LA CORTE DI APPELLO Ha pronunciato la seguente ordinanza nel giudizio di revisione promosso da Bonomo Lorenzo, nato a Villa S. Stefano il 16 giugno 1946; Visti gli atti; Udite in pubblica udienza la relazione del consigliere dott. Carlino, nonche' le conclusioni del p.g. e della difesa; O S S E R V A Lorenzo Bonomo, dichiarato colpevole del reato di omicidio in danno di Rita di Girolamo nonche' di detenzione abusiva di armi e condannato dalla Corte di assise di appello di Roma alla pena di anni 16 e mesi quattro di reclusione, - decisione divenuta irrevocabile a seguito del rigetto del ricorso per Cassazione -, chiede la revisione della sentenza adducendo la sopravvenienza di elementi di prova che unitamente a una nuova valutazione delle emergenze istruttorie acquisite condurrebbero ad una pronuncia di assoluzione. Tale pronuncia a norma dell'art. 561 del codice di procedura penale del 1930 sarebbe stata devoluta alla competenza della Corte di assise di appello, posto che il procedimento di revisione si suddivideva in due fasi: la prima rescindente affidata alla Corte di cassazione, la seconda rescissoria attribuita "ad un altro giudice di primo grado o d'appello, secondo che la sentenza o le sentenze annullate furono pronunciate nell'uno o nell'altro grado". Il nuovo codice del 1988 ha modificato la procedura, unificando le due fasi, entrambe di competenza "della Corte d'appello nel cui distretto si trova il giudice che ha pronunciato la sentenza di primo grado o il decreto penale di condanna" (cfr. art. 633). Come affermato dalla suprema Corte, la nuova disciplina della revisione non consente l'innesto delle norme che regolano in via generale la competenza, ma attribuisce specifica competenza funzionale proprio alla Corte di appello, laddove il riferimento territoriale e' desumibile dalla sede del giudice di primo grado (cfr. Cass. sez. I, 4 maggio 1991, n. 1748). Conseguentemente nella fattispecie e' devoluta a questa Corte la competenza a pronunciarsi sulla revisione, posto che il giudice di primo grado e' stata la Corte di assise di Frosinone. In caso di accoglimento la stessa Corte di appello adita dovra' revocare la sentenza di condanna e pronunciare il proscioglimento, cosi' come dispone l'art. 637 del c.p.p. Siffatta previsione legislativa, che consente ad un collegio composto da soli giudici togati di sindacare alla luce delle nuove prove il complesso delle risultanze probatorie acquisite e valutate da un collegio composto anche da giudici laici, appare - come eccepito dal p.g. - essere in contrasto con il dettato costituzionale. Invero la Corte costituzionale e' stata gia' investita della questione, ma limitatamente alla dedotta violazione dell'art. 25 per il preteso contrasto con il principio del giudice naturale. La sollevata eccezione e' stata disattesa dalla ordinanza n. 375 del 23 luglio 1991, nel rilievo che l'organo giudicante e' stato istituito dalla legge sulla base di criteri generali prefissati - e non in relazione a singole fattispecie - e che i giudici di merito esauriscono nel corrispondente grado di giudizio la sfera di giurisdizione loro rispettivamente assegnata dall'ordinamento. Questa Corte ritiene, di contro, che la costituzionalita' degli artt. 633, 636 e 639 del c.p.p. debba essere esaminata sotto il profilo della irragionevolezza della statuizione e quindi in relazione all'art. 3 della Costituzione. Nell'ambito dei principi enunciati dal primo comma del citato articolo la dottrina ha posto in rilievo che "il legislatore sarebbe vincolato a non porre in essere discipline intimamente incoerenti e contraddittorie" e che "per riconoscere le disarmonie in parole occorre rifarsi agli scopi perseguiti dal legislatore" o "agli interessi che si sono voluti tutelare ed alla congruita' di tale tutela". La stessa dottrina ha anche evidenziato che vi e' "la esigenza (costituzionale) che il legislatore sviluppi il contenuto normativo di ogni disposizione, estenda la disciplina contenuta in essa a tutte le ipotesi in cui lo richiede la ratio che vi presiede". E' dunque necessario far riferimento alla ragionevolezza dello scopo perseguito dal legislatore per valutare la costituzionalita' della diversita' di regolamentazione tra situazioni consimili. Autorevolmente e' stato sottolineato che "puo' esservi inoltre necessita' di rapportare la norma denunciata unicamente con un principio generale, nel presupposto che essa distingua illegittimamente una situazione che avrebbe dovuto rimanere pur essa regolata da quel principio; oppure la comparazione puo' mancare di un secondo termine quando si deduce l'illegittimita' di una norma per la sua incompletezza, in quanto regola una fattispecie descritta in modo da escludere componenti che ne modificano la sostanza e da non permettere ingiustificatamente una protezione integrale o da non sanzionare senza ragione tutti gli atteggiamenti della fattispecie reale". Svolgendo i suindicati