Ricorso per la regione Toscana, in persona del presidente pro- tempore della giunta regionale, rappresentato e difeso per mandato a margine del presente atto dall'avv. Alberto Predieri e presso il suo studio elettivamente domiciliato in Roma, via G. Carducci n. 4, in forza di deliberazione giunta regionale n. 10014 del 17 ottobre 1994, contro il Presidente del Consiglio dei Ministri pro-tempore per l'annullamento previa sospensione del decreto-legge 27 settembre 1994, n. 551 "Misure urgenti per il rilancio economico ed occupazionale dei lavori pubblici e dell'edilizia privata". 1. - L'architettura del decreto-legge (che reitera, con modificazioni, il d.l. n. 468/1994, non convertito) ricalca quella della legge n. 47/1985. Si tratta, cioe', di un testo normativo contenente un condono per gli illeciti in materia urbanistica e una riforma di parti essenziali della regolazione urbanistica, con profonde innovazioni, profondissime in questo caso, piu' che nel precedente, rispetto alla disciplina vigente. Le differenze fra i due atti sono significative. Mentre nella legge n. 47/1985 venivano rispettate le competenze regionali. Veniva inoltre correttamente usato lo strumento della legge, il quale e' indispensabile quando debba essere regolata materia che appartenga alla competenza legislativa regionale che puo' essere esercitata nei limiti dei principi posti da leggi dello Stato, nel caso sottoposto al giudizio della Corte lo strumento e' quello illegittimo del decreto-legge, provvedimento provvisorio, che ontologicamente non puo' porre principi. Veniva rispettata la riserva posta dalla costituzione definendo la legge come di principio (per la parte in cui lo era) art. 1 previa discussione parlamentare. Nel caso attuale e' scomparso ogni riferimento (cosi' come ogni discussione). Principio e' nozione (impiegata nell'art. 117 della Costituzione) contrapposta a provvedimento (impiegata nell'art. 77 della Costituzione), con una serie di implicazioni gia' sottolineate dalla dottrina (per tutti ricordiamo l'autorevole presa di posizione di Paladin, in G. Branca, commentario della costituzione, la formazione delle leggi, vol. II, 69), tanto per quanto riguarda la generalita' quanto per cio' che attiene alla proiezione diacronica. I principi hanno "carattere fondamentale e si possono desumere dalla connessione sistematica, dal coordinamento e dalla intima razionalita' delle norme che concorrono a formare, in un dato momento storico, il tessuto dell'ordinamento giuridico", come la Corte ha ritenuto a partire dalla sentenza n. 6/1956, in Giur. cost., 1956, 586. Questa formulazione comporta che configurare un principio momentaneo contingente che viene assunto provvisoriamente (salvo a prolungarne gli effetti con indebite reiterazioni), sia una contraddizione irragionevole. Se i principi vanno desunti da un tessuto, l'inopportunita' funzionale di un rabberciamento provvisorio di un tessuto e', di per se', tale da escludere l'uso di uno strumento incongruo quale il decreto-legge. Che, comunque, e' da proscrivere per le ragioni testuali e strutturali delle quali parleremo qui di seguito. L'irragionevolezza e' lo strumento che veicola una lesione del sistema posto dall'art. 117. Essa e', di per se' sussistente (e' bene precisarlo) quand'anche non fosse stato usato lo strumento del decreto-legge, come verra' detto piu' avanti, dimostrando l'irragionevolezza delle nuove disposizioni in relazione al loro specifico contenuto. Le ragioni per cui la costituzione vuole la legge (cioe' rappresentanza di punti di vista e degli interessi, discussione, ponderazione, tutela delle minoranze) non hanno bisogno di lunghi commenti. Sono ragioni e finalita' tutte frustrate dal ricorso ad uno strumento che non risponde alle finalita' della riserva posta dalla costituzione, anzi e' utilizzato per raggiungere indebitamente obiettivi in contrasto con l'ordinamento costituzionale. L'indebito e' aggravato dalla reiterazione, contro cui le proteste piu' autorevoli sono continue, ma inefficaci, se non vi sara' un rimedio posto dalla Corte alla quale da anni il problema e' stato posto e che ha pronunciato una significativa decisione 10 maggio 1988, n. 203, in causa promossa dalla stessa regione ricorrente, alla quale ci riportiamo. L'uso indebito di uno strumento voluto per altri fini configura una peculiare forma di irragionevolezza che consiste in una consequenzialita' perversa, vale a dire nel rifiutare lo strumento costituzionale e nello scegliere lo strumento, uno strumento a doppio titolo illegittimo (come verra' detto fra poco), che si manifesta singolarmente efficiente per raggiungere un fine contrario a quello della norma costituzionale e per rovesciare equilibri da essa voluti. Obiettare che nel caso in questione il decreto ha forza di legge e quindi non puo' esservi diversita' fra i suoi effetti e quelli di legge, non supera la considerazione per cui non basta una norma di legge, ma occorre una norma di principio posta dalla legge o da essa desumibile. Puo' essere significativo notare che la Corte, nella sentenza n. 100/1980, ha escluso che un d.P.R. potesse avere titolo per abrogare o contraddire una fonte locale in materia regionale non essendo neanche dotato di forza di legge. Il che vuol dire - proseguendo l'iter del ragionamento - che, se anche un atto fosse dotato di forza di legge, questa attribuzione non avrebbe di per se' titolo sufficiente per porre quelle statuizioni di principio che solo una legge puo' fare. Non a caso in gran parte delle letture del testo costituzionale la conversione del decreto-legge viene vista come novazione, per cui ad una fonte ne viene sostituita un'altra con cui viene esercitata la funzione legislativa. Nel caso in cui si tratti di principi, la legge sola e' abilitata per porre norme costituzionalmente valide. Una fonte sostitutiva abilitata per provvedimenti, non per principi, e' contro il sistema. Il decreto- legge non ha titolo per alterare l'ordine dei principi fondamentali della materia. Orbene e' di tutta evidenza che quanto meno per la parte che attiene il condono non vi e' nessuna norma di principio, vi e' al contrario un provvedimento che non necessita di atti di attuazione (tanto meno legislativi) ma solo di atti di applicazione pura e semplice. Per quanto riguarda gli altri aspetti del decreto-legge di cui discutiamo, privo dei requisiti costituzionali (su questo tema di e' gia' espresso il Parlamento), esso e' irragionevole, perche' non vi e' assoluta urgenza di cambiare principi, tanto meno in una materia in cui le oscillazioni sono frequenti. 