Ricorso  per  la  regione  Toscana,  in persona del presidente pro-
 tempore della giunta regionale, rappresentato e difeso per mandato  a
 margine  del presente atto dall'avv. Alberto Predieri e presso il suo
 studio elettivamente domiciliato in Roma, via G.  Carducci n.  4,  in
 forza di deliberazione giunta regionale n. 10014 del 17 ottobre 1994,
 contro  il  Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri pro-tempore per
 l'annullamento previa  sospensione  del  decreto-legge  27  settembre
 1994,   n.   551   "Misure  urgenti  per  il  rilancio  economico  ed
 occupazionale dei lavori pubblici e dell'edilizia privata".
    1.  -  L'architettura  del   decreto-legge   (che   reitera,   con
 modificazioni,  il  d.l. n. 468/1994, non convertito) ricalca quella
 della legge n. 47/1985. Si  tratta,  cioe',  di  un  testo  normativo
 contenente  un  condono per gli illeciti in materia urbanistica e una
 riforma  di  parti  essenziali  della  regolazione  urbanistica,  con
 profonde  innovazioni,  profondissime  in  questo  caso, piu' che nel
 precedente, rispetto alla disciplina vigente.
    Le differenze fra i due  atti  sono  significative.  Mentre  nella
 legge  n. 47/1985 venivano rispettate le competenze regionali. Veniva
 inoltre correttamente usato lo strumento della  legge,  il  quale  e'
 indispensabile  quando  debba  essere regolata materia che appartenga
 alla competenza legislativa regionale che puo' essere esercitata  nei
 limiti  dei  principi posti da leggi dello Stato, nel caso sottoposto
 al giudizio della  Corte  lo  strumento  e'  quello  illegittimo  del
 decreto-legge,  provvedimento  provvisorio,  che  ontologicamente non
 puo'  porre  principi.  Veniva  rispettata  la  riserva  posta  dalla
 costituzione  definendo  la  legge come di principio (per la parte in
 cui lo era) art. 1 previa discussione parlamentare. Nel caso  attuale
 e'   scomparso   ogni  riferimento  (cosi'  come  ogni  discussione).
 Principio e' nozione (impiegata  nell'art.  117  della  Costituzione)
 contrapposta   a   provvedimento   (impiegata   nell'art.   77  della
 Costituzione), con una serie di implicazioni gia' sottolineate  dalla
 dottrina  (per  tutti  ricordiamo  l'autorevole presa di posizione di
 Paladin, in G. Branca, commentario della costituzione, la  formazione
 delle  leggi,  vol. II, 69), tanto per quanto riguarda la generalita'
 quanto per cio' che attiene alla proiezione  diacronica.  I  principi
 hanno "carattere fondamentale e si possono desumere dalla connessione
 sistematica,  dal  coordinamento  e  dalla  intima razionalita' delle
 norme che concorrono a  formare,  in  un  dato  momento  storico,  il
 tessuto  dell'ordinamento  giuridico",  come  la  Corte ha ritenuto a
 partire dalla sentenza n. 6/1956, in Giur. cost., 1956, 586.
    Questa  formulazione  comporta  che   configurare   un   principio
 momentaneo  contingente  che  viene assunto provvisoriamente (salvo a
 prolungarne  gli  effetti  con  indebite   reiterazioni),   sia   una
 contraddizione  irragionevole.  Se  i  principi  vanno  desunti da un
 tessuto, l'inopportunita' funzionale di un rabberciamento provvisorio
 di un tessuto e',  di  per  se',  tale  da  escludere  l'uso  di  uno
 strumento incongruo quale il decreto-legge.
    Che,  comunque,  e'  da  proscrivere  per  le  ragioni  testuali e
 strutturali delle quali parleremo qui di seguito.  L'irragionevolezza
 e'  lo  strumento che veicola una lesione del sistema posto dall'art.
 117.
    Essa e', di per se' sussistente (e' bene  precisarlo)  quand'anche
 non  fosse  stato  usato  lo strumento del decreto-legge, come verra'
 detto  piu'  avanti,  dimostrando  l'irragionevolezza   delle   nuove
 disposizioni in relazione al loro specifico contenuto.
    Le   ragioni  per  cui  la  costituzione  vuole  la  legge  (cioe'
 rappresentanza di punti di  vista  e  degli  interessi,  discussione,
 ponderazione,  tutela  delle  minoranze)  non hanno bisogno di lunghi
 commenti. Sono ragioni e finalita' tutte frustrate dal ricorso ad uno
 strumento che non risponde alle finalita' della riserva  posta  dalla
 costituzione,   anzi  e'  utilizzato  per  raggiungere  indebitamente
 obiettivi  in  contrasto con l'ordinamento costituzionale. L'indebito
 e'  aggravato  dalla  reiterazione,  contro  cui  le  proteste   piu'
 autorevoli  sono  continue, ma inefficaci, se non vi sara' un rimedio
 posto dalla Corte alla quale da anni il problema e' stato posto e che
 ha pronunciato una significativa decisione 10 maggio 1988, n. 203, in
 causa  promossa  dalla  stessa  regione  ricorrente,  alla  quale  ci
 riportiamo.  L'uso  indebito  di  uno strumento voluto per altri fini
 configura una peculiare forma di irragionevolezza che consiste in una
 consequenzialita' perversa, vale a dire nel  rifiutare  lo  strumento
 costituzionale e nello scegliere lo strumento, uno strumento a doppio
 titolo  illegittimo  (come  verra'  detto fra poco), che si manifesta
 singolarmente efficiente per raggiungere un fine contrario  a  quello
 della norma costituzionale e per rovesciare equilibri da essa voluti.
    Obiettare che nel caso in questione il decreto ha forza di legge e
 quindi  non  puo'  esservi  diversita' fra i suoi effetti e quelli di
 legge, non supera la considerazione per cui non basta  una  norma  di
 legge,  ma occorre una norma di principio posta dalla legge o da essa
 desumibile. Puo' essere significativo  notare  che  la  Corte,  nella
 sentenza  n.  100/1980, ha escluso che un d.P.R. potesse avere titolo
 per abrogare o contraddire una fonte locale in materia regionale  non
 essendo  neanche  dotato  di  forza  di  legge.  Il  che  vuol dire -
 proseguendo l'iter del ragionamento - che, se  anche  un  atto  fosse
 dotato  di forza di legge, questa attribuzione non avrebbe di per se'
 titolo sufficiente per porre quelle statuizioni di principio che solo
 una legge puo' fare. Non a caso in gran parte delle letture del testo
 costituzionale la conversione  del  decreto-legge  viene  vista  come
 novazione,  per cui ad una fonte ne viene sostituita un'altra con cui
 viene esercitata la funzione legislativa. Nel caso in cui  si  tratti
 di   principi,   la   legge   sola   e'  abilitata  per  porre  norme
 costituzionalmente  valide.  Una  fonte  sostitutiva  abilitata   per
 provvedimenti,  non  per  principi, e' contro il sistema. Il decreto-
 legge non ha titolo per alterare l'ordine dei  principi  fondamentali
 della materia.
    Orbene  e'  di  tutta  evidenza  che  quanto meno per la parte che
 attiene il condono non vi e' nessuna norma di  principio,  vi  e'  al
 contrario  un  provvedimento  che non necessita di atti di attuazione
 (tanto meno legislativi) ma solo  di  atti  di  applicazione  pura  e
 semplice.
    Per  quanto  riguarda  gli  altri aspetti del decreto-legge di cui
 discutiamo, privo dei requisiti costituzionali (su questo tema di  e'
 gia'  espresso  il Parlamento), esso e' irragionevole, perche' non vi
 e' assoluta urgenza di cambiare principi, tanto meno in  una  materia
 in cui le oscillazioni sono frequenti.
