IL PRETORE
    Sentite le parti e visti gli atti;
                             O S S E R V A
    1.  -  Sulla rilevanza del rilievo, d'ufficio, della non manifesta
 infondatezza delle questioni di costituzionalita' della normativa del
 c.d. condono edilizio in ordine alla presente fattispecie.
    La questione si pone in primo luogo relativamente alla sospensione
 del procedimento penale in virtu'  della  norma  dell'art.  44  della
 legge  n.  47/1985  applicabile  al  giudizio  attraverso il richiamo
 fattone dall'art. 1 del d.l. 27 settembre 1994, n. 551;  nonche'  in
 relazione   a  tutte  le  altre  norme  del  d.l.  n.  551/1994  che
 disciplinano la procedura del condono stesso.
    Il pretore, aderendo agli  autorevoli  principi  giurisprudenziali
 formatisi  in  occasione dell'emanazione della legge n. 47/1985 (cfr.
 Corte costituzionale 31 marzo 1988, n. 369, in F.I. 1989, I,  3383  e
 segg.;  Cass.  23  giugno  1987, Amici in F.I. Rep. voce "edilizia ed
 urbanistica" m. 818; Cass. 10 novembre 1987 D'Ambrosio, in F.I.  Rep.
 1989 voce cit.  m. 846; Cass. 7 giugno 1988 Zingaro in F.I. Rep. 1989
 voce cit. m.  850; Cass. 2 maggio 1988 Mascolo in F.I. Rep. 1989 voce
 cit.  m.  853;  Cass. 30 maggio 1988 Romagnoli in F.I. Rep. 1989 voce
 cit. m. 859)  che  non  possono  non  valere  stante  l'analogia  dei
 presupposti   anche  per  l'attuale  normativa,  ritiene  che  l'iter
 corretto che il giudice  penale  deve  adottare,  dopo  l'entrata  in
 vigore del predetto decreto, ed in presenza di un processo penale per
 fatti  di  urbanistica,  sia  il seguente: accertamento relativo alla
 sussistenza o meno di cause di proscioglimento ai sensi dell'art. 129
 del c.p.p. (cfr. in termini Cass. 9 dicembre 1989 Salvatore F.I. Rep.
 voce cit. m. 839); in caso negativo accertamento dei presupposti  che
 astrattamente  consentano  l'applicazione  della  normativa di cui al
 d.l. (in particolare data di ultimazione delle opere, nell'accezione
 di cui all'art. 31, secondo comma, della legge n.  47/1985,  che  non
 deve  essere  successiva  al  31  dicembre 1993, salvo che la mancata
 ultimazione    sia   dipesa   da   provvedimenti   amministrativi   o
 giurisdizionali;  dimensioni  delle  opere  in  relazione  a   quanto
 prescritto  dall'art.  1,  primo  comma,  del d.l.; assenza di cause
 ostative all'applicazione del condono come nel  caso  di  costruzioni
 abusive  realizzate sopra e sotto il soprassuolo boschivo distrutto o
 danneggiato per cause naturali o atti volontari, cfr.  art.  2,  nono
 comma,  del d.l. n. 551/1994); e solo nel caso di scrutinio positivo
 (sicche' le opere abusive potrebbero in  astratto  beneficiare  delle
 procedure previste dal decreto, il che non equivale alla possibilita'
 di  ottenere la concessione in sanatoria, cfr. art. 39 della legge n.
 47/1985) sospensione del procedimento penale ai  sensi  dell'art.  44
 della  legge  n.  47/1985 fino alla scadenza del termine utile per la
 presentazione della domanda di concessione in sanatoria.
    Dopo  tale  termine  il   mantenimento   della   sospensione   del
 procedimento  penale (art. 38 della legge n. 47/1985) e' condizionato
 da  ulteriori  fattori.  Il  procedimento   penale   dovra'   infatti
 necessariamente  riprendere  il  suo  corso  laddove  non  risulti la
 presentazione tempestiva della domanda di concessione  in  sanatoria,
 la  legittimazione  al  conseguimento  della  sanatoria, il pagamento
 delle somme dovute a titolo di oblazione (e di contributi concessori?
 Cosi' sembrerebbe coordinando la norma  dell'art.  38,  primo  comma,
 della legge n. 47/1985 con quella dell'art. 2, primo comma, del d.l.
 n.  551/1994),  nella  misura prevista, da versare nei tempi previsti
 dal decreto e la cui prova del versamento deve essere  allegata  alla
 domanda di sanatoria, la mancanza di omissioni e di inesattezze nella
 domanda che la facciano ritenere dolosamente infedele.
    Nel  caso  in  esame,  effettuati i riscontri necessari secondo il
 modulo procedimentale teste' ricordato, il pretore  ritiene  che  non
 possa  dubitarsi  che il procedimento penale dovrebbe essere sospeso,
 in virtu' dell'art. 44 della legge n. 47/1985, essendo certo  che  le
 opere  sono  state ultimate, nella accezione di cui all'art. 31 della
 legge n. 47/1985, entro il 31 dicembre  1993  e  che  le  stesse  non
 impegnano  una  cubatura  superiore  a  quella massima consentita dal
 decreto-legge.
    Si potrebbe obiettare che la dimostrata rilevanza della  questione
 di   costituzionalita'   otterrebbe   solo   alla   disciplina  della
 sospensione  del  processo  prevista  dall'art.  44  della  legge  n.