2. - Se per avventura le necessita' e l'urgenza vi fossero, andrebbe data una motivazione del perche' e' stato adottato quel contenuto e non un altro, ovvero una motivazione adeguata del nesso che intercorre, secondo il governo decretatore, fra il rilancio dell'economia e la modificazione dei principi fondamentali della normazione. Nel nostro caso tale motivazione manca del tutto. Pare superfluo insistere nel dire che in questo caso, trattandosi di decreto-legge, la costituzione esige la motivazione dell'atto normativo, la cui mancanza incontestabile fa apparire a prima vista l'illegittimita'. E' palese che e' illegittimo l'affastellamento di frasi come "rilancio delle attivita' economiche", "ripresa delle attivita' imprenditoriali", "incremento della occupazione" (che al piu' possono riguardare il futuro non il passato), nonche' "semplificazione dei procedimenti", che da anni viene predicata ma di cui vi e' scarsa traccia. La dottrina ha riconosciuto la sindacabilita' della motivazione del decreto-legge, specie sotto il profilo (e i limiti) di un giudizio di ragionevolezza (Zagrebelsky, Manuale di diritto costituzionale, I, Torino, 1987, p. 178; Raveraira, Il problema del sindacato di costituzionalita' sui presupposti della "necessita' ed urgenza" dei decreti-legge, Giur. cost., 1982, 1433 ss., p. 1461); aggiungendo che "il sindacato teleologico di ragionevolezza dovrebbe estendersi anche a giudicare i profili della congruita' e della pertinenza delle disposizioni rispetto al fine, determinato dal Governo" (ivi, p. 1463; nonche' Lavagna, ragionevolezza e legittimita' costituzionale, studi Esposito, Padova, 1972, 1579 ss.; in generale Sorrentino, La Corte costituzionale tra decreto-legge e legge di conversione: spunti ricostruttivi, dir. e soc., 1974, 526). E' bene sottolineare che il profilo che sottoponiamo all'esame della Corte non e' qui (soltanto) quello della mancanza del presupposto e della correlativa asserzione non veritiera sulla necessita' e sull'urgenza, ma quello della mancanza, nella motivazione, non gia' dell'indicazione dei presupposti di necessita' e di urgenza, ma di individuazione dei fini che il governo si pone. Dato per ammesso che la necessita' e l'urgenza vi siano, cio' non fa fare un passo avanti al diverso problema se l'uso del potere normativo sia stato motivato in modo ragionevole e coerente. Nel nostro caso, questa motivazione del contenuto del decreto- legge delle scelte e' inesistente e, se esiste, insincera. Se c'e' una spiegazione del provvedimento di fronte all'opinione pubblica, e' la conclamata necessita' per l'erario di far soldi. Di essa ha esplicitamente parlato il Ministro proponente in interviste ai quotidiani, in cui e' stato detto testualmente "che il Ministro del tesoro batteva cassa e le sue esigenze non potevano essere ignorate e cosi' gli sono state assicurate entrate per 5-6 mila miliardi". Se questa e' la vera motivazione, nel decreto non ve ne e' traccia. Dei fini si parla nelle interviste, non nella motivazione. La violazione delle regole del principio di trasparenza, come tale, costituisce un indicatore rilevante dell'irragionevolezza e dell'incoerenza che resta tale anche domani, nell'eventualita' di una conversione in legge, la quale non puo' sanare il vizio del decreto-legge. Infatti l'enunciato basato sul falso supposto e' stato inserito nel testo dell'atto normativo, incorporato in esso, fa parte del suo enunciato. La legge di conversione converte l'intero decreto, che viene allegato nella sua interezza, non distinguendo fra articolato, dispositivo e parte motiva. La legge e' costituita, dunque, dal decreto-legge e dall'atto legislativo di conversione. Il decreto diventa parte integrante nella sua totalita', motivazione compresa. Di questa motivazione della legge e puo' essere sindacata la coerenza, la fondatezza, la ragionevolezza in relazione a qualsiasi sua parte, anche quella motiva: cosicche' la irragionevolezza della motivazione e' rilevante non solo oggi, ma anche rispetto alla futura ed eventuale legge di conversione, che nascerebbe incorporando i vizi di incoerenza e di irragionevolezza. L'irragionevolezza del fine appalesata dalla inconsistenza della motivazione, porta ad escludere che esso sia un parametro adeguato delle singole disposizioni legislative (Corte costituzionale, 27 marzo 1992, n. 133, Giur. cost., 1992, 1113 e Corte costituzionale, 24 giugno 1992, n. 301) e a dimostrare che l'apprezzamento dei fini e' inficiato da criteri illogici, arbitrari e contraddittori (sentenza n. 14/1964), quali sono quelli che nascono da una motivazione non veritiera, arbitraria, contraddittoria che assume come fini non gia' quelli reali, pretermessi e negati, ma quelli individuati in contraddizione con la realta'. Dobbiamo aggiungere ancora che se la Corte piu' di una volta ha ritenuto l'esistenza della irragionevolezza desumendola da elementi extratestuali, dai lavori preparatori (cfr., per tutte, sent. Corte costituzionale, 26 marzo 1980, n. 42, in Giur. cost., 1980, 287; sent. Corte costituzionale, 7 luglio 1980, n. 107, in Giur. cost., 1980, 1001; sent. Corte costituzionale, 30 luglio 1980, n. 133, in Giur. cost., 1980, 1132; sent. Corte costituzionale, 20 maggio 1982, n. 96, in Giur. cost., 1982, 957; sent. Corte costituzionale, 17 novembre 1982, n. 188, in Giur. cost., 1982, 2041; sent. Corte costituzionale, 24 novembre 1982, n. 198, in Giur. cost., 1982, 2114; sent. Corte costituzionale, 9 dicembre 1982, in Giur. cost., 1982, 2177; ord. Corte costituzionale, 29 dicembre 1982, n. 251, in Giur. cost., 1982, 2375; sent. Corte costituzionale, 18 luglio 1984, n. 223, in Giur. cost., 1984, 1551), alle circolari ministeriali (sent. Corte costituzionale 28 luglio 1976, n. 194, in Giur. cost., 1976, 1207), a maggior ragione gli elementi testuali (come e' nel nostro caso la motivazione palesemente incosistente) debbono essere presi in considerazione. 3. - Va sottolineato anche un altro profilo dell'illegittimita' dello strumento usato impiegando un atto governativo laddove la costituzione esige una legge cornice o quadro, che consiste nella violazione dell'art. 79. E' indubbio che l'illegittimo decreto n. 551/1994 introduce una sanatoria che opera nell'area dei reati come in quella degli illeciti amministrativi uniti in modo inestricabile dal decreto, che produce i suoi effetti in un'area ove esiste una riserva di legge a maggioranza aggravata posta dall'art. 79 della Costituzione. Alla violazione della riserva di legge quadro viene aggiunta la violazione di legge rinforzata, l'una e l'altra sostituite da un atto governativo, che estromette il parlamento o, comunque, non rispetta le regole di maggioranza qualificate. 