IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
    Letta   l'istanza   di  rimessione  in  liberta'  salva  eventuale
 applicazione di misura cautelare diversa dalla custodia  in  carcere,
 presentata  dal dott. proc. Paola Perello del foro di Ivrea difensore
 di Santoro Domenico, nato a Capua il 6 ottobre 1960;
    Visto il parere del pubblico ministero che ha sollevato  questione
 di  legittimita' costituzionale dell'art. 2 del d.l. 14 luglio 1994,
 n. 440, la cui applicazione e' invocata nell'istanza;
    Considerato che il Santoro e' attualmente  detenuto  solo  per  il
 delitto   di   ricettazione,   a  seguito  di  ordinanza  pronunciata
 all'udienza di convalida del fermo, in quanto e' scaduto  il  termine
 di carcerazione per le imputazioni in materia di armi;
    Letto il d.l. 14 luglio 1994, n. 440;
    Ritenuto  che, ai sensi e per gli effetti dell'art. 2 del d.l. 14
 luglio 1994, n. 440, dovrebbe essere revocata, ovvero sostituita  con
 gli  arresti  domiciliari,  la  misura  cautelare  della  custodia in
 carcere nei suoi confronti;
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
                             O S S E R V A
    Le   argomentazioni   del   pubblico   ministero    quanto    alla
 illegittimita'  costituzionale  dell'art. 2 del d.l. 14 luglio 1994,
 n. 440, debbono essere condivise; in effetti la  norma  in  questione
 presenta   numerosi  profili  di  illegittimita'  che  qui  sotto  si
 riassumono:
      1)  in  primo  luogo,  e'  stato   violato   l'art.   77   della
 Costituzione, nella parte in cui prevede che, in casi straordinari di
 necessita'   e   d'urgenza,   il   Governo   adotta,   sotto  la  sua
 responsabilita', provvedimenti provvisori con forza di legge.
    Appare invero difficile ravvisare la sussistenza dei requisiti  di
 necessita'  e  di urgenza richiesti dalla Costituzione in una materia
 che  e'  stata  oggetto  di  approfondita  indagine  ed  elaborazione
 dottrinale,  sfociate  nella redazione del codice di procedura penale
 del 1988 e che, da  allora,  e'  stata  costantemente  analizzata  ed
 approfondita.
    La  carenza di tali requisiti appare evidente ove si consideri che
 " .. la necessita' rappresenta un elemento  di  qualificazione  delle
 fattispecie  regolate,  da non confondere, dunque, con l'opportunita'
 politica dell'atto anche se al Governo compete  la  scelta  del  come
 fronteggiare  ciascun  caso.    ..  l'urgenza  non equivale alla mera
 speditezza e non  si  risolve  nel  fatto  che  per  il  Governo  sia
 difficile  vedere  altrimenti  approvate  le  proprie  proposte"  (L.
 Paladin - La formazione delle Leggi - Commentario della  Costituzione
 a cura di G. Branca - Tomo II - Zanichelli 1979 pag. 56).
    E'  innegabile  che  il  decreto-legge  in questione si fa carico,
 all'art. 6, da correlare con l'art. 14, di affrontare un problema che
 riveste oggettivo carattere  di  necessita'  ed  urgenza,  quello  di
 evitare  che  reati  anche  gravi  si prescrivano poiche' le relative
 udienze non possono essere tenute per effetto delle manifestazioni di
 protesta degli avvocati difensori, situazione recentemente emersa  in
 maniera  inequivoca e prepotente; e' anche vero pero' che l'occasione
 e' stata poi utilizzata dal Governo per emanare un atto avente  forza
 di  legge,  destinato  in  realta' ad apportare profonde modifiche al
 codice di procedura penale, funzionali in buona sostanza ad  impedire
 la  sottoposizione  alla custodia cautelare in carcere degli indagati
 per i reati previsti dal libro secondo, titolo secondo,  capo  primo,
 del  codice  penale, nonche' degli indagati per reati di criminalita'
 economica.