    2.  -  Se  per  avventura  le  necessita'  e l'urgenza vi fossero,
 andrebbe data una motivazione del  perche'  e'  stato  adottato  quel
 contenuto  e  non un altro, ovvero una motivazione adeguata del nesso
 che intercorre, secondo  il  governo  decretatore,  fra  il  rilancio
 dell'economia  e  la  modificazione  dei  principi fondamentali della
 normazione. Nel nostro caso tale motivazione manca  del  tutto.  Pare
 superfluo  insistere  nel  dire  che  in  questo caso, trattandosi di
 decreto-legge,  la  costituzione  esige  la   motivazione   dell'atto
 normativo,  la  cui mancanza incontestabile fa apparire a prima vista
 l'illegittimita'. E' palese che e' illegittimo  l'affastellamento  di
 frasi  come  "rilancio  delle  attivita'  economiche", "ripresa delle
 attivita'  imprenditoriali",  "incremento  della occupazione" (che al
 piu'  possono  riguardare  il  futuro  non   il   passato),   nonche'
 "semplificazione dei procedimenti", che da anni viene predicata ma di
 cui vi e' scarsa traccia.
    La  dottrina  ha  riconosciuto la sindacabilita' della motivazione
 del decreto-legge, specie  sotto  il  profilo  (e  i  limiti)  di  un
 giudizio   di   ragionevolezza   (Zagrebelsky,   Manuale  di  diritto
 costituzionale, I, Torino, 1987, p. 178; Raveraira, Il  problema  del
 sindacato  di  costituzionalita' sui presupposti della "necessita' ed
 urgenza" dei decreti-legge, Giur. cost., 1982, 1433  ss.,  p.  1461);
 aggiungendo  che "il sindacato teleologico di ragionevolezza dovrebbe
 estendersi anche a giudicare  i  profili  della  congruita'  e  della
 pertinenza  delle  disposizioni  rispetto  al  fine,  determinato dal
 Governo"  (ivi,  p.   1463;   nonche'   Lavagna,   ragionevolezza   e
 legittimita'  costituzionale, studi Esposito, Padova, 1972, 1579 ss.;
 in generale Sorrentino, La Corte costituzionale tra  decreto-legge  e
 legge di conversione: spunti ricostruttivi, dir. e soc., 1974, 526).
    E'  bene  sottolineare  che  il profilo che sottoponiamo all'esame
 della  Corte  non  e'  qui  (soltanto)  quello  della  mancanza   del
 presupposto  e  della  correlativa  asserzione  non  veritiera  sulla
 necessita'  e  sull'urgenza,  ma   quello   della   mancanza,   nella
 motivazione,  non gia' dell'indicazione dei presupposti di necessita'
 e di urgenza, ma di individuazione dei fini che il governo  si  pone.
 Dato  per ammesso che la necessita' e l'urgenza vi siano, cio' non fa
 fare un  passo  avanti  al  diverso  problema  se  l'uso  del  potere
 normativo sia stato motivato in modo ragionevole e coerente.
    Nel  nostro  caso,  questa  motivazione del contenuto del decreto-
 legge delle scelte e' inesistente e, se esiste,  insincera.  Se  c'e'
 una spiegazione del provvedimento di fronte all'opinione pubblica, e'
 la  conclamata  necessita'  per  l'erario  di  far  soldi. Di essa ha
 esplicitamente  parlato  il  Ministro  proponente  in  interviste  ai
 quotidiani,  in  cui e' stato detto testualmente "che il Ministro del
 tesoro batteva cassa e le sue esigenze non potevano essere ignorate e
 cosi' gli sono state assicurate entrate per 5-6  mila  miliardi".  Se
 questa  e' la vera motivazione, nel decreto non ve ne e' traccia. Dei
 fini si parla nelle interviste, non nella motivazione.  La violazione
 delle regole del principio di trasparenza, come tale, costituisce  un
 indicatore  rilevante  dell'irragionevolezza  e  dell'incoerenza  che
 resta tale anche domani,  nell'eventualita'  di  una  conversione  in
 legge,  la  quale non puo' sanare il vizio del decreto-legge. Infatti
 l'enunciato basato sul falso supposto e'  stato  inserito  nel  testo
 dell'atto normativo, incorporato in esso, fa parte del suo enunciato.
 La legge di conversione converte l'intero decreto, che viene allegato
 nella  sua  interezza, non distinguendo fra articolato, dispositivo e
 parte motiva.
    La legge e' costituita,  dunque,  dal  decreto-legge  e  dall'atto
 legislativo di conversione. Il decreto diventa parte integrante nella
 sua  totalita',  motivazione  compresa.  Di  questa motivazione della
 legge  e  puo'  essere  sindacata  la  coerenza,  la  fondatezza,  la
 ragionevolezza  in  relazione  a  qualsiasi  sua  parte, anche quella
 motiva: cosicche' la irragionevolezza della motivazione e'  rilevante
 non  solo  oggi,  ma anche rispetto alla futura ed eventuale legge di
 conversione, che nascerebbe incorporando i vizi di  incoerenza  e  di
 irragionevolezza.
    L'irragionevolezza  del  fine appalesata dalla inconsistenza della
 motivazione, porta ad escludere che esso sia  un  parametro  adeguato
 delle  singole  disposizioni  legislative  (Corte  costituzionale, 27
 marzo 1992, n. 133, Giur. cost., 1992, 1113 e  Corte  costituzionale,
 24  giugno  1992, n. 301) e a dimostrare che l'apprezzamento dei fini
 e'  inficiato  da  criteri  illogici,  arbitrari   e   contraddittori
 (sentenza   n.  14/1964),  quali  sono  quelli  che  nascono  da  una
 motivazione non veritiera,  arbitraria,  contraddittoria  che  assume
 come  fini  non  gia'  quelli  reali, pretermessi e negati, ma quelli
 individuati in contraddizione con la realta'.
    Dobbiamo aggiungere ancora che se la Corte piu' di  una  volta  ha
 ritenuto  l'esistenza  della irragionevolezza desumendola da elementi
 extratestuali, dai lavori preparatori (cfr., per tutte,  sent.  Corte
 costituzionale,  26  marzo  1980,  n.  42, in Giur. cost., 1980, 287;
 sent. Corte costituzionale, 7 luglio 1980, n. 107,  in  Giur.  cost.,
 1980,  1001;  sent.  Corte costituzionale, 30 luglio 1980, n. 133, in
 Giur. cost., 1980, 1132; sent. Corte costituzionale, 20 maggio  1982,
 n.  96,  in  Giur.  cost.,  1982, 957; sent. Corte costituzionale, 17
 novembre 1982, n. 188,  in  Giur.  cost.,  1982,  2041;  sent.  Corte
 costituzionale, 24 novembre 1982, n. 198, in Giur. cost., 1982, 2114;
 sent.  Corte  costituzionale,  9 dicembre 1982, in Giur. cost., 1982,
 2177; ord. Corte costituzionale, 29 dicembre 1982, n. 251,  in  Giur.
 cost.,  1982,  2375;  sent.  Corte costituzionale, 18 luglio 1984, n.
 223, in Giur. cost., 1984, 1551), alle circolari ministeriali  (sent.
 Corte  costituzionale  28  luglio 1976, n. 194, in Giur. cost., 1976,
 1207), a maggior ragione gli elementi testuali (come  e'  nel  nostro
 caso la motivazione palesemente incosistente) debbono essere presi in
 considerazione.
    3.  -  Va  sottolineato anche un altro profilo dell'illegittimita'
 dello strumento usato  impiegando  un  atto  governativo  laddove  la
 costituzione  esige  una  legge  cornice o quadro, che consiste nella
 violazione dell'art. 79. E' indubbio  che  l'illegittimo  decreto  n.