4. - Le pesanti modificazioni all'ordinamento di settore vigente, e cioe' al complesso principi generali statali-normazione regionale, violano le competenze garantite alle regioni dall'art. 117, con riferimento al rovesciamento di principi posti da una lunga tradizione normativa, che ha posto un assetto della regolazione la cui coerenza e' stata riconosciuta dalla Corte corrispondente ad esigenze di buon andamento e di corretto impiego delle potesta' e delle disponibilita' finanziarie, violando l'art. 117, in correlazione con gli artt. 97 e 3. Scendendo ad esaminare i singoli articoli, va detto anzitutto che nel capo I relativo al condono viene prevista una riapertura ed una estensione del condono edilizio a tutti gli immobili costituiti abusivamente sino al 31 dicembre 1993. Viene disposta per legge una concessione in sanatoria a coloro che abbiano corrisposto l'oblazione; la sanatoria, conseguenza dovuta dell'oblazione, estingue i reati contravvenzionali e la caducazione delle sanzioni amministrative pecuniarie e non, con un congegno di autodenuncia al comune, richiesta di concessione e autotassazione dell'oblazione. La disposizione non concerne solo i soggetti che abbiano eseguito opere abusive tra la data di ultimazione prevista dalla legge n. 47/1985 (1 ottobre 1983) e il nuovo termine posto dalla legge. Ma anche coloro che non avevano ritenuto di usufruire del precedente condono, ed erano pertanto soggetti alle sanzioni previste dall'art. 40, primo comma. Cosicche', per gli uni e per gli altri, l'effetto e' la sottrazione all'assoggettamento alle sanzioni previste dal capo I della legge n. 47/1985. Tutte le sanzioni vengono caducate o private di effetti, in forza di una legge che non pone un principio per la normazione regionale, ma si limita a sottrarre puramente e semplicemente i poteri regionali su tutta un'area alla normazione medesima, sostituendo alle norme sulle sanzioni amministrative, alla loro irrogazione, alla loro misura, una norma che impone di non irrogare sanzioni e di non richiedere ne' riscuotere sanzioni pecuniarie. Le regioni vengono private di poteri, di doveri, di risorse politiche. Nel caso di specie, e' indubbio che la disciplina delle sanzioni attinenti alla materia urbanistica, trasferita alle regioni ex art. 117 della Costituzione, debba essere (e sia effettivamente) di competenza delle stesse. Lo dice esplicitamente, del resto, l'art. 1 della legge n. 47/1985 (che affida alle regioni la funzione di emanare norme "in materia di controllo dell'attivita' urbanistica ed edilizia e di sanzioni amministrative"). E' vero che la regolazione regionale delle sanzioni deve avvenire "nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti dal legislatore nazionale" (sent. n. 123/1992). Ma cio' che si e' verificato per effetto del decreto-legge impugnato non e' una indicazione di principi, all'interno della quale viene preordinato lo spazio per l'operativita' del potere-dovere sanzionatorio regionale. Non c'e' nessuna indicazione di principi nel decreto-legge. Esso oltre che essere, come abbiamo detto, strumento intrinsecamente inidoneo a porre principi, nel caso singolo, nelle sue disposizioni concrete, non li pone affatto. C'e' invece, puramente e semplicemente, la sostanziale e protratta sottrazione dell'esercizio del potere sanzionatorio in materia di loro competenza alle regioni, con la previsione di un condono che, da misura eccezionale (tale qualificata nella relazione illustrativa alla legge n. 47 e dalla stessa Corte nella sentenza n. 369/1988), diviene invece la regola per tutti i comportamenti abusivi anche successivi al 1983 (che consentira' facili estrapolazioni sul futuro an, con inevitabili ripetizioni, tollerando, al piu', un'incertezza sul quando, sul momento in cui il nuovo colpo di spugna verra' elargito a chi ha saputo attendere). Secondo il decreto, la regione non puo' piu' legiferare in nessun modo, non puo' introdurre sanzioni meno severe o piu' severe: non puo' esercitare i suoi poteri di indirizzo. Tutto cio' le viene sottratto e preso dallo Stato, annullando gli effetti degli atti regionali (ad esempio rendendo oggetto di condono le opere eseguite con licenza, concessione od autorizzazione che sia stata annullata, sia decaduta o comunque divenuta inefficace, ovvero per le quali sia in corso procedimento per annullamento o decadenza). Dire che in astratto le regioni restano titolari del potere sanzionatorio quando in concreto si reitera la facolta' di sottrarvisi con il pagamento di una oblazione il cui gettito spetta invece all'erario ( ex art. 1, settimo comma, del d.l., e art. 1, sesto comma, del d.l. n. 468/1994), significa negare e contraddire nella sostanza l'osservanza sia degli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione, sia del principio di leale cooperazione che la Corte ha sottolineato piu' volte come regola etica e giuridica di comportamento dello Stato e delle regioni in ogni attivita' - compresa quella legislativa - in cui interferiscono competenze statali e regionali; anche per questo punto di riportiamo alla ricordata sentenza n. 302/1988. 5. - Oltre che nel capo II relativo alla regolazione urbanistica, anche nel capo I relativo al condono vengono inserite altre norme che violano le competenze regionali. L'art. 3 prevede che i comuni individuino le zone maggiormente interessate dall'abusivismo, ai fini della realizzazione di programmi di intervento. Si tratta di atti di incerta collocazione, che paiono istituire un nuovo tipo di strumenti urbanistici. Non si tratta, infatti, semplici programmi di spesa di opere pubbliche, limitati a stanziamenti di somme per realizzare progetti gia' localizzati. Comunque, in entrambi i casi, sia sotto il profilo dell'urbanistica, sia sotto quello dei lavori pubblici, si tratta di competenze previste negli artt. 117 e 118 della Costituzione. Se questi programmi determinassero (come sembra) le modificazioni di precedenti previsioni urbanistiche, costituirebbero una "causa di alterazione del quadro dei rapporti tra competenze attribuite alle regioni ed agli enti locali nel vigente sistema di programmazione urbanistica, nelle sue articolazioni territoriali e di settore", per usare le parole della sentenza n. 393/1992. La quale proseguiva rilevando "chiara