IL PRETORE Alla udienza dibattimentale del 3 giugno 1994 con procedimento penale a carico di: Marani Clarisca, Tosarelli Vittorio e Tosarelli Andrea imputati ciascuno: del reato p. e p. dall'art. 220, primo comma, r.d. 16 marzo 1942, n. 267, in relazione all'art. 49, r.d. cit., perche', essendo stati dichiarati falliti con sentenza 20 luglio 1989 tribunale di Bologna, si allontanavano dalla loro residenza senza il permesso del giudice delegato al fallimento ed in particolare: a) Marani Clarisca e Tosarelli Vittorio si allontanavano dalla loro residenza, per cinque giorni, nel mese di gennaio 1990 e nella seconda meta' del mese di giugno 1990 ed in quello di luglio 1990 vi si allontanavano dalla domenica al mercoledi' di ogni settimana; b) Tosarelli Andrea si allontanava dalla propria residenza, per viaggi all'estero, alla fine del 1989, nell'aprile del 1990 e nel giugno 1990. In Bologna, nelle epoche per ciascun imputato innanzi precisate. Rilevato che la difesa degli imputati ha sollevato la questione di costituzionalita' dell'art. 33 del c.d. L.F. e dell'art. 63 del c.p.p., in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione, ha pronunciato la seguente ordinanza. Sull'eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 63 del c.p. con riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, sentite le parti, osserva quanto segue in fatto e diritto. Il nuovo codice di procedura penale e' ispirato al principio della formazione in dibattimento delle prove orali (deposizioni testimoniali ed esame delle parti) limitando ad ipotesi specifiche e residuali la acquisizione ed utilizzazione di verbali di deposizioni testimoniali e di interrogatori dell'imputato formati al di fuori del dibattimento. Quanto poi alla possibilita' di acquisizione ed utilizzazione delle dichiarazioni di una persona attraverso la deposizione testimoniale di un terzo deve osservarsi che la testimonianza indiretta trova specifici limiti nella disciplina dell'art. 195 del c.p.p. Con riferimento alle dichiarazioni rese dall'imputato l'art. 62 del c.p.p. precisa che le dichiarazioni comunque rese nel corso del dibattimento dall'imputato o dalla persona sottoposta alle indagini non possono formare oggetto di testimonianza e l'art. 63 del c.p.p. che se una persona non imputata o indiziata rende all'autorita' giudiziaria o alla polizia giudiziaria dichiarazioni da cui emergono indizi di reita' a suo carico deve essere interrotto l'esame, avvertito che possono essere svolte indagini nei suoi confronti e invitato a nominare un difensore e che le precedenti dichiarazioni non possono essere utilizzate a fine di prova (ma solo quale notizia di reato). Da tale disciplina si ricava che, ferma restando l'applicazione dell'art. 62 del c.p.p., se una persona riferisce ad un terzo fatti costituenti reato questi possono essere riferiti in sede testimoniale (non si tratta infatti di una ipotesi di testimonianza indiretta), se invece li riferisce all'autorita' giudiziaria o alla polizia giudiziaria, in qualunque sede cio' avvenga, deve trovare applicazione l'art. 63 citato. Tale differenza nasce dal fatto che ben diversa e' l'ipotesi in cui un soggetto si confidi con un terzo riferendogli volontariamente, al di fuori di un obbligo giuridico e in una situazione di normalita' fatti costituenti reato, dell'ipotesi in cui cio' avvenga nell'ambito di una situazione di obbligo giuridico o comunque nell'ambito di situazioni in cui la persona venga in contatto per motivi d'ufficio con soggetti qualificati che rivestono la qualifica di p.u. Cio' premesso in via generale si pone il problema della possibilita' che il curatore fallimentare riferisca in sede testimoniale fatti costituenti reato riferitegli dal fallito in sede di interrogatorio o comunque esame dello stesso da parte del curatore. Tale problema e' gia' stato affrontato dalla Corte costituzionale che ha ritenuto manifestamente infondata la questione che le era stata sottoposta sul presupposto dell'inutilizzabilita' in sede penale quali prove delle dichiarazioni indizianti rese dal fallito al curatore (v. sent. Corte costituzionale 14 marzo 1984, n. 69), ma tale pronuncia si riferiva alla situazione esistente all'epoca del previgente codice di procedura penale. L'attuale codice invece sembra consentire la deposizione testimoniale del curatore sulle dichiarazioni del fallito non potendo trovare applicazione neppure in via analogica ne' l'art. 62 del c.p.p., che si riferisce alle dichiarazioni rese nell'ambito del procedimento, ne' l'art. 63 del c.p.p. che si riferisce solo alle dichiarazioni rese all'autorita' giudiziaria e alla polizia giudiziaria. In tal modo le dichirazioni rese al curatore vengono equiparate a quelle rese liberamente, in una normale situazione e in assenza di un obbligo giuridico ad un terzo, ma cosi' non e' perche' il curatore e' pubblico ufficiale, ausiliario del giudice, le dichiarazioni sono rese nell'ambito di un procedimento giudiziario e soprattutto il fallito ha l'obbligo di presentarsi quando il curatore lo chiama (art. 49 legge fallimentare) evidentemente al fine di fornire chiarimenti e dare la propria collaborazione. La questione prospettata non appare quindi manifestamente infondata perche' risponde ad un principio generale che non possono essere utilizzati in sede penale come mezzo di prova contro una persona dichiarazioni da lui rese ad un pubblico ufficiale nell'ambito di comportamenti dovuti, al di fuori di ogni garanzia difensiva. Vi e' una sostanziale omogeneita' di situazione fra le dichiarazioni rese da una parte al giudice civile in sede di interrogatorio formale e quelle rese dal fallito al curatore nell'ambito e con riferimento alla procedura fallimentare, nel primo caso e' pero' applicabile l'art. 63 del c.p.p. (che parla genericamente di autorita' giudiziaria con espressione onnicomprensiva e quindi anche in sede civile) nel secondo no. Si prospetta quindi il problema della illegittimita' costituzionale dell'art. 63 del c.p.p. con riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione nella parte in cui non ricomprende il curatore fallimentare fra i soggetti indicati nel primo comma di tale norma quali destinatari delle dichiarazioni indizianti di una persona non imputata o non indiziata. La questione e' poi rilevante nella fattispecie perche' la prova del reato di cui agli artt. 49 e 220 legge fallimentare si fonda sulla deposizione testimoniale del curatore e sui verbali di dichiarazioni rese a quest'ultimo dagli imputati, verbali che non possono rientrare nella previsione di cui all'art. 237 del c.p.p. (trattandosi nella sostanza di verbali di dichiarazioni rese dal fallito al curatore nell'ambito della procedura fallimentare a seguito di "chiamata" ex art. 49 legge fallimentare e di specifiche domande fatte dal curatore) e la cui utilizzabilita' sarebbe quindi esclusa nell'ipotesi di accoglimento dell'eccezione di illegittimita' costituzionale in oggetto quanto meno perche' rese senza l'avviso e l'invito di cui all'art. 63 del c.p.p.