 551/1994  introduce  una sanatoria che opera nell'area dei reati come
 in quella degli illeciti amministrativi uniti in  modo  inestricabile
 dal  decreto,  che  produce  i suoi effetti in un'area ove esiste una
 riserva di legge a maggioranza aggravata  posta  dall'art.  79  della
 Costituzione.
    Alla  violazione  della  riserva di legge quadro viene aggiunta la
 violazione di legge rinforzata, l'una e l'altra sostituite da un atto
 governativo, che estromette il parlamento o, comunque,  non  rispetta
 le regole di maggioranza qualificate.
    4.  - Le pesanti modificazioni all'ordinamento di settore vigente,
 e cioe' al complesso principi generali statali-normazione  regionale,
 violano  le  competenze  garantite  alle  regioni  dall'art. 117, con
 riferimento  al  rovesciamento  di  principi  posti  da   una   lunga
 tradizione  normativa,  che  ha posto un assetto della regolazione la
 cui coerenza e' stata  riconosciuta  dalla  Corte  corrispondente  ad
 esigenze  di  buon  andamento  e di corretto impiego delle potesta' e
 delle   disponibilita'   finanziarie,   violando   l'art.   117,   in
 correlazione con gli artt. 97 e 3.
     Scendendo ad esaminare i singoli articoli, va detto anzitutto che
 nel  capo  I relativo al condono viene prevista una riapertura ed una
 estensione del condono  edilizio  a  tutti  gli  immobili  costituiti
 abusivamente  sino  al 31 dicembre 1993. Viene disposta per legge una
 concessione   in   sanatoria   a   coloro   che  abbiano  corrisposto
 l'oblazione;  la  sanatoria,   conseguenza   dovuta   dell'oblazione,
 estingue  i  reati  contravvenzionali e la caducazione delle sanzioni
 amministrative pecuniarie e non, con un congegno di  autodenuncia  al
 comune, richiesta di concessione e autotassazione dell'oblazione.
    La  disposizione non concerne solo i soggetti che abbiano eseguito
 opere abusive tra la data di  ultimazione  prevista  dalla  legge  n.
 47/1985  (1  ottobre  1983)  e il nuovo termine posto dalla legge. Ma
 anche coloro che non avevano ritenuto  di  usufruire  del  precedente
 condono,  ed erano pertanto soggetti alle sanzioni previste dall'art.
 40, primo comma. Cosicche', per gli uni e per gli altri, l'effetto e'
 la sottrazione all'assoggettamento alle sanzioni previste dal capo  I
 della legge n. 47/1985.
    Tutte  le sanzioni vengono caducate o private di effetti, in forza
 di una legge che non pone un principio per la  normazione  regionale,
 ma si limita a sottrarre puramente e semplicemente i poteri regionali
 su  tutta  un'area  alla  normazione medesima, sostituendo alle norme
 sulle sanzioni  amministrative,  alla  loro  irrogazione,  alla  loro
 misura,  una  norma  che  impone  di  non  irrogare sanzioni e di non
 richiedere ne' riscuotere sanzioni  pecuniarie.  Le  regioni  vengono
 private di poteri, di doveri, di risorse politiche.
    Nel  caso  di specie, e' indubbio che la disciplina delle sanzioni
 attinenti alla materia urbanistica, trasferita alle regioni  ex  art.
 117  della  Costituzione,  debba  essere  (e  sia  effettivamente) di
 competenza delle stesse.
    Lo dice esplicitamente, del resto, l'art. 1 della legge n. 47/1985
 (che affida alle regioni la funzione di emanare norme "in materia  di
 controllo  dell'attivita'  urbanistica  ed  edilizia  e  di  sanzioni
 amministrative").
    E' vero che la regolazione regionale delle sanzioni deve  avvenire
 "nel  rispetto  dei  principi  fondamentali stabiliti dal legislatore
 nazionale" (sent. n. 123/1992). Ma cio'  che  si  e'  verificato  per
 effetto  del  decreto-legge  impugnato  non  e'  una  indicazione  di
 principi, all'interno della quale viene  preordinato  lo  spazio  per
 l'operativita'  del  potere-dovere  sanzionatorio regionale. Non c'e'
 nessuna indicazione di principi nel  decreto-legge.  Esso  oltre  che
 essere,  come  abbiamo  detto,  strumento  intrinsecamente inidoneo a
 porre principi, nel caso singolo, nelle  sue  disposizioni  concrete,
 non  li  pone  affatto.  C'e'  invece,  puramente e semplicemente, la
 sostanziale  e  protratta  sottrazione  dell'esercizio   del   potere
 sanzionatorio  in  materia  di  loro  competenza alle regioni, con la
 previsione di un condono che, da misura eccezionale (tale qualificata
 nella relazione illustrativa alla legge n. 47 e  dalla  stessa  Corte
 nella  sentenza  n.  369/1988),  diviene invece la regola per tutti i
 comportamenti abusivi  anche  successivi  al  1983  (che  consentira'
 facili  estrapolazioni  sul  futuro  an, con inevitabili ripetizioni,
 tollerando, al piu', un'incertezza sul quando, sul momento in cui  il
 nuovo colpo di spugna verra' elargito a chi ha saputo attendere).
    Secondo  il decreto, la regione non puo' piu' legiferare in nessun
 modo, non puo' introdurre sanzioni meno severe  o  piu'  severe:  non
 puo'  esercitare  i  suoi  poteri  di  indirizzo. Tutto cio' le viene
 sottratto e preso dallo Stato,  annullando  gli  effetti  degli  atti
 regionali  (ad  esempio rendendo oggetto di condono le opere eseguite
 con  licenza,  concessione od autorizzazione che sia stata annullata,
 sia decaduta o comunque divenuta inefficace, ovvero per le quali  sia
 in corso procedimento per annullamento o decadenza).
    Dire  che  in  astratto  le  regioni  restano  titolari del potere
 sanzionatorio  quando  in  concreto  si  reitera   la   facolta'   di
 sottrarvisi  con  il pagamento di una oblazione il cui gettito spetta
 invece all'erario ( ex art. 1, settimo comma, del d.l.,  e  art.  1,
 sesto  comma,  del d.l. n. 468/1994), significa negare e contraddire
 nella sostanza l'osservanza sia degli artt.  117,  118  e  119  della
 Costituzione, sia del principio di leale cooperazione che la Corte ha
 sottolineato   piu'   volte   come   regola   etica  e  giuridica  di
 comportamento dello  Stato  e  delle  regioni  in  ogni  attivita'  -
 compresa  quella  legislativa  -  in  cui  interferiscono  competenze
 statali e regionali;  anche  per  questo  punto  di  riportiamo  alla
 ricordata sentenza n. 302/1988.
    5.  - Oltre che nel capo II relativo alla regolazione urbanistica,
 anche nel capo I relativo al condono vengono inserite altre norme che
 violano le competenze  regionali.  L'art.  3  prevede  che  i  comuni
 individuino le zone maggiormente interessate dall'abusivismo, ai fini
 della  realizzazione di programmi di intervento. Si tratta di atti di
 incerta collocazione, che paiono istituire un nuovo tipo di strumenti
 urbanistici. Non si tratta, infatti, semplici programmi di  spesa  di
 opere  pubbliche,  limitati  a  stanziamenti  di somme per realizzare
 progetti gia' localizzati. Comunque, in entrambi i casi, sia sotto il
 profilo dell'urbanistica, sia sotto quello dei  lavori  pubblici,  si
 tratta   di   competenze   previste  negli  artt.  117  e  118  della
 Costituzione. Se questi programmi  determinassero  (come  sembra)  le
 modificazioni  di precedenti previsioni urbanistiche, costituirebbero
 una "causa di alterazione del  quadro  dei  rapporti  tra  competenze
 attribuite  alle  regioni  ed agli enti locali nel vigente sistema di
 programmazione urbanistica, nelle sue articolazioni territoriali e di
 settore", per usare le parole della sentenza n.   393/1992. La  quale
 proseguiva  rilevando  "chiara l'irrazionalita' ed il contrasto della
 normativa che la produce con il principio  di  buon  andamento  della
 pubblica amministrazione".