l'irrazionalita' ed il contrasto della normativa che la produce con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione". L'enunciato del decreto n. 551/1994 e' incerto e confuso. Non si sa da chi vengano approvati questi programmi, con quali effetti e con quali scopi. Il decreto nell'art. 3, secondo comma, dice che "entro tre mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, il Ministro dei lavori pubblici determina, con proprio decreto, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano ed i comuni interessati, i criteri di formazione e i contenuti dei programmi di intervento, nonche' le modalita' di concessione dei finanziamenti". Il terzo e il quarto comma aggiungono che "per la realizzazione dei programmi di cui al secondo comma si provvede utilizzando le somme, eccedenti gli importi di lire 2.550 miliardi per il 1994 e di lire 5.915 miliardi per il 1995, relative agli introiti derivanti dall'art. 1. Le somme di cui al terzo comma, versate all'entrata dello Stato, sono riassegnate, con decreto del Ministro del tesoro, ad appositi capitoli dello stato di previsione del Ministero dei lavori pubblici per l'anno 1994 e corrispondenti capitoli per gli anni successivi". Tutta la materia viene sottratta all'attivita' normativa e amministrativa delle regioni, violando gli artt. 117 e 118 con una normazione irragionevole, basata sull'ignorare completamente la competenza regionale (alla quale viene riservato un ruolo marginale, neppure di parere, ma di un semplice "sentito", all'interno della conferenza Stato-regioni) attribuendo al Ministro un potere normativo di attuazione della legge e in realta' di determinazione e conformazione di una scatola vuota di cui viene solo indicato il nome. Si tratta di un potere illegittimo che e' non configurabile in materie trasferite alle regioni. L'illegittimita' denunciata si aggiunge a quella della incoerenza della normativa, che istituisce un programma senza dire che cosa intenda programmare, se opere o insediamenti, sapendo solo che entro tre mesi il Ministro fara' conoscere il contenuto e le modalita' per erogare i finanziamenti che egli dara', in materia di competenza regionale e quindi con ulteriore violazione dell'art. 119 sia sotto il profilo della spesa sia sotto quello dell'entrata. La statuizione dell'art. 3, quarto comma, prevede un impiego degli introiti derivanti dalle domande di condono affidato all'arbitrio del Ministro. Il quale, in violazione del principio di legalita', determina esso stesso con suo decreto a che cosa debbano essere volti i programmi, che, sempre a suo arbitrio, finanziera': con nuova totale esclusione delle regioni e con un rovesciamento delle norme finanziarie connesse alle leggi come la n. 457/1978, poste dalle leggi regionali in attuazione di una legislazione concorrente coerente. 6. - Lo stesso filo conduttore di sottrazione di competenze istituzionali regge l'enunciato dell'art. 4, anch'esso esempio di confusione. Nel primo comma, l'articolo prevede che "in caso di inadempienze" (quali e da chi commesse il testo non dice; se dovessimo pensare a previsioni sulla materia intera avremmo evidenti sovrapposizioni e interferenze) venga nominato dal Ministro un commissario ad acta per l'adozione di provvedimenti di competenza del sindaco. Anche in questo caso viene invasa in modo grossolano un'area di competenza della regione che ha, e deve avere, funzioni di controllo e sostitutive, sia per la regolazione delle competenze, come e' stata effettuata dal d.P.R. n. 616, sia per la coerenza del sistema di regolazione della materia urbanistica, con la posizione che la regione in essa deve avere agli effetti della vigilanza, del controllo e delle repressioni. La lesione delle competenze regionali e' aggravata dalla previsione dell'art. 5, che prevede lo scioglimento del consiglio comunale nel caso in cui "gli enti territoriali siano sprovvisti dei relativi strumenti urbanistici generali e non adottino tali strumenti entro diciotto mesi dalla data di elezione degli organi". In tal caso, applicandosi il disposto dell'art. 39 della legge n. 142/1990, l'adozione dello strumento urbanistico e' di competenza di un soggetto nominato da organi statali, completamente al di fuori del sistema delle autonomie regioni-enti locali, delle leggi che regolano la materia, delle decisioni della Corte. 7. - L'art. 5, terzo comma, del decreto-legge impugnato introduce il silenzio-assenso come modo normale di approvazione del piano regolatore da parte della regione una volta decorsi centottanta giorni dalla trasmissione del piano adottato. Viene in tal modo depotenziato e svilito a mero certificato di controllo, rilasciabile anche nella forma del silenzio-assenso, il contributo regionale all'attivita' di formazione degli strumenti urbanistici, e in particolare del piano regolatore generale: e cio' malgrado il diritto vivente abbia da tempo e lungamente insistito con una lunga serie di autorevoli sentenze sul fatto che "nel procedimento di formazione del piano regolatore (o di altro strumento di pianificazione urbanistica a carattere generale) l'ambito di attivita' di competenza della regione non si esaurisce nell'assolvimento di funzioni di mero controllo circa il corretto svolgimento dell'attivita' di pianificazione da parte del comune, ma comporta invece l'esercizio di potesta' primaria di pianificazione e programmazione che si attua anche attraverso l'esercizio di poteri di modifica d'ufficio" (T.A.R. Lazio, sez. II, 19 settembre 1992, n. 1852, T.A.R., 1992, I, 3815), giungendo a qualificare il piano regolatore generale come atto complesso a complessita' ineguale (cfr. cons. Stato, sez. IV, 1 giugno 1989, n. 356, foro amm., 1989, 1691; cass., 11 novembre 1977, n. 5874, giust. civ., 1977, I, 1811; cass. sez. un., 7 marzo 1968, n. 129, giust. civ., 1968, I, 1464; cons. Stato, sez. IV, 16 dicembre 1980, n. 1209, giur. it., 1980, III, I, 52; id., 22 ottobre 1974 n. 668, foro amm., 1974, I, 2, 1072; id., sez. V, 19 ottobre 1973, n. 700, cons. Stato, 1973, I, 1347; cons. Stato, sez. IV, 27 ottobre 1965, n. 654, giur. it., 1966, III, 185; cons. Stato, sez. IV, 16 maggio 1962, n. 353, cons. Stato, 1962, I, 879; id., 1 febbraio 1961, n. 60, giur. it., 1962, III, 157). Dalla natura di atto complesso discende la necessita' che esso formi oggetto "di una autonoma valutazione da parte di ciascuno dei diversi soggetti chiamati dall'ordinamento a porlo in essere, sulla base di un diretto e approfondito esame, pur esso autonomo, della situazione dei luoghi" (cons. Stato, sez. IV, 27 settembre 1961, n. 427, foro amm., 1961, I, 1369); e discende pure - come stabilisce la legislazione urbanistica sin qui vigente - che la regione puo' apportare al piano adottato modifiche d'ufficio in cui "sovrappone definitivamente la propria volonta' a quella del comune" (cons. Stato, sez. IV, 14 ottobre 1992, n. 879, foro it., 1993, III, 271). Questo carattere essenziale della partecipazione regionale al procedimento di pianificazione viene totalmente disatteso dalla modifica introdotta con l'art. 5, terzo comma, del decreto-legge; e viene in tal modo vanificato e annullato un aspetto determinante dell'esercizio regionale del potere-dovere di pianificazione del territorio, che e' a sua volta elemento determinante delle funzioni in materia urbanistica trasferite alle regioni ai sensi dell'art. 117 della Costituzione. 