autorita'  amministrativa  la
 ponderazione   degli  interessi.  Anche  ammesso  che  sia  legittimo
 sostituire  alla  norma   vigente   (che   prevede   un   certificato
 dell'amministrazione  che deve applicare e interpretare la legge) una
 nuova  statuizione  che  prevede  invece  una  relazione  di  persona
 tecnicamente  valida  per progettare interventi costruttivi, meno per
 interpretare norme, resta sempre indubitabile che  il  momento  della
 ponderazione viene abbandonato e pretermesso.
    Sarebbe  superfluo  ripetere  che la necessaria strutturazione con
 una  fase  istruttoria  e   di   ponderazione   deriva   direttamente
 dall'insegnamento   della   Corte,   nel   quadro   del  collegamento
 riaffermato dalla giurisprudenza della  Corte  fra  accertamento  del
 rispetto   dell'art.   97   della   Costituzione   e   sindacato   di
 ragionevolezza.
    L'insegnamento della Corte viene disatteso con l'istituzione di un
 silenzio-assenso che impedisce un esame dettagliato e puntuale di cui
 parla    la    sentenza   n.   392/l992   e   che   pone   previsioni
 accelerativo-derogatorie di fatto contrarie al buon andamento e  alla
 ragionevolezza  di  un  assetto  normativo  in  area  di legislazione
 concorrente.   Del   resto   questo   giudizio   non   positivo   sul
 silenzio-assenso e' stato dato dalla Corte di giustizia europea nella
 sentenza 28 febbraio 1991, causa 360/87.
    La  normazione  "non  europea"  dell'art.  8 del d.l. n. 468/1994
 stravolge il sistema sinora seguito dalla normazione urbanistica  con
 una  diversificazione  di momenti, sulla base di una lunga tradizione
 della legislazione urbanistica (per usare la formula impiegata  dalla
 Corte)  per  cui  pianificazione,  attuazione  ed  esecuzione debbono
 rimanere separati. Nel  nostro  caso,  invece,  l'accoglimento  della
 concessione,  diventando  automatico,  priva  il  rilascio  dell'atto
 concessorio del momento del riscontro alla conformita'  e  al  piano,
 che  potrebbe  addirittura  non esserci (o potrebbe, quanto meno, non
 esserci  come  strumento  efficace  e/o  valido).  In  altre  parole,
 potrebbe  effettuarsi  il  deposito  di  una  domanda  di concessione
 contraria al piano o in regime  di  assenza  di  normativa  di  piano
 efficace  e  valido  e produrre automaticamente l'accoglimento, senza
 che vi sia stato ne' controllo, ne'  ponderazione  sulla  concessione
 che  viene  rilasciata con il silenzio, automaticamente, cosicche' la
 concessione viene a tener luogo di uno strumento  pianificatorio  che
 non  c'e',  oppure  di fatto vi deroga. Tutto cio' e' precluso ad una
 legge statale che non puo' derogare "al principio di distinzione  tra
 programmazione  territoriale, come diretta a regolare la destinazione
 e l'uso del territorio, e legittimazione  all'esecuzione  dell'opera,
 conferita   al   soggetto   interessato  con  il  rilascio  dell'atto
 amministrativo  senza  il  controllo  di   coerenza   dell'intervento
 specifico  con gli indirizzi programmatici, controllo particolarmente
 necessario,  per  l'osservanza,  che  esso  consente,  del   precetto
 dell'art.  4,  primo comma, della stessa legge n. 10/1977, secondo il
 quale la concessione e' data in  conformita'  alle  previsioni  degli
 strumenti   urbanistici  e  dei  regolamenti  edilizi"  (sentenza  n.
 393/1992).
    Se e'  illegittima  (come  lo  e'  in  forza  della  sentenza  ora
 ricordata) una normativa che consenta all'atto con effetti concessori
 di   derogare   ad  un  strumento  di  pianificazione,  non  e'  meno
 illegittima e irragionevole una pianificazione che attribuisce ad una
 concessione "silenziosa"  in  fatto  lo  stesso  valore  derogatorio,
 legittimando   l'inizio   di   una   edificazione  derogatoria,  anzi
 contraria, al piano regolatore.