    L'enunciato  del  decreto n. 551/1994 e' incerto e confuso. Non si
 sa da chi vengano approvati questi programmi, con quali effetti e con
 quali scopi. Il decreto nell'art. 3, secondo comma, dice  che  "entro
 tre  mesi  dalla  data  di entrata in vigore del presente decreto, il
 Ministro dei lavori pubblici determina, con proprio decreto,  sentita
 la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le
 province  autonome  di Trento e di Bolzano ed i comuni interessati, i
 criteri di formazione e i  contenuti  dei  programmi  di  intervento,
 nonche' le modalita' di concessione dei finanziamenti". Il terzo e il
 quarto  comma  aggiungono  che "per la realizzazione dei programmi di
 cui al secondo comma si provvede utilizzando le somme, eccedenti  gli
 importi  di  lire 2.550 miliardi per il 1994 e di lire 5.915 miliardi
 per il 1995, relative agli introiti derivanti dall'art. 1.
    Le somme di cui al terzo comma, versate all'entrata  dello  Stato,
 sono  riassegnate,  con  decreto del Ministro del tesoro, ad appositi
 capitoli dello stato di previsione del Ministero dei lavori  pubblici
 per l'anno 1994 e corrispondenti capitoli per gli anni successivi".
    Tutta   la  materia  viene  sottratta  all'attivita'  normativa  e
 amministrativa delle regioni, violando gli artt. 117 e  118  con  una
 normazione   irragionevole,  basata  sull'ignorare  completamente  la
 competenza regionale (alla quale viene riservato un ruolo  marginale,
 neppure  di  parere,  ma  di un semplice "sentito", all'interno della
 conferenza Stato-regioni) attribuendo al Ministro un potere normativo
 di  attuazione  della  legge  e  in  realta'  di   determinazione   e
 conformazione  di  una  scatola  vuota  di cui viene solo indicato il
 nome.
    Si tratta di un potere illegittimo che  e'  non  configurabile  in
 materie  trasferite  alle  regioni.  L'illegittimita'  denunciata  si
 aggiunge a quella della incoerenza della normativa, che istituisce un
 programma senza  dire  che  cosa  intenda  programmare,  se  opere  o
 insediamenti,  sapendo  solo  che  entro  tre  mesi il Ministro fara'
 conoscere il contenuto e le modalita' per erogare i finanziamenti che
 egli dara', in materia di competenza regionale e quindi con ulteriore
 violazione dell'art. 119 sia sotto il profilo della spesa  sia  sotto
 quello dell'entrata.
    La statuizione dell'art. 3, quarto comma, prevede un impiego degli
 introiti derivanti dalle domande di condono affidato all'arbitrio del
 Ministro.
    Il quale, in violazione del principio di legalita', determina esso
 stesso  con  suo decreto a che cosa debbano essere volti i programmi,
 che, sempre a suo arbitrio, finanziera': con nuova totale  esclusione
 delle regioni e con un rovesciamento delle norme finanziarie connesse
 alle  leggi  come  la  n.  457/1978,  poste  dalle leggi regionali in
 attuazione di una legislazione concorrente coerente.
    6. - Lo  stesso  filo  conduttore  di  sottrazione  di  competenze
 istituzionali  regge  l'enunciato  dell'art.  4, anch'esso esempio di
 confusione. Nel primo comma,  l'articolo  prevede  che  "in  caso  di
 inadempienze"  (quali  e  da  chi  commesse  il  testo  non  dice; se
 dovessimo pensare a previsioni sulla materia intera avremmo  evidenti
 sovrapposizioni  e  interferenze)  venga  nominato  dal  Ministro  un
 commissario ad acta per l'adozione di provvedimenti di competenza del
 sindaco. Anche in questo caso viene invasa in modo grossolano un'area
 di competenza della  regione  che  ha,  e  deve  avere,  funzioni  di
 controllo  e  sostitutive,  sia  per la regolazione delle competenze,
 come e' stata effettuata dal d.P.R. n. 616, sia per la  coerenza  del
 sistema  di  regolazione  della materia urbanistica, con la posizione
 che la regione in essa deve avere agli effetti della  vigilanza,  del
 controllo e delle repressioni.
    La   lesione   delle   competenze  regionali  e'  aggravata  dalla
 previsione dell'art. 5, che prevede  lo  scioglimento  del  consiglio
 comunale  nel caso in cui "gli enti territoriali siano sprovvisti dei
 relativi strumenti urbanistici generali e non adottino tali strumenti
 entro diciotto mesi dalla data di elezione degli organi".
    In tal caso, applicandosi il disposto dell'art. 39 della legge  n.
 142/1990,  l'adozione dello strumento urbanistico e' di competenza di
 un soggetto nominato da organi statali, completamente al di fuori del
 sistema delle autonomie regioni-enti locali, delle leggi che regolano
 la materia, delle decisioni della Corte.
    7. - L'art. 5, terzo comma, del decreto-legge impugnato  introduce
 il  silenzio-assenso  come  modo  normale  di  approvazione del piano
 regolatore da parte  della  regione  una  volta  decorsi  centottanta
 giorni dalla trasmissione del piano adottato.
    Viene  in  tal  modo  depotenziato e svilito a mero certificato di
 controllo, rilasciabile anche nella forma  del  silenzio-assenso,  il
 contributo  regionale  all'attivita'  di  formazione  degli strumenti
 urbanistici, e in particolare del piano regolatore generale:  e  cio'
 malgrado il diritto vivente abbia da tempo e lungamente insistito con
 una   lunga   serie   di  autorevoli  sentenze  sul  fatto  che  "nel
 procedimento di formazione del piano regolatore (o di altro strumento
 di pianificazione  urbanistica  a  carattere  generale)  l'ambito  di
 attivita'    di   competenza   della   regione   non   si   esaurisce
 nell'assolvimento di funzioni di mero  controllo  circa  il  corretto
 svolgimento  dell'attivita' di pianificazione da parte del comune, ma
 comporta invece l'esercizio di potesta' primaria di pianificazione  e
 programmazione che si attua anche attraverso l'esercizio di poteri di
 modifica  d'ufficio"  (T.A.R.  Lazio,  sez. II, 19 settembre 1992, n.
 1852, T.A.R., 1992,  I,  3815),  giungendo  a  qualificare  il  piano
 regolatore generale come atto complesso a complessita' ineguale (cfr.
 cons.  Stato,  sez. IV, 1 giugno 1989, n. 356, foro amm., 1989, 1691;
 cass., 11 novembre 1977, n. 5874, giust. civ., 1977, I,  1811;  cass.
 sez.  un.,  7  marzo  1968, n. 129, giust. civ., 1968, I, 1464; cons.
 Stato, sez. IV, 16 dicembre 1980, n. 1209, giur. it., 1980,  III,  I,
 52;  id.,  22  ottobre 1974 n. 668, foro amm., 1974, I, 2, 1072; id.,
 sez. V, 19 ottobre 1973, n. 700, cons. Stato, 1973,  I,  1347;  cons.
 Stato,  sez.  IV, 27 ottobre 1965, n. 654, giur. it., 1966, III, 185;
 cons. Stato, sez. IV, 16 maggio 1962, n. 353, cons. Stato,  1962,  I,
 879; id., 1 febbraio 1961, n. 60, giur. it., 1962, III, 157).
