IL PRETORE 1. - Osserva che, a seguito di decreto di citazione a giudizio emesso dal p.m. in relazione alla contestata imputazione: art. 110 del c.p. e 527 del c.p. l'imputato, attraverso il difensore munito di procura speciale, all'udienza del 30 maggio 1994, richiedeva predibattimentalmente e con il consenso del p.m. avanti il pretore dott. Montini Trotti di questa stessa pretura l'applicazione della pena di L. 2.000.000 di multa, sostituita la pena detentiva finale di mesi due e giorni venti di reclusione ex art. 53 della legge n. 689/1989 e cosi' calcolata: pena base mesi quattro di reclusione, 444 del c.p.p., mesi due e giorni venti di reclusione. Ritenuto che la sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria non poteva aver luogo ostandovi l'art. 59, primo comma, della legge n. 689/1989 avendo l'imputato riportato condanna alla pena della reclusione complessivamente superiore ad anni due e risultando commesso il fatto contestato entro i cinque anni dalla condanna di cui alla sentenza corte d'appello di Venezia del 13 maggio 1988 irrevocabile il 28 gennaio 1989, rigettava la richiesta di applicazione della pena e, in ossequio della sentenza della Corte costituzionale n. 186/1992 di illegittimita' costituzionale dell'art. 34 del c.p.p. si dichiarava incompatibile a giudicare dal merito costi' rimettendo gli atti al sottoscritto pretore. All'odierna udienza l'imputato, tramite il difensore munito di procura speciale e con il consenso del p.m., avanzava nuova richiesta di applicazione della pena nei medesimi termini gia' proposti al primo giudice, senza operare, tuttavia, la sostituzione della pena detentiva finale con quella pecuniaria. 2. - Ritiene a tal proposito questo pretore che le disposizioni di cui agli artt. 446 e 448 del c.p.p. relativi alla "richiesta di applicazione della pena e consenso" e "ai provvedimenti del giudice" la cui applicazione sarebbe nel presente procedimento rispettivamente necessario presupposto e necessaria conseguenza della valutazione del contenuto della nuova richiesta di patteggiamento appaiano, ove interpretate nel senso che le stesse consentono alle parti di reiterare avanti al giudice, cui siano stati trasmessi gli atti a seguito della dichiarata incompatibilita', ex art. 34 del c.p.p., di quello cui sia stata proposta la prima richiesta poi rigettata, nuova richiesta di applicazione, uguale o difforme alla precedente, e al giudice di valutare il merito della nuova richiesta, in guisa rilevante e non manifestamente infondata, contrastanti con molteplici norme costituzionali. Deve anzitutto premettersi come appunto l'orientamento praticamente uniforme della suprema Corte sul punto si ponga nel senso di un'assoluta facolta' per le parti di reiterare la richiesta di patteggiamento (senza distinzione alcuna tra richieste tra loro eguali ovvero difformi) sino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado (cfr. sezione prima 25 luglio 1991; Cass. 19 febbraio 1992; sezione prima 2 marzo 1992, n. 2265; sezione quinta, 4 maggio 1992, n. 5154), desumendosi in particolare tale possibilita' dall'art. 446, quarto comma, del c.p.p. che consente la prestazione del consenso alla parte, che in precedenza lo aveva negato, fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado. 3. - Non puo' rilevarsi tuttavia come tale interpretazione, anzitutto con riferimento alla reiterazione di richiesta eguale a quella gia' rigettata, possa dar luogo, dovendo il giudice che rigetti la richiesta di applicazione avanti a lui proposta dichiararsi incompatibile per effetto dell'art. 34 del c.p.p. come rivisitato da Corte costituzionale n. 186/1992, alla conseguenza (gia' verificatasi, seppure nel suo primissimo stadio, nella specie) della trasmigrazione (eventualmente sinanco ripetuta) del processo dinanzi a plurimi e diversi giudici, a seguito di ripetute pronuncie di reiezione della richiesta concordemente formulata dalle parti, fintantoche' non si ottenga, alla fine, la auspicata applicazione della pena. Non puo' in effetti non rilevarsi la grave distonia con i principi costituzionali che da tale "peregrinazione" deriva, in particolare con l'art. 25, primo comma, della Costituzione e l'art. 97, primo comma, della Costituzione: con il primo perche' le parti otterebbero una possibilita' di scelta del giudice assolutamente estranea ai principi ordinamentali e con il secondo perche' la possibile plurima reiterazione (financo all'infinito) di istanze gia' precedentemente proposte e respinte sarebbe del tutto contrastante col principio del buon andamento della pubblica amministrazione, in quest'ultimo indubbiamente rientrando anche una gestione il piu' possibilmente "economica" del processo penale con conseguenze particolarmente rilevanti specie in uffici di piccole dimensioni. 4. - Non puo' inoltre non sottolinearsi come, nell'ipotesi di facolta' di reiterazione della richiesta di applicazione di pena gia' esclusa dal primo giudice, si addivenga sostanzialmente a configurare un'impugnazione vera e propria avverso il giudizio negativo formulato in precedenza con violazione dell'art. 591, lett. b), del c.p.p. posto che il provvedimento di reiezione di istanza di patteggiamento in fase predibattimentale non e' impugnabile separatamente rispetto alla sentenza definitoria del giudizio. Si introdurrebbe quindi, cosi' facendo, un'impugnazione inammissibile perche' non prevista dalla legge e devoluta al giudice non precostituito a tal fine (come invece il giudice d'appello, con violazione dell'art. 25, primo comma, della Costituzione). 