    8. - Non diverse  sono  le  conclusioni  per  quanto  riguarda  la
 statuizione  del  primo  comma  dello stesso art. 8 per l'abrogazione
 della norma di principio posta dall'art. 13 della legge  n.  10/1977.
 La   scansione   temporale   e'   elemento   fondamentale   di   ogni
 programmazione che e' l'individuazione di finalita' od  obiettivi  da
 raggiungere  con  determinati  mezzi  in  un  determinato  tempo.  Il
 congegno del  programma  pluriennale  di  attuazione  costituisce  la
 risposta   a  questa  esigenza  di  determinazione  del  tempo  e  di
 correlativo  apprestamento  concreto  e   reale   di   disponibilita'
 finanziarie  tali  da  evitare  che  il  piano  diventi  una  sterile
 operazione puramente grafica.
    L'elemento   temporale   fa  parte  anch'esso  della  tradizionale
 configurazione dell'assetto urbanistico che deve investire  tanto  lo
 spazio  quanto il tempo. Originariamente, nella struttura della legge
 urbanistica del 1942, esso era affidato all'articolazione  del  piano
 particolareggiato che conteneva un piano di spesa. Successivamente la
 funzione  di  regolazione  dell'attuazione  nel  tempo  ha trovato un
 assetto nella dimensione temporale, che adesso viene scardinata.  Nel
 diritto  vivente  (ricordiamo  per tutte la sentenza del Cons. Stato,
 sezione quarta, 5 novembre 1991, n. 882, in Riv. giur. urb., 1993, I,
 235 e segg.), "pur se il p.p.a. e' stato introdotto con la  legge  n.
 10/1977,  la  potesta'  di  distribuire  nel tempo gli interventi sul
 territorio era  gia'  contenuta  per  grandi  linee,  nel  potere  di
 pianificazione  di cui alla legge 17 agosto 1942, n. 1150. Ogni piano
 regolatore, invero, benche' destinato a valere a tempo indeterminato,
 in effetti non contempla che gli  interventi  la  cui  attuazione  e'
 prevedibile  nel  momento  in  cui  lo  strumento e' redatto, talche'
 l'amministrazione gode di ampia discrezionalita' nello scegliere,  in
 pratica,  il  limite  temporale  entro  il  quale  circoscrivere tali
 previsioni".
    Il  potere  di  pianificare  la  graduazione   cronologica   degli
 interventi  sul territorio e' dunque implicito nel concetto stesso di
 pianificazione  urbanistica,  mezzo  per  "uno  sviluppo  ordinato  e
 razionale  del  territorio", e non (solo) un mezzo per "perseguire la
 politica finanziaria" dei comuni. Se e' pur vero che una gestione dei
 suoli improntata  a  criteri  di  economicita'  rientra  tra  i  fini
 istituzionali  dei  comuni  in  generale, deve in ogni caso ritenersi
 interesse  prioritario  uno  sviluppo   organico,   e   questo   deve
 soprattutto  rispondere  alle  esigenze della collettivita', esigenze
 che non ricomprendono semplicemente il c.d. "diritto alla  casa",  ma
 anche  un  ambiente  salubre, un paesaggio il piu' possibile intatto,
 ecc.
    Scardinare questo sistema senza motivazione, in  modo  affrettato,
 non risponde ai criteri di ragionevolezza e di buon andamento.
    Il  fatto  che  possa essere migliorata la risposta alla esigenza,
 non consente di considerare ragionevole la negazione pura e  semplice
 delle   esigenze   di   regolazione   temporale   sotto   il  profilo
 dell'attuazione  ordinata  delle  previsioni  con  riferimento   alle
 manovre  di  spesa di urbanizzazione che i comuni possono determinare
 con riferimento alla scansione nel  tempo.  Tanto  meno  consente  di
 ritenere   ragionevole   un'immediata  abrogazione  della  norma  sui
 programmi pluriennali, con conseguente annullamento di quelli vigenti
 e una situazione di immediata paralisi e confusione.