    Dalla  natura  di  atto  complesso discende la necessita' che esso
 formi oggetto "di una autonoma valutazione da parte di  ciascuno  dei
 diversi  soggetti  chiamati dall'ordinamento a porlo in essere, sulla
 base di un diretto e approfondito esame,  pur  esso  autonomo,  della
 situazione  dei  luoghi" (cons. Stato, sez. IV, 27 settembre 1961, n.
 427, foro amm., 1961, I, 1369); e discende pure - come stabilisce  la
 legislazione  urbanistica  sin  qui  vigente  -  che  la regione puo'
 apportare al piano adottato modifiche d'ufficio  in  cui  "sovrappone
 definitivamente  la  propria  volonta'  a  quella  del comune" (cons.
 Stato, sez. IV, 14 ottobre 1992, n. 879, foro it., 1993, III, 271).
    Questo carattere  essenziale  della  partecipazione  regionale  al
 procedimento  di  pianificazione  viene  totalmente  disatteso  dalla
 modifica introdotta con l'art. 5, terzo comma, del  decreto-legge;  e
 viene  in  tal  modo  vanificato  e annullato un aspetto determinante
 dell'esercizio regionale  del  potere-dovere  di  pianificazione  del
 territorio,  che  e' a sua volta elemento determinante delle funzioni
 in materia urbanistica trasferite alle regioni ai sensi dell'art. 117
 della Costituzione.
    8. - L'art. 6 del d.l.  viola  un  principio  che  universalmente
 veniva  considerato fermo, il rispetto del giudicato e del limite dei
 rapporti  esauriti,  con  un'invasione  delle  competenze  regionali.
 Infatti  la  statuizione  interferisce con le funzioni amministrative
 della regione. Ad esempio, gli atti di  annullamento  di  concessioni
 edilizie che fossero stati effettuati dalla regione sulla base di una
 sentenza  passata in giudicato che avesse accertato la nullita' di un
 trasferimento di immobili a norma dell'art. 17 e dell'art. 40,  della
 legge  n.  47/1985  con correlativo successivo annullamento regionale
 della concessione rilasciata ad un proprietario che tale non  era  in
 violazione  dell'art.  4, della legge n. 10/1977, verrebbero travolti
 dall'eversiva statuizione dell'art. 6.
    A parte l'esempio, in cui appare evidente il sovvertimento  di  un
 principio  dell'ordinamento  che  e',  per usare la definizione altra
 volta data dalla  Corte,  principio  di  civilta'  giuridica,  si  ha
 lesione dell'affidamento nell'esercizio dei propri poteri che compete
 ai  soggetti  costituzionali,  con  una  violazione delle norme degli
 artt. 3, 97, 117, 118 della Costituzione, nonche' dell'art. 24 inteso
 con riferimento alle garanzie che l'ordinamento deve  apprestare  per
 la   tutela   giurisdizionale   a  livello  generale,  non  solo  con
 riferimento alle singole situazioni soggettive.
    9. - Nell'art. 7, decimo comma, viene previsto che  "le  pubbliche
 amministrazioni  di  cui  all'art.  1,  secondo  comma,  del d.lgs. 3
 febbraio 1993, n. 29, provvedono, per quanto di loro  competenza,  ad
 esaminare,  entro e non oltre novanta giorni dalla data di entrata in
 vigore del presente  decreto,  i  casi  relativi  alle  procedure  di
 affidamento e di esecuzione delle opere pubbliche che, pur rientrando
 nelle  ipotesi  di cui al presente articolo, possono essere riavviate
 con provvedimento amministrativo sulla base dei principi indicati nel
 prsente articolo, anche su istanza delle imprese interessate".
    A differenza che nel testo del corrispondente art.  6,  undicesimo
 comma, del d.l. n. 468/1994, in cui poteva esserci il dubbio che tra
 le pubbliche amministrazioni menzionate non vi fossero le regioni, il
 rinvio  all'art.  1,  secondo  comma,  del  d.lgs.  n.  29/1993 rende
 inequivocabile la natura del riferimento come comprensivo anche delle
 regioni.
   Ne segue che viene  posta  in  essere  una  normazione  incoerente,
 confusa   e   irragionevole   che   pretenderebbe  di  avere  effetti
 immediatamente  operativi   anche   per   le   regioni   e   per   le
 amministrazioni  che  hanno  funzioni  relative ad opere pubbliche di
 competenza regionale ex art. 117 della  Costituzione,  con  invasione
 della  sfera  regionale,  sottrazione della competenza normativa, una
 delegificazione che sottrae alle leggi regionali  un'area  che  viene
 affidata   al   provvedimento   amministrativo,  con  violazione  del
 principio di legalita' e degli artt. 117 e 118 della Costituzione.
    10. - L'art. 8 e'  del  pari  illegittimo,  nella  misura  in  cui
 contiene  irragionevoli  disposizioini  di dettaglio, anzi di estremo
 dettaglio (e valga,  a  titolo  meramente  esemplificativo,  indicare
 l'ottavo comma dell'art. 8, che interviene dettando regole in materia
 di  "corti urbane, purche' di pertinenza del fabbricato originario"),
 che pretendono di imporsi alle regioni in  materia  trasferita  nella
 quale  lo  Stato  ha  esclusivamente  il  potere  di  porre  norme di
 principio.
    La  norma  e'  ulteriore  dimostrazione   della   irragionevolezza
 dell'intera  architettura  e  del  contenuto  normativo  del  decreto
 impugnato.
    11. - L'art. 9 rovescia la logica posta dall'art. 4 della legge n.
 493/1993.
    Questo aveva escluso completamente il silenzio-accoglimento  nella
 submateria  della concessione edilizia, dopo un periodo di estensione
 transitoria disposta dalla legge n. 94/1982. Quest'ultima, pero',  si
 riferiva  al  silenzio  accoglimento  nei  casi in cui la concessione
 fosse atto dovuto  per  l'esecuzione  di  uno  strumento  urbanistico
 direttamente operativo. Con l'illegittimo d.l. n. 551/1994 il metodo
 del silenzio-assenso viene esteso ad ogni e qualsiasi caso.
    Chiunque  puo' presentare una domanda di concessione e, decorso il
 termine indicato, e' abilitato a costruire in forza della regola  del
 silenzio-assenso  posta  dall'art.  4,  primo  comma, del nuovo testo
 della legge n. 493/1993 riscritto dal terzo  comma  dell'art.  9  del
 d.l. n. 551/1994. La prova del titolo all'edificazione e' data dalla
 copia dell'istanza presentata da cui risulti la data del deposito.
    Anche  se  la  domanda  di concessione non fosse conforme al piano
 regolatore oppure se un piano valido ed efficace mancasse, oppure  se
 il   piano  richiedesse  una  ponderazione  e  la  concessione  fosse
 tutt'altro che atto dovuto (come e' nella normalita'  dei  casi),  il
 silenzio-assenso opera sempre.
    In questa incoerente ed irragionevole sostituzione, e' profonda la
 diversita'  con  il  metodo della legge n. 94/1982. Esso prevedeva il
 silenzio-accoglimento nei casi di  "interventi  da  attuare  su  aree
 dotate  di  strumenti  urbanistici attuativi vigenti ed approvati non
 anteriormente all'entrata in vigore della legge  6  agosto  1967,  n.
 765, nonche' quando la concessione o autorizzazione e' atto dovuto in
 forza   degli   strumenti   urbanistici   vigenti   e  approvati  non
 anteriormente alla predetta data".  Altro  e'  superare  una  impasse
 dovuta ad una inattivita' dell'amministrazione in un caso particolare
 (che  puo'  essere  ragionevole  perche'  utile  metodo per aumentare
 l'efficienza), altro elevare il silenzio-assenso  a  regola  normale,
 arrivando   ad   una  normativa  per  cui  ben  si  puo'  parlare  di
 incostituzionalita' per abuso di silenzio-assenso.