8. - L'art. 6 del d.l. viola un principio che universalmente veniva considerato fermo, il rispetto del giudicato e del limite dei rapporti esauriti, con un'invasione delle competenze regionali. Infatti la statuizione interferisce con le funzioni amministrative della regione. Ad esempio, gli atti di annullamento di concessioni edilizie che fossero stati effettuati dalla regione sulla base di una sentenza passata in giudicato che avesse accertato la nullita' di un trasferimento di immobili a norma dell'art. 17 e dell'art. 40, della legge n. 47/1985 con correlativo successivo annullamento regionale della concessione rilasciata ad un proprietario che tale non era in violazione dell'art. 4, della legge n. 10/1977, verrebbero travolti dall'eversiva statuizione dell'art. 6. A parte l'esempio, in cui appare evidente il sovvertimento di un principio dell'ordinamento che e', per usare la definizione altra volta data dalla Corte, principio di civilta' giuridica, si ha lesione dell'affidamento nell'esercizio dei propri poteri che compete ai soggetti costituzionali, con una violazione delle norme degli artt. 3, 97, 117, 118 della Costituzione, nonche' dell'art. 24 inteso con riferimento alle garanzie che l'ordinamento deve apprestare per la tutela giurisdizionale a livello generale, non solo con riferimento alle singole situazioni soggettive. 9. - Nell'art. 7, decimo comma, viene previsto che "le pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, secondo comma, del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, provvedono, per quanto di loro competenza, ad esaminare, entro e non oltre novanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, i casi relativi alle procedure di affidamento e di esecuzione delle opere pubbliche che, pur rientrando nelle ipotesi di cui al presente articolo, possono essere riavviate con provvedimento amministrativo sulla base dei principi indicati nel prsente articolo, anche su istanza delle imprese interessate". A differenza che nel testo del corrispondente art. 6, undicesimo comma, del d.l. n. 468/1994, in cui poteva esserci il dubbio che tra le pubbliche amministrazioni menzionate non vi fossero le regioni, il rinvio all'art. 1, secondo comma, del d.lgs. n. 29/1993 rende inequivocabile la natura del riferimento come comprensivo anche delle regioni. Ne segue che viene posta in essere una normazione incoerente, confusa e irragionevole che pretenderebbe di avere effetti immediatamente operativi anche per le regioni e per le amministrazioni che hanno funzioni relative ad opere pubbliche di competenza regionale ex art. 117 della Costituzione, con invasione della sfera regionale, sottrazione della competenza normativa, una delegificazione che sottrae alle leggi regionali un'area che viene affidata al provvedimento amministrativo, con violazione del principio di legalita' e degli artt. 117 e 118 della Costituzione. 10. - L'art. 8 e' del pari illegittimo, nella misura in cui contiene irragionevoli disposizioini di dettaglio, anzi di estremo dettaglio (e valga, a titolo meramente esemplificativo, indicare l'ottavo comma dell'art. 8, che interviene dettando regole in materia di "corti urbane, purche' di pertinenza del fabbricato originario"), che pretendono di imporsi alle regioni in materia trasferita nella quale lo Stato ha esclusivamente il potere di porre norme di principio. La norma e' ulteriore dimostrazione della irragionevolezza dell'intera architettura e del contenuto normativo del decreto impugnato. 11. - L'art. 9 rovescia la logica posta dall'art. 4 della legge n. 493/1993. Questo aveva escluso completamente il silenzio-accoglimento nella submateria della concessione edilizia, dopo un periodo di estensione transitoria disposta dalla legge n. 94/1982. Quest'ultima, pero', si riferiva al silenzio accoglimento nei casi in cui la concessione fosse atto dovuto per l'esecuzione di uno strumento urbanistico direttamente operativo. Con l'illegittimo d.l. n. 551/1994 il metodo del silenzio-assenso viene esteso ad ogni e qualsiasi caso. Chiunque puo' presentare una domanda di concessione e, decorso il termine indicato, e' abilitato a costruire in forza della regola del silenzio-assenso posta dall'art. 4, primo comma, del nuovo testo della legge n. 493/1993 riscritto dal terzo comma dell'art. 9 del d.l. n. 551/1994. La prova del titolo all'edificazione e' data dalla copia dell'istanza presentata da cui risulti la data del deposito. Anche se la domanda di concessione non fosse conforme al piano regolatore oppure se un piano valido ed efficace mancasse, oppure se il piano richiedesse una ponderazione e la concessione fosse tutt'altro che atto dovuto (come e' nella normalita' dei casi), il silenzio-assenso opera sempre. In questa incoerente ed irragionevole sostituzione, e' profonda la diversita' con il metodo della legge n. 94/1982. Esso prevedeva il silenzio-accoglimento nei casi di "interventi da attuare su aree dotate di strumenti urbanistici attuativi vigenti ed approvati non anteriormente all'entrata in vigore della legge 6 agosto 1967, n. 765, nonche' quando la concessione o autorizzazione e' atto dovuto in forza degli strumenti urbanistici vigenti e approvati non anteriormente alla predetta data". Altro e' superare una impasse dovuta ad una inattivita' dell'amministrazione in un caso particolare (che puo' essere ragionevole perche' utile metodo per aumentare l'efficienza), altro elevare il silenzio-assenso a regola normale, arrivando ad una normativa per cui ben si puo' parlare di incostituzionalita' per abuso di silenzio-assenso. Con l'illegittimo decreto-legge, il meccanismo consente la costruzione immediata, decorso il termine, con