    9.  -  Del  provvedimento  impugnato  deve   essere   chiesta   la
 sospensione,  in  considerazione  della  gravita'  degli  effetti  di
 turbativa dell'ordine costituzionale delle competenze e di  disordine
 sulla  corretta amministrazione della materia oggetto del decreto che
 esso  produce,  rovesciando  il  sistema   in   vigore,   consentendo
 l'immediato  uso  del  silenzio-assenso e l'immediata decadenza degli
 strumenti di programmazione temporale.
    L'ammissibilita' del potere cautelare della  Corte  costituzionale
 quale giudice delle leggi e' stata riconosciuta dalla piu' autorevole
 dottrina  (Mortati, Istituzioni di diritto pubbilico, IX ed., Padova,
 1976, p. 1391). Essa  ha  giustamente  rinvenuto  il  fondamento  del
 potere  inibitorio  nelle esigenze di un sistema com'e' il nostro, il
 quale (come rileva Pace, sulla sospensione cautelare  dell'esecuzione
 delle  leggi  autoapplicative  impugnate  per incostituzionalita', in
 Riv. trim. dir. pubbl., 1968,  517  e  segg.)  impone  l'effettivita'
 della   tutela  e  conseguentemente  fa  considerare  come  attivita'
 istituzionale del potere del giudice  il  potere  cautelare,  che  e'
 stato riconosciuto dal consiglio di Stato il quale, in carenza di una
 disposizione  testuale  nella  legge  6  dicembre  1971,  n. 1034, ha
 ritenuto la sussistenza del potere di inibitoria, per  considerazioni
 interpretative   sistematiche   relative  alla  "generale  competenza
 giurisdizionale a sindacare la  legittimita'  degli  atti  definitivi
 posti  in essere dalla pubblica amministrazione statale e non statale
 e lesivi di interessi legittimi. Ed e' proprio la  generalita'  della
 sfera di competenza del Consiglio di Stato che induce a ritenere che,
 nella  perdurante  sua natura di giudice di unico grado per la tutela
 degli interessi legittimi,  spetti  al  Consiglio  stesso  almeno  la
 tutela  cautelare  ed  urgente  in relazione ai ricorsi proposti dopo
 l'entrata in vigore della nuova  normativa"  (Adunanza  plenaria,  14
 aprile 1972, n. 5, in Foro it., 1972, III, 105 e segg.).
    La  decisione  del  Consiglio  di  Stato  sembra avere particolare
 importanza anche in relazione all'art. 22 della legge 11 marzo  1953,
 n.  87,  che  rinvia  al  regolamento  per  la  procedura  davanti al
 Consiglio di Stato, tenendo conto che esattamente  la  dottrina  piu'
 autorevole   (Mortati)  richiama  l'art.  39  t.u.  delle  leggi  sul
 Consiglio di Stato per  il  procedimento  relativo  alla  sospensione
 dell'atto impugnato.
    Una  rilevanza ancora maggiore, nella stessa linea interpretativa,
 deve essere riconosciuta all'insegnamento della Corte nella  sentenza
 n.  284/1974,  in cui e' stato statuito che "il potere di sospensione
 dell'esecuzione dell'atto impugnato e'  elemento  connaturale  di  un
 sistema  di  tutela giurisdizionale che si realizzi in definitiva con
 l'annullamento degli atti". L'affermazione della Corte  si  riferisce
 agli  atti  amministrativi,  ma  la  ratio  e  la  motivazione  della
 decisione si attagliano anche all'annullamento dell'atto legislativo,
 perche' tale  e'  la  configurazione  dell'esito  delle  sentenze  di
 accoglimento,  quale risulta dal terzo comma dell'art. 30 della legge
 11 marzo 1953, n. 87, e secondo le affermazioni della Corte (sentenze
 nn. 127/1966 e 49/1970) e posto che in  tale  funzione  la  Corte  e'
 giudice.  La  Corte  costituzionale,  secondo  il  proprio indiscusso
 insegnamento (sentenze nn. 22, 73 e 74 del 1960, 57/1961, 67 e 68 del
 1962, 73, 75 e 76 del 1965, 130/1968, 127 e 128 del 1969, 100  e  190
 del  1970,  181/1971, 96, 97, 101 e 151 del 1972, ordinanza 9 ottobre
 1974, n. 259/1974, 13 e 230 del 1975, 179, 38, 246 e  247  del  1976,
 ordinanza 7 luglio 1977, n. 125/1977, sentenze 2 agosto 1979, nn. 44,
 68  e  69  del  1978)  e'  come  tale titolare del potere di decidere
 sull'azione cautelare che inerisce alla funzione del giudice.