    A prescindere dalla gravita' delle conseguenze processuali di tale
 scelta, su cui  si  tornera'  in  seguito,  e'  necessario  di  nuovo
 ricordare l'autorevole dottrina piu' sopra citata nella parte in cui,
 trattando  dei  c.d.  decreti  di  riforma,  espone:  "E'  quantomeno
 opinabile che simili atti corrispondano,  nel  complesso  delle  loro
 disposizioni,  a  'casi  straordinari  di necessita' e d'urgenza'. In
 concreto, attorno ad un nucleo costituito da una decisione  realmente
 urgente  ..  il  Governo  progetta  ed erige interi edifici normativi
 destinati  a  durare  nel   tempo,   sottraendoli   al   procedimento
 legislativo ordinario senza che lo imponga nessuna ragione oggettiva"
 (op. cit. pag. 61);
      2)  l'art.  del  d.l.  n. 440/1994 comporta "una ingiustificata
 limitazione della funzione giurisdizionale e della tutela dei diritti
 costituzionalmente garantiti (non esclusi i diritti delle vittime del
 reato)" (sentenza Corte costituzionale n. 255/1992).
    In realta',  la  Costituzione  prevede  "strumenti  giuridici  che
 integrino  un  processo  'giusto'  ma  al contempo non impediscano al
 giudice  la  piena  cognizione  del  fatto  reato  per  la  effettiva
 attuazione della legge che ha il dovere di applicare" (sentenza Corte
 costituzionale  n.  255/1992);  ne'  possono  essere  introdotte  dal
 legislatore " .. limitazioni di tale entita' da privare di  efficacia
 la legge penale sostanziale, cosi' violando il diritto costituzionale
 di  azione,  svuotando la peculiare funzione del giudice penale e, in
 sostanza,  privando  di  effettiva  tutela  i   diritti   inviolabili
 riconosciuti  dalla  Costituzione e salvaguardati dalla legge penale"
 (sentenza Corte costituzionale n. 255/1992).
    Le osservazioni della corte  d'assise  di  Bari,  riassunte  nella
 sentenza   della  Corte  costituzionale  citata,  sono  assolutamente
 pertinenti alla  fattispecie  oggetto  della  presente  eccezione  di
 illeggittimita':  invero gli artt. 273 e 274 del c.p.p. costituiscono
 un'organica disciplina rivolta alla  mediazione  tra  la  tutela  dei
 diritti   del   singolo   indagato,   la  tutela  dei  diritti  della
 collettivita' e  le  necessita'  processuali  volte  all'accertamento
 della verita'.
    Nel  quadro  di  tale  organica  disciplina  il  legislatore aveva
 ritenuto di sottrarre alla teorica  possibilita'  che  la  misura  di
 custodia  cautelare  in carcere venisse applicata all'indagato quelle
 fattispecie caratterizzate da un ridotto contenuto  di  offensivita',
 quale  desumibile  dalla  pena  edittale  legalmente  prevista, unico
 oggettivo criterio di valutazione della gravita' del reato;  e  cosi'
 l'art.  280 del c.p.p. prevedeva la teorica possibilita' di applicare
 la custodia cautelare in carcere solo  per  i  reati  puniti  con  la
 reclusione superiore nel massimo a tre anni.
    Si  vede  bene come il criterio differenziatore tra le fattispecie
 che consentivano la custodia cautelare in carcere e quelle che non la
 consentivano era dato unicamente dalla scelta preventiva di  gravita'
 operata   dal   legislatore  con  criteri  generali  di  immediata  e
 percepibile oggettivita'.
    La  situazione  conseguente  all'entrata in vigore dell'art. 2 del
 d.l. n. 440/1994 e' invece  caratterizzata  dalla  sottrazione  alla
 teorica  possibilita'  di  applicazione  della misura cautelare della
 custodia in carcere  di  numerosi  reati  puniti  con  pena  edittale
 superiore  nel  massimo a tre anni, senza che sia dato comprendere le
 ragioni che hanno consigliato  tale  disparita'  di  trattamento.  In
 effetti  certamente  non  puo'  parlarsi di minore gravita' dei reati
 "privilegiati" dalla norma in questione, non tanto perche' taluni  di
 essi  sono  all'evidenza piu' "gravi" di altri per cui la custodia in
 carcere e' ancora consentita (si pensi al reato di cui  all'art.  317
 del  c.p. rispetto a quello di cui all'art. 624 del c.p.), ma perche'
 la pena edittale tuttora  prevista  per  i  reati  "privilegiati"  e'
 superiore  a quella prevista per altri reati che ancora consentono la
 custodia in carcere (cfr. 336, 343, 385, 410, 411 e 530 del c.p.).