un congegno che depotenzia tanto il momento della ponderazione quanto quello del controllo. La legislazione urbanistica, per lunga e consolidata tradizione, e' fondata sulla esistenza di una fase di predisposizione di previsioni vincolanti con i piani e su un'altra di attuazione attraverso il rilascio di concessioni o di autorizzazioni. Queste debbono essere conformi al piano e, se discrezionali, debbono essere ponderate al momento del rilascio. Invero se in taluni casi la concessione puo' essere configurata, in relazione alle singole con- crete previsioni di quel determinato piano, come atto dovuto, in altri casi e' discrezionale; e' sempre subordinata ad accertamento di fatto a norma dell'art. 31, quinto comma, legge urb., ad esempio con conseguenti illegittimita' di una concessione di costruzione "in zona non servita, o insufficientemente servita, da opere di urbanizzazione primaria" (cons. Stato, sez. V, 4 gennaio 1993, n. 26, in foro it., 1993, III, 573 ss.); ed e' sempre subordinata a ponderazioni in relazione alle previsioni. Il rilascio della concessione presuppone un'istruttoria per l'accertamento della sussistenza dei requisiti. Per addurre un esempio, secondo l'art. 9 della variante p.r.g. del capoluogo della Toscana, gli interventi di risanamento conservativo per i quali si prevede con concessione gratuita "sono quelli rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalita' mediante un insieme sistematico di opere che, sulla base di una attenta analisi storico-critica e nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, consentano destinazioni d'uso con essi compatibili", la cui compatibilita' va determinata; "E' consentito l'uso di solai in cemento armato, ferro e misti, in sostituzione di preesistenti strutture in legno, qualora non vi siano elementi di interesse architettonico, pittorico, storico che comunque saranno oggetto di analisi preventiva da parte degli uffici competenti, ai fini del parere della commissione edilizia", art. 29, lett. o). Nella maggioranza dei casi non basta l'accertamento della sussistenza dei requisiti: occorrono valutazioni discrezionali o ponderazioni, per usare il linguaggio pertinentemente impiegato dalla Corte. Sempre per addurre ad esempio le previsioni del piano citato, le "concessioni che comportino mutamenti di destinazione possono essere non rilasciate se a causa del tipo di attivita' svolta, dei movimenti di traffico indotti, delle nocivita' e rumorosita', o per altro motivo, le destinazioni possano alterare, in modo dannoso, l'equilibrio urbanistico della zona limitrofa all'edificio o dei tessuti storici e consolidati", art. 30, secondo comma; oppure "i parcheggi multipiano sono condizionati alle esigenze funzionali, ed alla compatibilita' con la viabilita' e con i valori ambientali e paesistici della zona circostante", art. 68, ottavo comma; altrettanto per i progetti di parcheggi privati, art. 69, nono comma. Del pari e' evidente che la concessione per un opificio ben puo' contenere "la prescrizione secondo cui la rumorosita' dell'opificio stesso durante le fasi di lavorazione a pieno regime non dovra' superare i valori determinati" (cons. giust. amm. sic., sez. giurisdiz., 1 marzo 1993, n. 103, in giur. amm. sic., 1993, 62); cosi' come il piano puo' prevedere una convenzione come presupposto per il rilascio di concessione ai fini produttivi, cons. Stato, sez. V, 19 settembre 1992, n. 839, in foro amm., 1992, 1936. Senza soffermarsi su fattispecie singole, puo' essere sufficiente ricordare che le sezioni unite della Corte di cassazione considerano sempre discrezionale il rilascio della concessione (cfr. cass., sez. un., 5 marzo 1993, n. 2667, in foro it., 1993, I, 3062, "il privato non ha, neppure di fronte a strumenti urbanistici che prevedono determinate edificabilita', un diritto soggettivo al rilascio della concessione edilizia, potendo comunque la pubblica amministrazione discrezionalmente determinare le concrete modalita' di esercizio del richiesto diritto"). Di fronte a queste constatazioni sulla necessita' del momento di ponderazione, e' evidente che il prevedere che il progettista assuma la funzione di legittimare il silenzio accoglimento ("alla domanda di concessione edilizia e' allegata anche una relazione a firma del progettista che asseveri la conformita' degli interventi da realizzare alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie, nonche' il rispetto della norme di sicurezza e sanitarie"), e' insufficiente. Il progettista potra' dire al piu' che esiste una norma che costituisce un quadro e una base che consente all'autorita' amministrativa la ponderazione degli interessi. Anche ammesso che sia legittimo sostituire alla norma vigente (che prevede un certificato dell'amministrazione che deve applicare e interpretare la legge) una nuova statuizione che prevede invece una relazione di persona che e' tecnicamente o professionalmente valida per progettare interventi costruttivi, meno per interpretare norme, resta sempre indubitabile che il momento della ponderazione viene abbandonato e pretermesso, con uno sconvolgimento del sistema. Sarebbe superfluo ripetere che la necessaria strutturazione con una fase istruttoria e di ponderazione deriva direttamente dall'insegnamento della Corte, nel quadro del collegamento riaffermato dalla giurisprudenza della Corte fra l'accertamento del rispetto dell'art. 97 della Costituzione e il sindacato di ragionevolezza. L'insegnamento della Corte viene disatteso con l'istituzione di un silenzio-assenso che impedisce un esame dettagliato e puntuale di cui parla la sentenza n. 392/1992 e che pone previsioni accelerativo- derogatorie, che di fatto sono contrarie al buon andamento e alla ragionevolezza di un assetto normativo in area di legislazione concorrente. Del resto questo giudizio non positivo sul silenzio- assenso e' stato dato dalla Corte di giustizia europea nella sentenza 28 febbraio 1991, causa n. 360/1987. La normazione "non europea" dell'art. 9 del d.l. n. 551/1994 stravolge il sistema sinora seguito dalla normazione urbanistica con una diversificazione di momenti, che ne costituisce una normazione sulla base di una lunga tradizione della legislazione urbanistica (per usare la formula impiegata dalla Corte) per cui pianificazione, attuazione ed esecuzione sono momenti che debbono rimanere separati. Nel nostro caso, invece, l'accoglimento della concessione, diventando automatico, priva il rilascio dell'atto concessorio del momento del riscontro alla conformita' al