    A conferma si puo' aggiungere  la  constatazione  che,  secondo  i
 canoni piu' volte affermati dalla Corte, l'effettivita' del potere e'
 il  parametro con cui ne vanno valutate le implicazioni. Cosicche' ad
 un potere che ha competenza  di  annullamento  sull'atto  legislativo
 inerisce   il   potere   cautelare,  cosi'  come  al  potere  che  ha
 giurisdizione sull'atto amministrativo anche  normativo  inerisce  il
 potere  cautelare  nei  confronti  di quest'ultimo. Non a caso questo
 principio del potere cautelare sull'atto legislativo e' una  costante
 negli  ordinamenti  che  hanno un sistema di giustizia costituzionale
 anche di data antecedente al nostro.
    Le  constatazioni  precedenti  hanno  trovato  la  piu' autorevole
 sanzione nella giurisprudenza della Corte. Essa nella sua sentenza n.
 190/1985 ha affermato con chiarezza il "principio, per  il  quale  la
 durata  del  processo  non  deve  andare  a  danno dell'attore che ha
 ragione" e conseguentemente ha dichiarato l'illegittimita' di  talune
 norme  della  legge n. 1034/1971. Sulla base di questo principio, che
 la Corte ha richiamato nella sentenza  n.  146/1987,  punto  5.2.  in
 diritto,  i  dubbi  interpretativi  sul potere cautelare in relazione
 agli atti normativi trovano la loro  soluzione  nel  principio  posto
 dalla   Corte,   che   non   puo'   non  estendersi  al  processo  di
 illegittimita' costituzionale. Esso  e'  un  processo  non  dissimile
 nella  sua struttura dagli altri in cui la Corte e' giudice (ed ormai
 la giurisprudenza della Corte sulla Corte come giudice  e'  pacifica:
 ordinanze nn. 95/1980, 100/1970, 73/1965, 230/1975, 57/1961, 22/1960)
 e  come  tale  fornito  di tutti i poteri che ha ogni giudice in ogni
 processo, come e' quello di sollevare questioni di  costituzionalita'
 -  riconosciuto  da una giurisprudenza costante - e come e', appunto,
 il potere cautelare di cui viene chiesto l'esercizio.
    Nel caso del decreto impugnato ricorrono tutti  gli  elementi  che
 giustificano la domanda cautelare. Il decreto-legge e' per sua natura
 caratterizzato    dalla    temporaneita',    come    atto    che   e'
 istituzionalmente a tempo predeterminato.
    Esso ha immediati effetti, che, come  abbiamo  visto,  determinano
 irragionevolezza  della  disciplina complessiva; ledono l'affidamento
 ingenerato nel cittadino; modificano con effetto immediato (cosicche'
 - se il decreto non fosse sospeso, e poi fosse invece, per  auspicata
 ipotesi,  annullato  - si ingenerebbe il caos) meccanismi e procedure
 di rilascio del titolo concessorio stabiliti solo un  anno  prima,  e
 provvedimenti  di programmazione temporale, senza nessuna motivazione
 ne' sulla necessita', ne' sull'urgenza di operare in tal senso.
    Per questo, la regione Umbria deve fare ricorso alla tutela  della
 Corte,  unico organo che puo' intervenire dal momento che la sinergia
 perversa  e  concentrata  dei   vizi   di   illegittimita',   sommati
 all'immediata   operativita'   dell'incostituzionale   decreto  rende
 indispensabile l'intervento della Corte per  sospendere  l'esecuzione
 del  medesimo:  e  nel  valutare  la  opportunita'  del provvedimento
 cautelare,  crediamo  che  la  Corte  non  possa  prescindere   dalle
 illegittimita' strutturali del decreto-legge, dalla assoluta mancanza
 di  motivazione  e  di  indicazione  dei  presupposti costituzionali,
 dall'incoerenza e  dalla  contraddittorieta',  dalla  violazione  dei
 principi piu' volte richiamati.