    Resta il fatto che le esigenze previste e tutelate  dall'art.  274
 del c.p.p. sono certamente in teoria ravvisabili, ed anzi sono spesso
 sussistenti  nella  pratica,  anche  per  i  reati "privilegiati"; ne
 risultano  quindi  certamente  violati  gli  artt.  2  e  112   della
 Costituzione,  nella  misura in cui la impossibilita' di garantire la
 "acquisizione o genuinita' della prova"  (art.  274,  lett.  a),  del
 c.p.p.)  nonche'  evitare  che  gli  indagati  commettano "delitti di
 criminalita' organizzata o della stessa specie di quello per  cui  si
 procede"   (art.   274,  lett.  c),  del  c.p.p.)  si  risolve  nella
 impossibilita' di garantire i diritti inviolabili dei  cittadini  (ad
 esempio  le parti offese presenti e future) e nella impossibilita' di
 esercitare l'azione penale,  che  potrebbe  essere  vanificata  dalla
 evanescenza  del  materiale  probatorio, conseguente all'inquinamento
 realizzato dagli indagati;
      3) l'art. 2 del d.l. n. 440/1994  e'  in  contrasto  anche  con
 l'art.  3  della  Costituzione,  poiche' esso sottopone a trattamento
 ingiustificatamente piu'  favorevole  indagati  per  reati  che,  ope
 legis,  sono considerati piu' gravi di altri, per i quali e' tuttavia
 previsto un trattamento meno favorevole.
    In altri termini non appare  ragionevole  che  non  sia  possibile
 applicare la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti
 di un indagato per il reato di cui all'art. 317 del c.p., punito fino
 a  dodici anni di reclusione, mentre tale teorica possibilita' esiste
 per l'indagato del reato di cui all'art. 530  del  c.p.,  punito  con
 pena massima di tre anni di reclusione, pena tra l'altro inferiore al
 limite edittale previsto dall'art. 280 del c.p.p.
    Vanno  qui  ricordate le argomentazioni piu' sopra esposte circa i
 criteri  oggettivi  di  valutazione  della  gravita'  delle   singole
 fattispecie penali, il che vale a superare la possibile obiezione che
 il  legislatore  puo'  e  anzi deve trattare in maniera differenziata
 situazioni disuguali, nel senso naturalmente in cui a situazione piu'
 grave deve corrispondere  trattamento  meno  favorevole:  infatti  la
 valutazione della gravita' della fattispecie non puo' derivare da una
 valutazione  politica contingente del legislatore (tantomeno espressa
 con un decreto-legge dell'esecutivo) ma deve  trovare  fondamento  in
 un'organica  e  coerente previsione sanzionatoria propria dell'intero
 ordinamento penale.
    La disparita' di trattamento emerge  dunque  dalla  violazione  di
 criteri  oggettivi  preposti  alla  valutazione  della gravita' delle
 fattispecie.
    Ma vi e' di piu': poiche', se si entra nel merito delle scelte op-
 erate  dal  legislatore, non e' chi non veda come esse sono contrarie
 ad ogni principio di ragionevolezza.
    E' invero difficile sostenere  che  reati  come  il  peculato,  la
 concussione,    la   corruzione,   l'omissione   dolosa   di   misure
 antinfortunistiche,  il  falso  in  bilancio,   la   frode   fiscale,
 l'emissione  di  fatture  per  operazioni inesistenti, la bancarotta,
 siano fattispecie meno gravi del furto, della resistenza  a  pubblico
 ufficiale, della corruzione di minorenne, del vilipendio di cadavere;
 e  pero'  per  i primi non e' piu' possibile assicurarsi che le prove
 non siano inquinate, che l'indagato non  fugga  e  che  non  commetta
 ulteriori reati; la' dove cio' e' tuttora consentito per i secondi;
      4) ne' tutte queste considerazioni sono scalfite dalla possibile
 obiezioni  che, anche per i reati "privilegiati", rimane possibile il
 ricorso alla misura cautelare degli arresti domiciliari.