    Con  l'illegittimo  decreto-legge,  il  meccanismo   consente   la
 costruzione  immediata,  decorso  il  termine,  con  un  congegno che
 depotenzia tanto il momento  della  ponderazione  quanto  quello  del
 controllo.  La  legislazione  urbanistica,  per  lunga  e consolidata
 tradizione, e' fondata sulla esistenza di una fase di predisposizione
 di previsioni vincolanti con i piani  e  su  un'altra  di  attuazione
 attraverso  il  rilascio  di  concessioni o di autorizzazioni. Queste
 debbono essere conformi al piano e, se discrezionali, debbono  essere
 ponderate  al  momento  del  rilascio.  Invero  se  in taluni casi la
 concessione puo' essere configurata, in relazione alle  singole  con-
 crete  previsioni  di  quel  determinato  piano, come atto dovuto, in
 altri casi e' discrezionale; e' sempre subordinata ad accertamento di
 fatto a norma dell'art. 31, quinto comma, legge urb., ad esempio  con
 conseguenti illegittimita' di una concessione di costruzione "in zona
 non servita, o insufficientemente servita, da opere di urbanizzazione
 primaria"  (cons.  Stato, sez. V, 4 gennaio 1993, n. 26, in foro it.,
 1993, III, 573 ss.); ed  e'  sempre  subordinata  a  ponderazioni  in
 relazione alle previsioni.
    Il   rilascio  della  concessione  presuppone  un'istruttoria  per
 l'accertamento della sussistenza dei requisiti.
    Per addurre un esempio, secondo l'art. 9 della variante p.r.g. del
 capoluogo della Toscana, gli interventi di  risanamento  conservativo
 per  i quali si prevede con concessione gratuita "sono quelli rivolti
 a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne  la  funzionalita'
 mediante  un  insieme  sistematico  di  opere  che, sulla base di una
 attenta  analisi  storico-critica  e  nel  rispetto  degli   elementi
 tipologici,  formali  e strutturali dell'organismo stesso, consentano
 destinazioni d'uso con essi compatibili", la  cui  compatibilita'  va
 determinata; "E' consentito l'uso di solai in cemento armato, ferro e
 misti,  in  sostituzione  di preesistenti strutture in legno, qualora
 non vi siano elementi di interesse architettonico, pittorico, storico
 che comunque saranno oggetto di analisi  preventiva  da  parte  degli
 uffici  competenti,  ai  fini del parere della commissione edilizia",
 art. 29, lett. o).
    Nella  maggioranza  dei  casi  non  basta   l'accertamento   della
 sussistenza  dei  requisiti:  occorrono  valutazioni  discrezionali o
 ponderazioni, per usare il linguaggio pertinentemente impiegato dalla
 Corte. Sempre per addurre ad esempio le previsioni del piano  citato,
 le  "concessioni  che  comportino  mutamenti  di destinazione possono
 essere non rilasciate se a causa del tipo di  attivita'  svolta,  dei
 movimenti  di  traffico indotti, delle nocivita' e rumorosita', o per
 altro motivo, le destinazioni  possano  alterare,  in  modo  dannoso,
 l'equilibrio  urbanistico  della  zona  limitrofa  all'edificio o dei
 tessuti storici e consolidati", art. 30,  secondo  comma;  oppure  "i
 parcheggi  multipiano  sono condizionati alle esigenze funzionali, ed
 alla compatibilita' con la viabilita' e con  i  valori  ambientali  e
 paesistici   della   zona   circostante",   art.  68,  ottavo  comma;
 altrettanto per i progetti di parcheggi privati, art. 69, nono comma.
    Del pari e' evidente che la concessione per un opificio  ben  puo'
 contenere  "la  prescrizione secondo cui la rumorosita' dell'opificio
 stesso durante le fasi di  lavorazione  a  pieno  regime  non  dovra'
 superare   i  valori  determinati"  (cons.  giust.  amm.  sic.,  sez.
 giurisdiz., 1 marzo 1993, n. 103, in  giur.  amm.  sic.,  1993,  62);
 cosi'  come  il piano puo' prevedere una convenzione come presupposto
 per il rilascio di concessione ai fini produttivi, cons. Stato,  sez.
 V,  19  settembre  1992,  n.  839,  in  foro  amm., 1992, 1936. Senza
 soffermarsi su fattispecie singole, puo' essere sufficiente ricordare
 che le sezioni unite della Corte  di  cassazione  considerano  sempre
 discrezionale  il rilascio della concessione (cfr. cass., sez. un., 5
 marzo 1993, n. 2667, in foro it., 1993, I, 3062, "il privato non  ha,
 neppure  di  fronte a strumenti urbanistici che prevedono determinate
 edificabilita', un diritto soggettivo al rilascio  della  concessione
 edilizia,    potendo    comunque    la    pubblica    amministrazione
 discrezionalmente determinare le concrete modalita' di esercizio  del
 richiesto diritto").
    Di  fronte  a queste constatazioni sulla necessita' del momento di
 ponderazione, e' evidente che il prevedere che il progettista  assuma
 la funzione di legittimare il silenzio accoglimento ("alla domanda di
 concessione  edilizia  e'  allegata  anche  una relazione a firma del
 progettista  che  asseveri  la  conformita'   degli   interventi   da
 realizzare  alle  prescrizioni  urbanistiche  ed edilizie, nonche' il
 rispetto della norme di sicurezza e sanitarie"), e' insufficiente. Il
 progettista potra' dire al piu' che esiste una norma che  costituisce
 un  quadro  e  una  base che consente all'autorita' amministrativa la
 ponderazione  degli  interessi.  Anche  ammesso  che  sia   legittimo
 sostituire   alla   norma   vigente   (che   prevede  un  certificato
 dell'amministrazione che deve applicare e interpretare la legge)  una
 nuova  statuizione che prevede invece una relazione di persona che e'
 tecnicamente o professionalmente  valida  per  progettare  interventi
 costruttivi,  meno  per interpretare norme, resta sempre indubitabile
 che il momento della ponderazione viene  abbandonato  e  pretermesso,
 con uno sconvolgimento del sistema.
    Sarebbe  superfluo  ripetere  che la necessaria strutturazione con
 una  fase  istruttoria  e   di   ponderazione   deriva   direttamente
 dall'insegnamento   della   Corte,   nel   quadro   del  collegamento
 riaffermato dalla giurisprudenza della Corte fra  l'accertamento  del
 rispetto   dell'art.   97   della  Costituzione  e  il  sindacato  di
 ragionevolezza.
    L'insegnamento della Corte viene disatteso con l'istituzione di un
 silenzio-assenso che impedisce un esame dettagliato e puntuale di cui
 parla la sentenza n. 392/1992 e  che  pone  previsioni  accelerativo-
 derogatorie,  che  di  fatto  sono contrarie al buon andamento e alla
 ragionevolezza di  un  assetto  normativo  in  area  di  legislazione
 concorrente.  Del  resto  questo  giudizio non positivo sul silenzio-
 assenso e' stato dato dalla Corte di giustizia europea nella sentenza
 28 febbraio 1991, causa n. 360/1987.
    La normazione "non europea" dell'art.  9  del  d.l.  n.  551/1994
 stravolge  il sistema sinora seguito dalla normazione urbanistica con
 una diversificazione di momenti, che ne  costituisce  una  normazione
 sulla  base  di  una  lunga tradizione della legislazione urbanistica
 (per usare la formula impiegata dalla Corte) per cui  pianificazione,
 attuazione  ed esecuzione sono momenti che debbono rimanere separati.