piano, che potrebbe addirittura non esserci (o potrebbe, quanto meno, non esserci come strumento efficace e/o valido). In altre parole, potrebbe effettuarsi il deposito di una domanda di concessione contraria al piano o in regime di assenza di normativa di piano efficace e valido e produrre automaticamente l'accoglimento, senza che vi sia stato ne' controllo, ne' ponderazione sulla concessione che viene rilasciata con il silenzio, automaticamente, cosicche' la concessione silenziosa viene a tener luogo di uno strumento pianificatorio che non c'e', oppure, di fatto, vi deroga. Tutto cio' e' precluso ad una legge statale che non puo' derogare "al principio di distinzione tra programmazione territoriale, come diretta a regolare la destinazione e l'uso del territorio, e legittimazione all'esecuzione dell'opera, conferita al soggetto interessato con il rilascio dell'atto amministrativo senza il controllo di coerenza dell'intervento specifico con gli indirizzi programmatici, controllo particolarmente necessario, per l'osservanza, che esso consente, del precetto dell'art. 4, primo comma, della stessa legge n. 10/1977, secondo il quale la concessione e' data in conformita' alle previsioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi" (sentenza n. 393/1992). Se e' illegittima (come lo e' in forza della sentenza ora ricordata) una normativa che consenta all'atto con effetti concessori di derogare ad uno strumento di pianificazione, non e' meno illegittima e irragionevole una pianificazione che attribuisce ad una concessione silenziosa in fatto lo stesso valore derogatorio, legittimando l'inizio di una edificazione derogatoria, o per meglio dire contraria, al piano regolatore. 12. - Non diverse sono le conclusioni per quanto riguarda la statuizione del primo comma dello stesso art. 9 per l'abrogazione della norma di principio posta dall'art. 13 della legge n. 10/1977. La scansione temporale e' elemento fondamentale di ogni programmazione. Essa e' l'individuazione di finalita' od obiettivi da raggiungere con determinati mezzi in un determinato tempo. Il congegno del programma pluriennale di attuazione costituisce la risposta a questa esigenza di determinazione del tempo e di correlativo apprestamento concreto e reale di disponibilita' finanziarie tali da evitare che il piano diventi una sterile operazione puramente grafica. L'elemento temporale fa parte anch'esso della tradizionale configurazione dell'assetto urbanistico che deve investire tanto lo spazio quanto il tempo. Originariamente, nella struttura della legge urbanistica del 1942, esso era affidato all'articolazione del piano particolareggiato che conteneva un piano di spesa. Successivamente, per le ben note difficolta' della finanza locale, la funzione di regolazione dell'attuazione nel tempo ha trovato un assetto nella dimensione temporale, che adesso viene scardinata in modo improvviso ed irragionevole. Nel diritto vivente (ricordiamo per tutte la sentenza del cons. di Stato, sez. IV, 5 novembre 1991, n. 882, in riv. giur. urb., 1993, I, 235 ss.), "pur se il p.p.a. e' stato introdotto con la legge n. 10/1977, la potesta' di distribuire nel tempo gli interventi sul territorio era gia' contenuta per grandi linee, nel potere di pianificazione di cui alla legge 17 agosto 1942, n. 1150. Ogni piano regolatore, invero, benche' destinato a valere a tempo indeterminato, in effetti non contempla che gli interventi la cui attuazione e' prevedibile nel momento in cui lo strumento e' redatto, talche' l'amministrazione gode di ampia discrezionalita' nello scegliere, in pratica, il limite temporale entro il quale circoscrivere tali previsioni". Il potere di pianificare la graduazione cronologica degli interventi sul territorio e', dunque, implicito nel concetto stesso di pianificazione urbanistica, mezzo per "uno sviluppo ordinato e razionale del territorio", e non (solo) un mezzo per "perseguire la politica finanziaria" dei comuni. Se e' pur vero che una gestione dei suoli improntata a criteri di economicita' rientra tra i fini istituzionali dei comuni in generale, deve in ogni caso ritenersi interesse prioritario uno sviluppo organico, e questo deve soprattutto rispondere alle esigenze della collettivita', esigenze che non ricomprendono semplicemente il c.d. "diritto alla casa", ma anche un ambiente salubre, un paesaggio il piu' possibile intatto e via dicendo. Scardinare questo sistema senza motivazione, in modo affrettato, non risponde ai criteri di ragionevolezza e di buon andamento. Il fatto che possano essere migliorati i congegni (vigenti prima dell'avventato decreto-legge) di risposta alla esigenza della considerazione della dimensione temporale, non consente di ritenere ragionevole la negazione pura e semplice delle esigenze di regolazione temporale sotto il profilo dell'attuazione ordinata delle previsioni, con riferimento alle manovre di spesa di urbanizzazione che i comuni possono determinare con riferimento alla scansione nel tempo. Tanto meno consente di ritenere ragionevole un'immediata abrogazione della norma sui programmi pluriennali, con conseguente rischio di annullamento di quelli vigenti e con una situazione di immediata paralisi e confusione. Sulla sospensione: 1. - Del provvedimento impugnato deve essere chiesta la sospensione, in considerazione della gravita' degli effetti di turbativa dell'ordine costituzionale delle competenze e di disordine sulla corretta amministrazione della materia oggetto del decreto che esso produce, rovesciando il sistema in vigore, consentendo l'immediato uso del silenzio-assenso e l'immediata decadenza degli strumenti di programmazione temporale, con uno sconvolgimento aggravato dalla reiterazione. L'ammissibilita' del potere cautelare della Corte costituzionale quale giudice delle leggi e' stata riconosciuta dalla piu' autorevole dottrina (Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, IX ed., Padova, 1976, p. 1391). Essa ha giustamente rinvenuto il fondamento del potere inibitorio nelle esigenze di un sistema com'e' il nostro, il quale (come rileva Pace, Sulla sospensione cautelare dell'esecuzione delle leggi autoapplicative impugnate per incostituzionalita', in riv. trim. dir., pubbl., 1968, 517 ss.) impone l'effettivita' della tutela e conseguentemente fa considerare come attivita' istituzionale del potere del giudice il potere cautelare, che e' stato riconosciuto dal consiglio di Stato il quale, in carenza di una disposizione testuale nella legge 6 dicembre 1971, n. 1034, ha ritenuto la sussistenza