IL PRETORE
   Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa civile iscritta in
 primo  grado al n. 9171/93 R.G. promossa da Angerame Lucia, residente
 in Villafranca Piemonte, Borgo Soave n. 17, elettivamente domiciliata
 in Torino,  via  A.  Saffi  n.  9-bis,  presso  lo  studio  dell'avv.
 Alessandro Peyretti, che la rappresenta e difende per delega 7 luglio
 1993  a  margine  dell'atto  di  citazione, attrice, contro Di Ciommo
 Luciano, residente  in  Torino,  corso  Grosseto  n.  221,  convenuto
 contumace  e  contro  Alpi  Assicurazioni  S.p.a., in persona del suo
 legale rappresentante pro-tempore, corrente in Milano,  via  Piranesi
 n.  34,  elettivamente  domiciliata in Torino, via Groscavallo n. 15,
 presso lo studio dell'avv. Alfredo Giordano,  che  la  rappresenta  e
 difende  unitamente  all'avv.  Bajona del foro di Milano per delega 3
 maggio 1994 in calce alla copia notificata  dell'atto  di  citazione,
 convenuta.
                               F A T T O
    Nella   causa  civile  iscritta  al  suindicato  numero  di  R.G.,
 intentata davanti al pretore di Torino da Angerame  Lucia  contro  Di
 Ciommo  Luciano  e la Alpi Assicurazioni S.p.a. per poter ottenere il
 risarcimento dei danni da responsabilita' civile per circolazione  di
 veicoli, conseguente ad uno scontro stradale, avvenuto in San Secondo
 di  Pinerolo il 5 agosto 1992, all'udienza del 4 maggio 1994 e' stato
 intimato come teste ed e' comparso per rendere la sua  testimonianza,
 il  sig.  Rosano  Gianni, il quale ammonito dal pretore a prestare il
 giuramento secondo la formula dell'art. 251 secondo comma del c.p.c.,
 si e' rifiutato di giurare, perche' le sue convinzioni religiose  gli
 impedivano di prestare il giuramento.
    La testimonianza non fu quindi assunta e l'udienza fu rinviata.
    All'udienza  successiva  del 13 luglio 1994 il pretore assumeva la
 causa a riserva.
                             D I R I T T O
    La formula del giuramento che il giudice deve leggere al testimone
 prima che questo prestasse testimonianza  era  la  medesima  sia  nel
 processo  civile  (art.  251,  secondo  comma,  del  c.p.c.)  sia nel
 processo penale (artt.  449,  secondo  comma,  e  142,  primo  comma,
 abrogato  c.p.p.)  fino a quando non e' stato emanato, con d.P.R.  22
 settembre 1988, n. 447, il nuovo c.p.p. che ha  previsto  con  l'art.
 417  una  norma  senza  ammonizione  del  teste  e  una  formula  del
 giuramente priva di riferimenti religiosi.  Infatti  al  riguardo  la
 Corte  costituzionale,  con  sentenza  10  ottobre  1979,  n. 117 nel
 dichiarare, per  contrasto  con  l'art.  19  della  Costituzione,  la
 parziale  incostituzionalita' dell'art. 251 secondo comma del c.p.c.,
 estese, ai  sensi  dell'art.  27  legge  11  marzo  1953,  n.  87  la
 declaratoria  di  incostituzionalita' agli artt. 449, secondo comma e
 142, primo comma, dell'allora vigente c.p.p., parificando comunque le
 due formule di giuramento, perche' identici erano gli scopi a cui  il
 legislatore  tendeva e raggiungeva nel processo con il giuramento del
 teste (un maggior  sprono  verso  il  teste  a  dire  la  verita')  e
 identiche  le  conseguenze  sul piano penale, cioe' la previsione del
 delitto di cui all'art. 366 del c.p. per chi si rifiuta di giurare.
    Tuttavia la formula di giuramento con l'aggiunta delle parole  "se
 credente"  dopo  l'ammonimento  al  teste  sull'importanza  religiosa
 dell'atto e dopo le  parole,  da  rivolgere  dal  giudice  al  teste,
 "consapevole  della  responsabilita'  che  con il giuramento assumete
 davanti a Dio", cosi' come si e'  delineata  nel  nostro  ordinamento
 dopo la sentenza n. 117/1979 non poteva evitare il problema di vedere
 esclusa  dal  processo la testimonianza di coloro che per convinzioni
 religiose si rifiutano di prestare giuramento e comunque di  evitare,
 a chi sta per prestare la testimonianza, quei turbamenti di coscienza
 perche'  comunque  non  crede  alla  sacramentalita'  del giuramento,
 comunque prestato.
   Al riguardo e' stato osservato in dottrina che: "la Corte,  in  tal
 modo,   risolveva   il   problema  dell'obbiezione  di  coscienza  al
 giuramento dei soli testimoni  non  credenti,  non  anche  di  quelli
 credenti  che  per  motivi  di  fede  e/o  in  adesione  ai  principi
 ideologici della propria confessione religiosa, ricusino di  prestare
 giuramento   a)  con  qualunque  formula  b)  con  una  formula  come
 l'attuale, contenente un esplicite riferimento alla divinita'".
