IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Ha pronunziato la seguente ordinanza sul ricorso r.g. 2020/1993, proposto da Belhaiba Abdelilah, rappresentato e difeso dagli avvocati Sergio Onesti e Roberto Fortunato, presso il cui studio in Milano, via Bellezza, 9, e' elettivamente domiciliato, contro il Ministero dell'interno, in persona del Ministro pro-tempore, rappresentato e difeso dall'avvocatura distrettuale dello Stato, presso i cui uffici in Milano, via Freguglia, 1, e' domiciliato, per l'annullamento: 1) del decreto di espulsione n. 2197/93 del prefetto di Milano, datato 8 maggio 1993; 2) del conseguente provvedimento del questore in pari data; 3) del provvedimento di rigetto dell'istanza di soggiorno n. C586266S datata 8 maggio 1993 da parte del questore di Milano; Visto il ricorso con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero; Vista la memoria prodotta dalla difesa erariale a sostegno delle proprie difese; Visti gli atti tutti della causa; Uditi all'udienza del 23 marzo 1994 (relatore dott. Rita Cerioni) il procuratore della parte ricorrente e dell'amministrazione resistente; Ritenuto in fatto e diritto quanto segue: F A T T O Il ricorrente, cittadino marocchino, entrato in Italia prima del 31 dicembre 1989, e regolarizzato ai sensi della legge n. 39/1990, ha impugnato il decreto di espulsione del prefetto di Milano di cui all'epigrafe, motivato dalla condanna per tentato furto emessa nel gennaio 1991, a seguito del c.d. patteggiamento ex art. 444 del c.p.p., unitamente ai due conseguenti provvedimenti del questore. Il ricorrente afferma di aver sempre prestato attivita' lavorativa subordinata e di aver sposato una cittadina italiana. Il ricorrente proclamandosi del tutto estraneo ai fatti che hanno determinato la sentenza di condanna, afferma che il patteggiamento a cui sarebbe stato indotto, senza rendersi conto delle conseguenze, non puo' essere assimilato ad una condanna penale dalla quale scaturisca l'obbligo per la p.a. di assumere provvedimenti di cui all'art. 7 della citata legge n. 39. Il ricorrente ritiene, altresi', che sussista l'obbligo della motivazione del provvedimento, che sarebbe del tutto carente nella fattispecie. Il Belhaiba contesta infine la contraddittorieta' del diniego relativo al permesso di lavoro. Resiste il Ministero reputando infondato il ricorso. D I R I T T O La questione sottoposta all'esame del collegio riguarda l'espulsione di un cittadino extracomunitario, a seguito di sentenza di patteggiamento ex art. 444 del c.p.p. per uno dei reati per i quali l'art. 7 della legge n. 39/1990 impone il censurato provvedimento prefettizio. La citata sentenza, a parere del collegio, integra i contenuti di una pronunzia di condanna sia alla luce dell'esplicito ed inequivoco disposto dell'art. 445, primo comma, del c.p.p., sia perche' promana da un giudice penale ed irroga una pena criminale (detentiva o pecuniaria) (cfr. sentenze, sezione I, nn. 371 e 597 del 1993), con la conseguenza che, non concedendo l'art. 7 della citata legge alcuna discrezionalita' al prefetto, il ricorso andrebbe rigettato. Risulta, infatti, del tutto irrilevante ogni censura che, contrariamente alla realta' giuridica appena delineata, poggia le sue fondamenta su una pretesa discrezionalita' della p.a. ovvero pretenda che sia il giudice amministrativo a farsi carico di un esame del merito ad esso sottratto in questa materia. Il collegio pero' dubita che il citato art. 7, primo comma, sia legittimo sotto il profilo costituzionale. Il collegio non ignora che la Corte costituzionale, recentemente, con ordinanza n. 72 del 21 febbraio-3 aprile 1994, ha restituito al t.a.r. Lombardia gli atti di due giudizi, in cui era stata sollevata la questione di costituzionalita' dell'art. 7, per un nuovo esame della questione, stante la recente legge 12 agosto 1993, n. 296, che, secondo la Corte, paleserebbe una nuova ed ulteriore forma di coordinamento tra la decisione giurisdizionale e quella amministrativa, anche