del potere di inibitoria, per considerazioni interpreta- tive sistematiche relative alla "generale competenza giurisdizionale a sindacare la legittimita' degli atti definitivi posti in essere dalla pubblica amministrazione statale e non statale e lesivi di interessi legittimi. Ed e' proprio la generalita' della sfera di competenza del consiglio di Stato che induce a ritenere che, nella perdurante sua natura di giudice di unico grado per la tutela degli interessi legittimi, spetti al consiglio stesso almeno la tutela cautelare ed urgente in relazione ai ricorsi proposti dopo l'entrata in vigore della nuova normativa" (Adunanza Plenaria, 14 aprile 1972, n. 5, in foro it., 1972, III, 105 ss.). La notevole decisione del consiglio di Stato sembra avere particolare importanza anche in relazione all'art. 22 della legge 11 marzo 1953, n. 87, che rinvia al regolamento per la procedura davanti al consiglio di Stato, tenendo conto che esattamente la dottrina piu' autorevole (Mortati) richiama l'art. 39 t.u. delle leggi sul consiglio di Stato per il procedimento relativo alla sospensione dell'atto impugnato. 2. - Una rilevanza ancora maggiore, nella stessa linea interpretativa, deve essere riconosciuta all'insegnamento della Corte nella sentenza n. 284/1974. In essa e' stato statuito che "il potere di sospensione dell'esecuzione dell'atto impugnato e' elemento connaturale di un sistema di tutela giurisdizionale che si realizzi in definitiva con l'annullamento degli atti". L'affermazione della Corte si riferisce agli atti amministrativi, ma la ratio e la motivazione della decisione si attagliano anche all'annullamento dell'atto legislativo, perche' tale e' la configurazione dell'esito delle sentenze di accoglimento, quale risulta dal terzo comma dell'art. 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87 e secondo le affermazioni della Corte (sentenze nn. 127/1966 e 49/1970) e posto che in tale funzione la Corte e' giudice. La Corte costituzionale, secondo il proprio indiscusso insegnamento (sentenze nn. 22/1960, 73/1960, 74/1960, 57/1961, 67/1962, 68/1962, 73/1965, 75/1965, 76/1965, 130/1968, 127/1969, 128/1969, 100/1970, 190/1970, 181/1971, 96/1972, 97/1972, 101/1972, 151/1972, ord. 9 ottobre 1974, 259/1974, 13/1975, 230/1975, 179/1976, 38/1976, 246/1976, 247/1976, ord. 7 luglio 1977, 125/1977, sent. 2 agosto 1979, 44/1978, 68/1978, 69/1978) e' come tale titolare del potere di decidere sull'azione cautelare che inerisce alla funzione del giudice. A conferma si puo' aggiungere la constatazione che, secondo i canoni piu' volte affermati dalla Corte, l'effettivita' del potere e' il parametro con cui ne vanno valutate le implicazioni. Cosicche' ad un potere che ha competenza di annullamento sull'atto legislativo inerisce il potere cautelare, per le stesse ragioni funzionali e strutturali per cui al potere che ha giurisdizione sull'atto amministrativo anche normativo inerisce il potere cautelare nei confronti di quest'ultimo. Non a caso questo principio del potere cautelare sull'atto legislativo e' una costante negli ordinamenti che hanno un sistema di giustizia costituzionale anche di data antecedente al nostro. 3. - Le constatazioni precedenti hanno trovato la piu' autorevole sanzione nella giurisprudenza della Corte. Essa nella sua sentenza n. 190/1985 ha affermato con chiarezza il "principio, per il quale la durata del processo non deve andare a danno dell'attore che ha ragione" e conseguentemente ha dichiarato l'illegittimita' di talune norme della legge n. 1034/1971. Sulla base di questo principio, che la Corte ha richiamato nella sentenza n. 146/1987, punto 5.2. in diritto, i dubbi interpretativi sul potere cautelare in relazione agli atti normativi trovano la loro soluzione nel principio posto dalla Corte, che non puo' non estendersi al processo di illegittimita' costituzionale. Esso e' un processo non dissimile nella sua struttura dagli altri in cui la Corte e' giudice (ed ormai la giurisprudenza della Corte sulla Corte come giudice e' pacifica: ordinanze nn. 95/1980, 100/1970, 73/1965, 230/1975, 57/1961, 22/1960) e come tale fornito di tutti i poteri che ha ogni giudice in ogni processo, come e' quello di sollevare questioni di costituzionalita' - riconosciuto da una giurisprudenza costante - e come e', appunto, il potere cautelare di cui viene chiesto l'esercizio. Nel caso del decreto impugnato ricorrono tutti gli elementi che giustificano la domanda cautelare. Il decreto-legge e' per sua natura caratterizzato dalla temporaneita', come atto che e' istituzionalmente a tempo predeterminato. Esso ha immediati effetti, che, come abbiamo visto, determinano irragionevolezza della disciplina complessiva; ledono l'affidamento ingenerato nel cittadino; sottraggono alla regione competenze proprie, senza porre alcuna norma di principio; modificano con effetto immediato (cosicche' - se il decreto non fosse sospeso, e poi fosse invece, per auspicata ipotesi, annullato - si ingenerebbe il caos) meccanismi e procedure di rilascio del titolo concessorio stabiliti solo un anno prima, e provvedimenti di programmazione temporale, senza nessuna motivazione ne' sulla necessita', ne' sull'urgenza di operare in tal senso. 4. - Nella sentenza n. 302/1988 la Corte ha affermato che il decorso del tempo per gli spostamenti di termini imposti dalla reiterazione produce una indubbia interferenza sulle competenze regionali nel senso che ne ha impedito il dovuto dispiegamento, pur legittimo in astratto, a causa del venir meno sin dall'inizio degli effetti provvisori del decreto dopo la mancata conversione. In altre parole, dalla reiterazione del decreto-legge e' derivata la produzione dello svuotamento sostanziale degli artt. 117 e 118 della Costituzione. Poiche' un fumus puo' apparire ammissibile, il far perdurare effetti confusionali non appare opportuno. 5. - Per questo, la regione deve fare ricorso alla tutela della Corte, unico organo che puo' intervenire dal momento che la sinergia perversa e concentrata dei vizi di illegittimita', sommati all'immediata operativita' dell'incostituzionale decreto rende indispensabile l'intervento della Corte per sospendere l'esecuzione del medesimo: e nel valutare la opportunita' del provvedimento cautelare, crediamo che la Corte non possa prescindere dalla illegittimita' strutturali del decreto-legge, dalla assoluta mancanza di motivazione e di indicazione dei presupposti costituzionali, dall'incoerenza e dalla contraddittorieta', dalla violazione dei principi piu' volte richiamati.