principi, la Corte costituzionale ha con il termine "ragionevolezza" specificato le condizioni che il legislatore deve rispettare, pervenendo - in taluna pronuncia - ad usare anche la terminologia di "eccesso nello svolgimento del potere discrezionale del legislatore". Il requisito della "idonea ragione" e quelli del "ragionevole motivo", dell'assenza di "arbitrarieta'", di "presupposti logici obiettivi", del limite della ragionevolezza sono stati richiesti dalla Corte costituzionale sin dalla sentenza n. 46 del 1959 e ripetutamente. La stessa Corte nella sentenza n. 54 del 1968 considera ai fini del giudizio di razionalita' la funzione, lo scopo della norma nonche' gli interessi che la stessa mira a tutelare. Esaminando sotto tali aspetti il disposto degli artt. 633, 636 e 639 del c.p.c. - che recepiscono le direttive di cui all'art. 2, n. 99, della legge di delega legislativa al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale (legge 16 febbraio 1987, n. 83) - devesi preliminarmente porre in evidenza che la giurisdizione penale e' ripartita in considerazione dell'indole o della gravita' del reato e che proprio al criterio qualitativo e' improntata la devoluzione alla Corte di assise di determinati delitti, compreso l'omicidio. La presenza in questa di membri laici garantisce la partecipazione diretta del popolo all'amministrazione della giustizia, secondo le formalita' dell'art. 102, terzo comma, della Costituzione e risponde a precise motivazioni di carattere politico. Per siffatta composizione e finalita' la Corte di assise costituisce un organo giurisdizionale autonomo e non una sezione specializzata del tribunale della stessa sede in cui e' istituita (cfr. Cass. sez. I, 27 aprile 1987, n. 1107). Appare pertanto illogico ed irragionevole che il giudizio di revisione - che sostanzialmente investe gli stessi fatti, pur valutati alla scorta di nuove prove - sia devoluto alla competenza della Corte di appello in luogo della Corte di assise di appello. Ne' vale rilevare che la richiesta di revisione costituisce un mezzo di impugnazione di natura straordinaria perche' mira a forzare la res iudicata; ne' appare esaustivo affermare come estranea al tema la ripartizione delle competenze fra i diversi giudici di merito. Non puo' revocarsi in dubbio che nel caso in esame vengono sottratte al giudizio della componente laica - che il legislatore ha chiamato ad integrare il collegio - elementi di prova di tale rilevanza da determinare l'assunto proscioglimento dell'imputato; che la Corte di appello priva della presenza popolare deve riesaminare - anche se unitamente a nuovi - fatti gia' vagliati dal precedente giudice "naturale" ed in ipotesi modificarne le conclusioni, revocando la condanna e prosciogliendo. Giova anche sottolineare come la competenza indistintamente attribuita alla Corte di appello consenta a strategie difensive - volte a vanificare, nei casi di delitti di particolare allarme sociale, il giudizio della c.d. giuria - di riservare artatamente alla fase di revisione l'indicazione di prove, confidando nella mancata presenza della componente laica. Sussistono quindi a giudizio della Corte di appello di Roma elementi di contraddizione, di non coesione, di carenza logica e di irragionevolezza nella disciplina del procedimento di revisione dettata dagli artt. 633, 636 e 639 del c.p.c. Identici motivi appaiono - a giudizio del collegio - inficiare la stessa devoluzione alla Corte di appello del giudizio rescindente, atteso che nel caso concreto potrebbe in ipotesi essere inficiata una sentenza della Corte di cassazione. Appare ugualmente irragionevole e privo di motivazione nonche' contrario a principi di ordine generale che un giudice di grado inferiore sia chiamato ad esaminare e porre nel nulla una pronuncia del giudice supremo. La suddivisione del processo di revisione in due distinte fasi e l'attribuzione del giudizio rescindente alla Corte di cassazione e del giudizio rescissorio al giudice di primo grado o di appello - a seconda che la sentenza annullata fosse stata pronunciata dall'uno o dall'altro organo giudiziario -, cosi' come disciplinate dal legislatore antecedentemente alla riforma del 1989, si sottraevano alle formulate censure. La normativa in vigore prima del nuovo codice di procedura penale consentiva invero al supremo collegio di valutare i presupposti della chiesta revisione, con uniformita' di giudizio e senza stravolgere regole di carattere generale. Permetteva allo stesso giudice che aveva emesso la sentenza annullata di riesaminare in sede di rinvio i noviter producta unitamente alle prove gia' acquisite, nel rispetto delle competenze statuite dalla legge anche in considerazione della particolarita' del reato e della conclamata esigenza che a conoscere taluni reati siano giudici "particolari". Di conseguenza non puo' ritenersi infondata sotto i prospettati profili la questione di legittimita' sollevata dal p.g.