in considerazione dell'inciso contenuto nell'art. 7, primo comma "Fermo restando". Pur tuttavia il collegio ritiene che la novella non sia determinante ai fini che qui interessano, anche per il principio di non retroattivita' della legge penale, quale deve intendersi l'art. 8 della legge n. 296, e in relazione al fatto che in una ipotesi di condanna intervenuta prima della sua emanazione con esecuzione sospesa, quale e' la presente, non sembrerebbero esservi spazi per una applicazione dell'espulsione, peraltro su richiesta dello straniero, ad opera del giudice procedente o del giudice dell'esecuzione, come prevede l'inserito nuovo comma 12- ter. A meno che la norma sopraggiunta, piu' favorevole allo straniero perche' rimette alla sua volonta' l'espulsione, non debba intendersi, per le condanne inferiori ai tre anni, abrogativa di ogni altra normativa. Il collegio pero' dubita che sia questa l'interpretazione da dare all'art. 8 della legge n. 296. In realta', secondo il collegio, tale norma ha fornito allo straniero, condannato ad una pena inferiore a tre anni, un'alternativa all'espiazione della pena, senza modificare il regime relativo all'espulsione come sanzione accessoria, irrogabile dal giudice penale nei casi previsti dal codice o dalle leggi speciali, o dal prefetto nei residui casi disciplinati dall'art. 7. Va rilevato, altresi', che non sarebbe risolutiva del presente giudizio, neanche l'interpretazione che si potrebbe dare all'inciso "Fermo restando", richiamato significativamente nell'ordinanza n. 73 della Corte e sopra ricordato. Infatti il presente caso esula da una delle ipotesi di espulsione a cura dell'autorita' penale, trattandosi di condanna per tentato furto, che ha comportato una pena di due mesi e dieci giorni di reclusione oltre a L. 100.000 di multa. Una tale condanna, alla quale non hanno fatto seguito, ne' potevano farlo, misure cautelari od espulsive in sede penale, ha determinato pero' l'attivarsi obbligatorio e vincolato del prefetto, indipendentemente da una valutazione della pericolosita' del soggetto, del suo inserimento sociale, del lavoro da lui regolarmente svolto, del suo matrimonio con una cittadina italiana. Sono evidenti le contraddittorieta' del sistema. Tanto piu' che la sentenza di condanna ex art. 445 del c.p.p. non pressuppone l'accertamento di responsabilita' in capo a colui che propone il patteggiamento, al fine di evitare l'alea del giudizio. Se l'art. 7 deve essere interpretato, come sembra al collegio, nel senso che il prefetto deve vincolativamente procedere all'espulsione in tutti i casi ivi previsti, e nei quali il giudice penale non ha competenza a pronunziarsi sull'espulsione, perche' la condanna non comporta l'applicazione di tale misura di sicurezza, detto articolo contrasta manifestatamente con numerosi principi costituzionali. Il collegio ritiene, condividendo quanto esposto nelle ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale di questo tribunale nn. 537 e 538 del 1992 e nell'ordinanza del t.a.r. Liguria n. 584, che l'art. 7, nei commi in cui dispone, a cura del prefetto, l'espulsione automatica dello straniero, confligga con i principi di ragionevolezza, desumibili dall'art. 3 della Costituzione, e di buon andamento della p.a. di cui al successivo art. 97. La norma appare anche in contrasto con l'art. 24 della Costituzione, essendo inibito al giudice amministrativo un potere di controllo sulla legittimita' sostanziale dell'operato della p.a., nonche' con l'art. 25, sotto il profilo della finalita' rieducativa della pena, e con l'art. 35, sulla tutela del lavoro, venendo, attraverso l'espulsione, impedito agli interessati l'esercizio di un'attivita' lavorativa nel territorio italiano. La risoluzione della questione e' rilevante ai fini della decisione del ricorso, che investe atti amministrativi adottati in applicazione dell'art. 7, della legge n. 39/1990. Il presente giudizio va pertanto sospeso, con conseguente invio degli atti alla Corte costituzionale.