    Invero va in primo luogo affermato senza ipocrisie che  la  misura
 cautelare  degli  arresti  domiciliari  e'  in  genere  inadeguata ad
 assicurare le cautele di cui all'art. 274 del c.p.p.
    E' fin troppo noto come vi sia l'assoluta concreta  impossibilita'
 di  controllare  che  essi vengano osservati dall'indagato; e d'altra
 parte e' certo che l'eventuale divieto di comunicazione con l'esterno
 e' sistematicamente aggirato con l'uso di non controllabili  telefoni
 cellulari.
    Inoltre  l'inadeguatezza  degli  arresti  domiciliari  e'  massima
 proprio in relazione ai reati "privilegiati", per i  quali  l'art.  2
 del   d.l.  n.  440/1994  ne  prevede  teoricamente  l'applicazione;
 infatti, se puo' avere un senso inibire la consumazione di  ulteriori
 reati a rapinatori, ladri, assassini et similia che, per commetterli,
 debbono  necessariamente  operare  sul territorio; non ha alcun senso
 ritenere che concussori, corruttori, ideatori di falsi  in  bilancio,
 di  frodi  fiscali  e di bancarotte, siano impediti dal progettare ed
 eseguire i loro disegni criminosi solo perche' sono costretti tra  le
 comodita'  della  loro abitazione; dove, com'e' ovvio, disporranno di
 adeguati mezzi di comunicazione idonei a  trasmettere  all'esterno  i
 loro propositi criminosi.
    In  ogni  modo,  prescindendo  dalla  valutazione  della  concreta
 efficacia di un istituto  che  ha  stabile  cittadinanza  nel  nostro
 ordinamento e che in taluni casi puo' anche essere adeguato, resta il
 fatto  assorbente  che la violazione delle norme costituzionali sopra
 citate  e'  pienamente  integrata  anche  con  riferimento  a  questa
 situazione; in effetti risulta impossibile, in base alla nuova norma,
 valutare  la  concretezza  adeguatezza  degli  arresti domiciliari ad
 assicurare le cautele di cui all'art. 274 del  c.p.p.  nel  caso  dei
 reati "privilegiati".
    In  altri  termini, per questi reati, e' irragionevolmente vietato
 al giudice quel giudizio, pur imposto dall'art. 275, primo comma, del
 c.p.p.; nonostante l'eventuale giudizio di inadeguatezza in  concreto
 cui   si  pervenga,  e'  sottratta  al  giudice  la  possibilita'  di
 assicurare il corretto svolgersi  del  procedimento  e  di  garantire
 pertanto  sia  la  tutela dei diritti fondamentali delle parti offese
 (presenti e future) sia l'esercizio dell'azione penale.
    Tutto cio', si ripete, senza alcuna giustificazione  attinente  ad
 una  supposta  minor  gravita'  delle fattispecie i cui indagati sono
 cosi'  gratificati;  ed  anzi  in   violazione   del   principio   di
 ragionevolezza, poiche' si assicura una maggiore tutela, cui consegue
 sostanzialmente  l'impunita',  proprio  agli  indagati per reati piu'
 gravi;
 legittimita' costituzionale, vale forse la  pena  di  evidenziare  la
 serie  di incongruenze e vistosi errori tecnici in cui il legislatore
 del d.l. n. 440/1994 e' caduto.
     A)  L'art.  2  del  d.l.  citato,  sostituendo  il  terzo  comma
 dell'art.  275  del  c.p.p.,  ne  mantiene  la  formula  iniziale "la
 custodia cautelare in carcere puo' essere  disposta  soltanto  quando
 ogni altra misura risulti inadeguata".
    Segue  la  divisione  dei  reati,  per  i  quali  e'  teoricamente
 consentita la custodia cautelare in carcere, in due categorie, quella
 prevista alla lett. a) e quella prevista alla lett. b)  dello  stesso
 terzo comma novellato.
    Il problema consiste nel fatto che, in calce alla lett. b) compare
 la  previsione  "a  meno che le esigenze cautelari non possano essere
 soddisfatte con altre misure" che e' evidentemente riferita a  questa
 seconda   categoria   di   reati  e  che  ne  costituisce  l'elemento
 specializzante.