5. - Cio' posto, ritiene comunque questo pretore che debba pervenirsi ad analoghe conclusioni anche con riferimento, questa volta, alla proposizione di nuova istanza di "patteggiamento" sostanzialmente difforme dalla precedente, perche' basata su presupposti diversi o addirittura incompatibili rispetto a quella. Invero, ferma restando l'esattezza, anche per questa seconda evenienza, di quanto esposto sopra sub 3) riscontrandosi anche in tal caso il lamentato contrasto con i principi della precostituzione naturale del giudice e del buon andamento dell'amministrazione, deve sottolinearsi come lo stesso contenuto della sentenza Corte costituzionale n. 186/1992, enunciativa di principi gia' espressi nelle sentenze nn. 401 e 496 del 1990, 502/1991 e 124/1992, sempre relative all'incompatibilita' del giudice a partecipare al giudizio, conduca necessariamente a tale esito. Infatti, l'obbligo di astensione, cui il giudice che abbia respinto una richiesta di applicazione di pena deve attenersi, viene necessariamente in rilievo sul presupposto che questi, una volta esaurita, con la propria pronuncia reiettiva, la fase predibattimentale, dovrebbe necessariamente affrontare il merito del processo in ordine al quale potrebbe, tuttavia, trovarsi sfornito del necessario requisito di imparzialita' per avere egli gia', in una certa guisa, pregiudicato dei fatti (seppure essenzialmente in ordine all'assenza dei presupposti legittimanti la pronuncia ex art. 129 del c.p.p.) soprattutto avendo egli avuto conoscenza, ex art. 135 della disp. att. del c.p.p., degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero contribuenti a turbare l'assoluta "verginita'" del giudice dibattimentale. Se quindi la Corte costituzionale ha affermato in tale caso, l'obbligo, per il giudice che abbia respinto una prima istanza di applicazione di pena, di astenersi (nella ricorenza dell'ipotesi di cui all'art. 34 del c.p.p., e' proprio perche' alla reiezione dell'istanza di patteggiamento stesso, deve necessariamente e senza soluzione di continuita' seguire la fase del dibattimento (che sara' quindi devoluta al giudice, diverso dal primo, cui gli atti dovranno essere trasmessi successivamente alla declaratoria di incompatibilita'). In altri termini, respinta la proposta di patteggiamento, seguira' la celebrazione del giudizio nella forma propria del rito nel quale la richiesta era stata inserita; ove, al contrario, il giudice, ad quem cio' non facesse, pronunciando invece una seconda volta su altra richiesta di patteggiamento, anche diversa dalla prima (respingendola ancora oppure accogliendola), incorrerebbe evidentemente in una violazione del canone di competenza funzionale, dovendosi appunto la competenza di tale secondo giudicante intendere, per quanto detto sopra, funzionalmente circoscritta alla celebrazione del giudizio, con conseguenze verosimilmente assimilabili, per analogia, a quelle proprie dell'incompetenza per materia (o, addirittura, dell'incapacita' del giudice ex art. 178, lett. a), del c.p.p.). 6. - Tutto quanto sopra esposto relativamente al profilo della non manifesta infondatezza, va altresi' evidenziata l'indubbia rilevanza della questione stessa posto che, ove questo giudice, lungi dal dichiarare inammissibile la nuova istanza di applicazione di pena (eguale o difforme alla precedente) come, a parere di questo giudice, una interpretazione della norma conforme ai principi costituzionali imporrebbe, scendesse, al contrario, in aderenza all'interpretazione dell'art. 446 del c.p.p. sostenuta dalla suprema Corte, a valutarne il merito, ne deriverebbe l'alternativa o dell'ulteriore trasmigrazione del procedimento ad altro giudice per effetto dell'art. 34 del c.p.p. nella ipotesi di nuova pronuncia di rigetto, o al contrario, una definizione del procedimento stesso in via predibattimentale con applicazione della diminuente di cui all'art. 444 del c.p.p. in ipotesi di accoglimento (e contrariamente a quanto invece seguirebbe per effetto della declaratoria di inammissibilita' della nuova richiesta). 7. - Va percio' ritenuta la non manifesta infondatezza nonche' la rilevanza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 446 del c.p.p. ove interpretato nel senso che lo stesso consenta alle parti di reiterare avanti al giudice cui siano trasmessi gli atti a seguito della dichiarata incompatibilita' ex art. 34 del c.p.p., di quello cui sia stata proposta una prima richiesta di applicazione della pena rigettata, nuova richiesta di applicazione uguale o difforme della precedente e dell'art. 448 del c.p.p. ove interpretato nel senso che consenta al giudice di valutare nel merito, senza dichiararla inammissibile, nuova richiesta di applicazione eguale o difforme a quella gia' rigettata dal primo giudice dichiaratosi incompatibile ex art. 34 del c.p.p. con le conseguenti statuizioni di cui al dispositivo.