    Infatti, i succennati problemi si sono ripresentati nella  pratica
 giudiziaria,  tant'e'  che  a varie ordinanze di riproposizione della
 questione di  costituzionalita'  sulla  formula  del  giuramento  nel
 processo,  le  quali  auspicavano  una  completa  "laicizzazione" del
 giuramento con parole equivalenti quali "prometto, mi  impegno  etc."
 la  Corte  costituzionale,  con  sentenza 30 luglio 1984, n. 234, nel
 dichiararle inammissibili, rispondeva che:  "l'obbiettivo  perseguito
 dalle   ordinanze   di   remissione  sarebbe,  dunque,  raggiungibile
 unicamente attraverso integrazioni e variazioni  della  normativa  in
 vigore   strettamente   dipendenti   da   una  pluralita'  di  scelte
 discrezionali inviduabili dal solo legislatore".
    Orbene sembra a questo giudice che nel vigente ordinamento, almeno
 per quanto riguarda il processo penale, il legislatore ha operato  la
 sua  scelta  nel  dettare con l'art. 497, secondo comma del c.p.p. la
 norma sulle modalita' di avvertire il teste sull'importanza giuridica
 dell'atto che sta per prestare e avente ad oggetto la  seguente  for-
 mula di impegno, da parte del teste, scevra da riferimento religioso:
 "Consapevole  della responsabilita' morale e giuridica che assumo con
 la mia deposizione, mi impegno a  dire  tutta  la  verita'  e  a  non
 nascondere nulla di quanto e' a mia conoscenza".
    Ritiene  questo  giudice a quo che l'attuale mancata previsione da
 parte del legislatore, anche nel processo civile, di una  formula  di
 impegno  del  teste e dire la verita' indentica a quella del processo
 penale,  determina  un  contrasto  con  gli  artt.  19  e  24   della
 Costituzione  del  testo  vigente  dell'art.  252,  secondo comma del
 c.p.c., perche' non garantisce, in  contrasto  con  l'art.  19  della
 Costituzione  la liberta' di coscienza 1) a colui che pur credente e'
 impedito  dal suo credo religioso di prestare comunque il giuramento,
 2) a coloro che, pur credenti, non hanno, come punto  il  riferimento
 nella  loro  religione,  la  stessa divinita', cui fa riferimento nel
 processo il legislatore, 3) a coloro che,  in  quanto  non  credenti,
 sono  costretti  comunque  a  fare riferimento a formule sacramentali
 quali il giuramento (con potenzialita' di creare conflitti di lealta'
 tra  doveri  del  cittadino  e  fedelta'  alle  convinzioni  del  non
 credente).
    La  stessa  norma dell'art. 251 secondo comma del c.p.c. sembra in
 contrasto con  l'art.  24  della  Costituzione  perche'  finisce  con
 l'escludere   dal   processo  la  testimonianza  di  coloro  che  per
 convinzioni religiose non possono giurare e, quindi, testimoniare.
    E cio' determina una irragionevole compressione del  diritto  alla
 prova,  nucleo  essenziale  del  diritto  di  azione e difesa, di cui
 all'art. 24 della Costituzione (cfr. sent.  Corte  costituzionale  n.
 248/1974).
    Appare  a  questo  giudice  a quo che l'art. 251 secondo comma del
 c.p.c. sia da ritenere in contrasto con  gli  artt.  19  e  24  della
 Costituzione  nella  parte  in  cui prevede che il giudice istruttore
 ammonisce  il  teste  "sull'importanza   religiosa   e   morale   del
 giuramento"  "se  credente"  nella  parte in cui prevede come formula
 "consapevole della responsabilita' che  con  il  giuramento  assumete
 davanti  a  Dio  (se  credente)  e  agli  uomini,  giurate di dire la
 verita', null'altro che la verita'"  e  non  prevede  che  il  teste,
 invitato  dal  giudice  debba  pronunciare la seguente dichiarazione:
 "Consapevole della responsabilita' morale e giuridica che assumo  con
 la  mia  deposizione,  mi  impegno  a  dire  tutta la verita' e a non
 nascondere nulla di quanto e' a mia conoscenza" e nella parte in  cui
 prevede che il testimone pronuci le parole "lo giuro".
    La  questione  e'  rilevante nel presente processo, perche' questo
 giudice, dopo l'eventuale declaratoria di  incostituzionalita'  della
 norma  nel  senso  esposto,  puo'  sempre  richiamare il teste Rosano
 Gianni a testimoniare ex art. 257 del c.p.c. o puo'  sempre  sentirlo
 d'ufficio  ex  art.  317  del c.p.c. e pronunciare cosi' al teste una
 formula scevra da riferimenti religiosi.
    Inoltre, se a seguito della pronuncia favorevole di questa  Corte,
 tutti  i  testi  non  avessero  piu' l'obbligo di dire "lo giuro", il
 teste Rosano, oltre a risparmiarsi  le  conseguenze  penali  del  suo
 mancato  giuramento,  potrebbe  essere finalmente sentito ex art. 253
 del c.p.c., e la sua testimonianza non andrebbe perduta.