 Nel nostro caso, invece, l'accoglimento della concessione, diventando
 automatico, priva il rilascio dell'atto concessorio del  momento  del
 riscontro  alla  conformita'  al  piano, che potrebbe addirittura non
 esserci (o potrebbe, quanto meno, non esserci come strumento efficace
 e/o valido). In altre parole, potrebbe effettuarsi il deposito di una
 domanda di concessione contraria al piano o in regime di  assenza  di
 normativa  di  piano  efficace  e  valido  e produrre automaticamente
 l'accoglimento,  senza  che  vi  sia   stato   ne'   controllo,   ne'
 ponderazione  sulla concessione che viene rilasciata con il silenzio,
 automaticamente, cosicche' la concessione silenziosa  viene  a  tener
 luogo di uno strumento pianificatorio che non c'e', oppure, di fatto,
 vi  deroga.  Tutto cio' e' precluso ad una legge statale che non puo'
 derogare   "al   principio   di   distinzione   tra    programmazione
 territoriale,  come  diretta  a  regolare la destinazione e l'uso del
 territorio, e legittimazione all'esecuzione dell'opera, conferita  al
 soggetto  interessato  con il rilascio dell'atto amministrativo senza
 il controllo di coerenza dell'intervento specifico con gli  indirizzi
 programmatici,     controllo    particolarmente    necessario,    per
 l'osservanza, che esso consente,  del  precetto  dell'art.  4,  primo
 comma, della stessa legge n. 10/1977, secondo il quale la concessione
 e'  data in conformita' alle previsioni degli strumenti urbanistici e
 dei regolamenti edilizi" (sentenza n. 393/1992).
    Se e'  illegittima  (come  lo  e'  in  forza  della  sentenza  ora
 ricordata) una normativa che consenta all'atto con effetti concessori
 di   derogare  ad  uno  strumento  di  pianificazione,  non  e'  meno
 illegittima e irragionevole una pianificazione che attribuisce ad una
 concessione  silenziosa  in  fatto  lo  stesso  valore   derogatorio,
 legittimando  l'inizio  di una edificazione derogatoria, o per meglio
 dire contraria, al piano regolatore.
    12. - Non diverse sono  le  conclusioni  per  quanto  riguarda  la
 statuizione  del  primo  comma  dello stesso art. 9 per l'abrogazione
 della norma di principio posta dall'art. 13 della legge  n.  10/1977.
 La   scansione   temporale   e'   elemento   fondamentale   di   ogni
 programmazione. Essa e' l'individuazione di finalita' od obiettivi da
 raggiungere  con  determinati  mezzi  in  un  determinato  tempo.  Il
 congegno  del  programma  pluriennale  di  attuazione  costituisce la
 risposta  a  questa  esigenza  di  determinazione  del  tempo  e   di
 correlativo   apprestamento   concreto   e  reale  di  disponibilita'
 finanziarie  tali  da  evitare  che  il  piano  diventi  una  sterile
 operazione puramente grafica.
    L'elemento   temporale   fa  parte  anch'esso  della  tradizionale
 configurazione dell'assetto urbanistico che deve investire  tanto  lo
 spazio  quanto il tempo. Originariamente, nella struttura della legge
 urbanistica del 1942, esso era affidato all'articolazione  del  piano
 particolareggiato  che  conteneva un piano di spesa. Successivamente,
 per le ben note difficolta' della  finanza  locale,  la  funzione  di
 regolazione  dell'attuazione  nel  tempo  ha trovato un assetto nella
 dimensione temporale, che adesso viene scardinata in modo  improvviso
 ed  irragionevole.  Nel  diritto  vivente  (ricordiamo  per  tutte la
 sentenza del cons. di Stato, sez. IV, 5 novembre  1991,  n.  882,  in
 riv.  giur.  urb.,  1993,  I,  235  ss.),  "pur se il p.p.a. e' stato
 introdotto con la legge n. 10/1977, la potesta'  di  distribuire  nel
 tempo  gli  interventi  sul  territorio era gia' contenuta per grandi
 linee, nel potere di pianificazione di cui alla legge 17 agosto 1942,
 n. 1150. Ogni piano regolatore, invero, benche' destinato a valere  a
 tempo  indeterminato,  in effetti non contempla che gli interventi la
 cui attuazione e' prevedibile nel momento  in  cui  lo  strumento  e'
 redatto,  talche'  l'amministrazione  gode  di ampia discrezionalita'
 nello scegliere, in pratica,  il  limite  temporale  entro  il  quale
 circoscrivere tali previsioni".
    Il   potere   di  pianificare  la  graduazione  cronologica  degli
 interventi sul territorio e', dunque, implicito nel  concetto  stesso
 di  pianificazione  urbanistica,  mezzo  per "uno sviluppo ordinato e
 razionale del territorio", e non (solo) un mezzo per  "perseguire  la
 politica finanziaria" dei comuni. Se e' pur vero che una gestione dei
 suoli  improntata  a  criteri  di  economicita'  rientra  tra  i fini
 istituzionali dei comuni in generale, deve  in  ogni  caso  ritenersi
 interesse   prioritario   uno   sviluppo   organico,  e  questo  deve
 soprattutto rispondere alle esigenze  della  collettivita',  esigenze
 che  non  ricomprendono semplicemente il c.d. "diritto alla casa", ma
 anche un ambiente salubre, un paesaggio il piu' possibile  intatto  e
 via dicendo.
    Scardinare  questo  sistema senza motivazione, in modo affrettato,
 non risponde ai criteri di ragionevolezza e di buon andamento.
    Il fatto che possano essere migliorati i congegni  (vigenti  prima
 dell'avventato   decreto-legge)   di  risposta  alla  esigenza  della
 considerazione della dimensione temporale, non consente  di  ritenere
 ragionevole   la   negazione   pura  e  semplice  delle  esigenze  di
 regolazione temporale sotto il profilo dell'attuazione ordinata delle
 previsioni, con riferimento alle manovre di spesa  di  urbanizzazione
 che  i  comuni possono determinare con riferimento alla scansione nel
 tempo. Tanto  meno  consente  di  ritenere  ragionevole  un'immediata
 abrogazione  della  norma  sui programmi pluriennali, con conseguente
 rischio di annullamento di quelli vigenti e  con  una  situazione  di
 immediata paralisi e confusione.
    Sulla sospensione:
    1.   -   Del   provvedimento  impugnato  deve  essere  chiesta  la
 sospensione,  in  considerazione  della  gravita'  degli  effetti  di
 turbativa  dell'ordine costituzionale delle competenze e di disordine
 sulla corretta amministrazione della materia oggetto del decreto  che
 esso   produce,   rovesciando   il  sistema  in  vigore,  consentendo
 l'immediato uso del silenzio-assenso e  l'immediata  decadenza  degli
 strumenti   di   programmazione  temporale,  con  uno  sconvolgimento
 aggravato dalla reiterazione.
    L'ammissibilita' del potere cautelare della  Corte  costituzionale
 quale giudice delle leggi e' stata riconosciuta dalla piu' autorevole
 dottrina  (Mortati,  Istituzioni di diritto pubblico, IX ed., Padova,
 1976, p. 1391). Essa  ha  giustamente  rinvenuto  il  fondamento  del
 potere  inibitorio  nelle esigenze di un sistema com'e' il nostro, il
 quale (come rileva Pace, Sulla sospensione cautelare  dell'esecuzione
 delle  leggi  autoapplicative  impugnate  per incostituzionalita', in
 riv. trim. dir., pubbl., 1968, 517 ss.) impone  l'effettivita'  della
 tutela e conseguentemente fa considerare come attivita' istituzionale
 del potere del giudice il potere cautelare, che e' stato riconosciuto
 dal  consiglio  di  Stato  il  quale,  in carenza di una disposizione
 testuale nella legge  6  dicembre  1971,  n.  1034,  ha  ritenuto  la
 sussistenza  del potere di inibitoria, per considerazioni interpreta-
 tive sistematiche relative alla "generale competenza  giurisdizionale
 a  sindacare  la  legittimita'  degli atti definitivi posti in essere
 dalla pubblica amministrazione statale e  non  statale  e  lesivi  di
 interessi  legittimi.  Ed  e'  proprio  la generalita' della sfera di
 competenza del consiglio di Stato che induce a  ritenere  che,  nella
 perdurante  sua  natura di giudice di unico grado per la tutela degli
 interessi legittimi, spetti al  consiglio  stesso  almeno  la  tutela
 cautelare  ed urgente in relazione ai ricorsi proposti dopo l'entrata
 in vigore della nuova normativa" (Adunanza Plenaria, 14 aprile  1972,
 n. 5, in foro it., 1972, III, 105 ss.).