    Tuttavia la previsione in questione ha contenuto del tutto analogo
 a quella posta all'inizio  del  terzo  comma  novellato,  piu'  sopra
 riportata per esteso, che pero', posta com'e' all'inizio della norma,
 ha  valore evidentemente per entrambe le categorie indicate nel comma
 stesso, sia quella di cui alla lett. a) che quella di cui alla  lett.
 b). Ne consegue l'assoluta inutilita' della previsione posta in calce
 alla lett. b).
    E'  possibile  che il legislatore intendesse adottare, per i reati
 previsti alla lett. a) del terzo comma novellato  dell'art.  275  del
 c.p.p.,  l'istituto  una volta previsto nel terzo comma dell'art. 275
 vigente prima dell'attuale modifica; se cosi' e',  bisogna  dire  che
 l'intenzione  gli  e'  rimasta  nella  penna  e che il regime attuale
 prevede  la  vigenza  del  principio  di  adeguatezza  delle   misure
 cautelari  per  tutti  i reati previsti dal terzo comma dell'art. 275
 novellato, e non solo per quelli di cui alla lett. b).
     B) Ulteriori incongruenze emergono dal tenore del comma  3-  bis,
 aggiunto all'art. 275 del c.p.p. dall'art. 2 del d.l. n. 440/1994.
    Il  comma  3-  bis autorizza la misura cautelare della custodia in
 carcere solo per i delitti previsti nel terzo comma novellato  e  per
 quelli previsti dall'art. 380 del c.p.p.
    Il   problema  consiste  nel  fatto  che  l'art.  380  del  c.p.p.
 considera, tra i reati per cui e' obbligatorio l'arresto in flagranza
 (per i quali dunque e' possibile  disporre  la  custodia  in  carcere
 proprio  in  base al comma 3- bis), quelli di cui agli artt. 628, 629
 del c.p. e 73 del d.P.R. n. 309/1990 anche nella forma non aggravata;
 fattispecie questa esclusa invece dalla  lett.  b)  del  terzo  comma
 novellato dell'art. 275 del c.p.p.
    E'  auspicabile  che  il  legislatore  chiarisca quantomeno questa
 incongruenza;
      6) i reati per cui e' stata emessa ordinanza  applicativa  della
 custodia  cautelare  in  carcere  nel  presente procedimento non sono
 compresi fra quelli per i quali l'art. 2 del d.l. 14 luglio 1994, n.
 440, consente tale misura.
    Tuttavia  ogni  altra  misura,  ivi  compresa quella degli arresti
 domiciliari, sarebbe inadeguata, avuto riguardo alla probabilita'  di
 commissione  di  altri fatti della stessa specie di quello per cui si
 procede e al pericolo che l'indagato commetta gravi delitti  con  uso
 di  armi, tenuto conto della pericolosita' dimostrata dal consistente
 numero di armi anche clandestine, da lui illegittimamente detenute  e
 portate in luogo pubblico.
    Il  reato  per cui si procede appare certamente piu' grave, sia in
 concreto sia con riferimento alla pena edittale,  rispetto  ad  altri
 per  i  quali la nuova formulazione dell'art. 275 del c.p.p. consente
 la custodia cautelare in carcere.
    Ne consegue che la questione di legittimita' costituzionale  sopra
 esaminata  e'  rilevante  nel  procedimento in questione perche', ove
 l'art. 2 del d.l.  n.  440/1994  venisse  espunto  dall'ordinamento,
 l'indagato  resterebbe  soggetto  alla  custodia cautelare in carcere
 mentre questa dovrebbe cessare nella vigenza della norma denunciata.
    La rilevanza sussiste tanto piu' in quanto, conformemente a quanto
 previsto dall'art. 23, secondo comma, della legge 11 marzo  1953,  n.
 87,   il   giudizio  sulla  revoca  della  misura  cautelare  imposta
 all'indagato  va  sospeso,  con  la  conseguenza  che  lo  stato   di
 carcerazione  dei  medesimi  permane fino alla fisiologica decorrenza
 dei termini previsti  dall'art.  303  del  c.p.p.  oppure  fino  alla
 decisione di codesta Corte, ove giunga tempestivamente.
    Questa  decisione pare confortata dai principi esposti dalla Corte
 di cassazione con sentenze 02090 del 7 luglio 1992, sezione sesta,  e
 04211  del  3  dicembre  1993,  sezione  prima, principi che appaiono
 applicabili al caso di specie.