    La   notevole  decisione  del  consiglio  di  Stato  sembra  avere
 particolare importanza anche in relazione all'art. 22 della legge  11
 marzo 1953, n. 87, che rinvia al regolamento per la procedura davanti
 al consiglio di Stato, tenendo conto che esattamente la dottrina piu'
 autorevole   (Mortati)  richiama  l'art.  39  t.u.  delle  leggi  sul
 consiglio di Stato per  il  procedimento  relativo  alla  sospensione
 dell'atto impugnato.
    2.   -   Una   rilevanza   ancora  maggiore,  nella  stessa  linea
 interpretativa, deve essere riconosciuta all'insegnamento della Corte
 nella sentenza n. 284/1974. In essa e' stato statuito che "il  potere
 di   sospensione  dell'esecuzione  dell'atto  impugnato  e'  elemento
 connaturale di un sistema di tutela giurisdizionale che  si  realizzi
 in  definitiva  con  l'annullamento degli atti". L'affermazione della
 Corte si riferisce  agli  atti  amministrativi,  ma  la  ratio  e  la
 motivazione  della  decisione  si  attagliano  anche all'annullamento
 dell'atto legislativo, perche' tale e' la  configurazione  dell'esito
 delle  sentenze  di  accoglimento,  quale  risulta  dal  terzo  comma
 dell'art.  30  della  legge  11  marzo  1953,  n.  87  e  secondo  le
 affermazioni  della  Corte  (sentenze nn. 127/1966 e 49/1970) e posto
 che in tale funzione la Corte e' giudice.  La  Corte  costituzionale,
 secondo  il  proprio  indiscusso  insegnamento (sentenze nn. 22/1960,
 73/1960,  74/1960,  57/1961,  67/1962,  68/1962,  73/1965,   75/1965,
 76/1965,  130/1968, 127/1969, 128/1969, 100/1970, 190/1970, 181/1971,
 96/1972, 97/1972, 101/1972, 151/1972, ord. 9 ottobre 1974,  259/1974,
 13/1975,  230/1975,  179/1976,  38/1976,  246/1976,  247/1976, ord. 7
 luglio  1977,  125/1977,  sent.  2  agosto  1979,  44/1978,  68/1978,
 69/1978)  e'  come  tale  titolare del potere di decidere sull'azione
 cautelare che inerisce alla funzione del giudice.
    A conferma si puo' aggiungere  la  constatazione  che,  secondo  i
 canoni piu' volte affermati dalla Corte, l'effettivita' del potere e'
 il  parametro con cui ne vanno valutate le implicazioni. Cosicche' ad
 un potere che ha competenza  di  annullamento  sull'atto  legislativo
 inerisce  il  potere  cautelare,  per  le stesse ragioni funzionali e
 strutturali  per  cui  al  potere  che  ha  giurisdizione   sull'atto
 amministrativo  anche  normativo  inerisce  il  potere  cautelare nei
 confronti di quest'ultimo. Non a caso  questo  principio  del  potere
 cautelare sull'atto legislativo e' una costante negli ordinamenti che
 hanno   un   sistema   di  giustizia  costituzionale  anche  di  data
 antecedente al nostro.
    3. - Le constatazioni precedenti hanno trovato la piu'  autorevole
 sanzione nella giurisprudenza della Corte. Essa nella sua sentenza n.
 190/1985  ha  affermato  con chiarezza il "principio, per il quale la
 durata del processo non  deve  andare  a  danno  dell'attore  che  ha
 ragione"  e conseguentemente ha dichiarato l'illegittimita' di talune
 norme della legge n. 1034/1971. Sulla base di questo  principio,  che
 la  Corte  ha  richiamato  nella  sentenza n. 146/1987, punto 5.2. in
 diritto, i dubbi interpretativi sul  potere  cautelare  in  relazione
 agli  atti  normativi  trovano  la loro soluzione nel principio posto
 dalla  Corte,  che  non  puo'   non   estendersi   al   processo   di
 illegittimita' costituzionale.
    Esso  e' un processo non dissimile nella sua struttura dagli altri
 in cui la Corte e' giudice (ed ormai la  giurisprudenza  della  Corte
 sulla   Corte  come  giudice  e'  pacifica:  ordinanze  nn.  95/1980,
 100/1970, 73/1965, 230/1975, 57/1961, 22/1960) e come tale fornito di
 tutti i poteri che ha ogni giudice in ogni processo, come  e'  quello
 di  sollevare  questioni  di  costituzionalita' - riconosciuto da una
 giurisprudenza costante - e come e', appunto, il potere cautelare  di
 cui viene chiesto l'esercizio.
    Nel  caso  del  decreto impugnato ricorrono tutti gli elementi che
 giustificano la domanda cautelare. Il decreto-legge e' per sua natura
 caratterizzato   dalla    temporaneita',    come    atto    che    e'
 istituzionalmente a tempo predeterminato.
    Esso  ha  immediati  effetti, che, come abbiamo visto, determinano
 irragionevolezza della disciplina complessiva;  ledono  l'affidamento
 ingenerato   nel   cittadino;  sottraggono  alla  regione  competenze
 proprie, senza  porre  alcuna  norma  di  principio;  modificano  con
 effetto immediato (cosicche' - se il decreto non fosse sospeso, e poi
 fosse  invece,  per  auspicata ipotesi, annullato - si ingenerebbe il
 caos) meccanismi e  procedure  di  rilascio  del  titolo  concessorio
 stabiliti  solo  un  anno  prima,  e  provvedimenti di programmazione
 temporale,  senza  nessuna  motivazione  ne'  sulla  necessita',  ne'
 sull'urgenza di operare in tal senso.
   4.  -  Nella  sentenza  n.  302/1988  la  Corte ha affermato che il
 decorso del tempo  per  gli  spostamenti  di  termini  imposti  dalla
 reiterazione  produce  una  indubbia  interferenza  sulle  competenze
 regionali nel senso che ne ha impedito il dovuto  dispiegamento,  pur
 legittimo  in  astratto, a causa del venir meno sin dall'inizio degli
 effetti provvisori del decreto dopo la mancata conversione. In  altre
 parole,   dalla   reiterazione   del  decreto-legge  e'  derivata  la
 produzione dello svuotamento sostanziale degli artt. 117 e 118  della
 Costituzione.  Poiche'  un  fumus  puo'  apparire ammissibile, il far
 perdurare effetti confusionali non appare opportuno.
    5. - Per questo, la regione deve fare ricorso  alla  tutela  della
 Corte,  unico organo che puo' intervenire dal momento che la sinergia
 perversa  e  concentrata  dei   vizi   di   illegittimita',   sommati
 all'immediata   operativita'   dell'incostituzionale   decreto  rende
 indispensabile l'intervento della Corte per  sospendere  l'esecuzione
 del  medesimo:  e  nel  valutare  la  opportunita'  del provvedimento
 cautelare,  crediamo  che  la  Corte  non  possa  prescindere   dalla
 illegittimita' strutturali del decreto-legge, dalla assoluta mancanza
 di  motivazione  e  di  indicazione  dei  presupposti costituzionali,
 dall'incoerenza e  dalla  contraddittorieta',  dalla  violazione  dei
 principi piu' volte richiamati.