 47/1985,  mentre  non sarebbe dato allo stato affermarne la rilevanza
 in ordine alla intera  (e  sostanziale)  disciplina  contenuta  nelle
 norme  del c.d. condono edilizio, posto che l'imputato potrebbe anche
 non presentare la domanda di  concessione  in  sanatoria  (come  pure
 potrebbero   verificarsi  le  condizioni  negative  impeditive,  alla
 stregua dei parametri suindicati, alla applicazione della sospensione
 ulteriore, quella ai sensi dell'art. 38 della legge n. 47/1985),  con
 il  conseguente  obbligo  della prosecuzione del giudizio penale e la
 irrilevanza  delle  questioni  di  costituzionalita'  relative   alla
 disciplina sostanziale dettata dal d.l. in questione.
    V'e'  per  contro  da  osservare  che  il  ragionamento  pecca per
 difetto.  Ed  invero  se  cosi'  si   opinasse,   neppure   dopo   la
 presentazione  della domanda di concessione in sanatoria (che produce
 una sospensione del procedimento penale di ben piu' ampio respiro) il
 giudice   sarebbe   abilitato   a   sollevare   una   questione    di
 costituzionalita' posto che e' impossibile sapere ex ante quale siano
 gli  esiti  del procedimento amministrativo (ad es. l'interessato, in
 prosieguo,  potrebbe  non  corrispondere  gli  ulteriori  importi  di
 oblazione dovuti).
    Cio' che ad avviso del remittente rileva e' che nel momento in cui
 il giudice e' tenuto ad applicare  la  sospensione  del  procedimento
 penale si e' gia' instaurata, in virtu' dell'applicazione delle norme
 del  c.d.  condono  edilizio,  una  situazione  processuale che (come
 accadra' nella maggior parte dei casi) non potra' che sfociare  nella
 estinzione dei reati contestati all'imputato.
    In  ogni caso, quest'ultima ha chiesto la sospensione del giudizio
 in relazione alla esistenza della normativa in esame producendo prova
 del pagamento dell'oblazione e  tali  circostanze  sono  sufficienti,
 come condivisibilmente riteneva la stessa Corte costituzionale con la
 sentenza  31  marzo 1988, n. 369, cit., a radicare la rilevanza delle
 sollevate  questioni  di  costituzionalita'  anche  in  relazione  ad
 articoli diversi dall'art. 44 della legge n. 47/1985.
    2.  -  Va  precisato  che le eccezioni di incostituzionalita' sono
 dirette nei confronti  del  condono  edilizio  di  cui  al  d.l.  n.
 551/1994  (e  precisamente  nei confronti dell'art. 1 del medesimo) e
 nei confronti delle norme del condono edilizio della legge n. 47/1985
 nella misura in cui dal d.l.  n.  551/1994  si  citano  e  si  fanno
 proprie (espressamente o meno) le norme di cui alla legge n. 47/1985.
    3.  -  Il  primo  dubbio di incostituzionalita' che questo pretore
 intende  sollevare  e'  quello,  articolato  in  molteplici  profili,
 relativo  allo  strumento  adottato per l'emanazione del c.d. condono
 edilizio, vale a dire il decreto-legge.
    Il  disposto  dell'art.  77,  secondo  comma,  della  Costituzione
 prevede,  fra  l'altro,  che  i provvedimenti provvisori con forza di
 legge sono adottati dal governo "in casi straordinari di necessita' e
 di urgenza"; e che i decreti perdono efficacia sin dall'inizio se non
 sono convertiti entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione.
    Ed invero,  senza  che  possa  valere  in  contrario  la  indubbia
 esistenza  di  una  diffusa  prassi di un sempre piu' ampio uso della
 decretazione di urgenza (sia sotto il  profilo  della  emanazione  di
 decreti   legge   avulsa  dalla  sussistenza  dei  presupposti  della
 necessita' e della urgenza e sia sotto il profilo della  reiterazione
 di  decreti non presentati o non convertiti), ed infatti non si crede
 che  una  prassi  contraria  alla  lettera  ed  allo  spirito   della
 Costituzione possa legittimare atti che su di essa si fondano, sta il
 fatto  che,  pur  senza  entrare nel merito della esistenza dei "casi
 straordinari  di  necessita'  e  di  urgenza",  cionondimeno   appare
 innegabile  affermare la necessita' della obbligatoria sussistenza di
 una coerenza interna fra le norme emanate dal Governo e le ragioni di
 urgenza e di  necessita'  dallo  stesso  Governo  espresse,  pena  la
 diretta   violazione   dell'art.   77  anche  sotto  l'aspetto  della
 irragionevolezza  della  normativa,  viziata,  mutuando  una   tipica
 formula   del  diritto  amministrativo,  da  eccesso  di  potere  per
 sviamento dalla causa.
    Invero, nel caso in esame, le ragioni a sostegno della  ricorrenza
 di  un caso di straordinaria necessita' e di urgenza per l'emanazione
 delle norme sul  condono  edilizio  non  sono  neppure  indicate  dal
 Governo   che   afferma  semplicemente  di  avere  "la  straordinaria
 necessita' ed urgenza di emanare disposizioni al fine  di  rilanciare
 le  attivita'  economiche  e  favorire  la  ripresa  delle  attivita'
 imprenditoriali, nonche' per la semplificazione dei  procedimenti  in
 materia urbanistico-edilizia".
    Ma  avere,  da  parte  di  un  soggetto, sia pure il Governo della
 Repubblica, l'impellente necessita' di fare qualche cosa non equivale
 sul  piano  logico  alla  sussistenza  della  necessita'.   Si   puo'
 avvertire,   da   parte  del  Governo,  la  legittima  ed  impellente
 necessita' di emanare una certa normativa in un  determinato  settore
 d'intervento  perche' ad esempio ed in astratto il programma politico
 od altre specifiche ragioni lo inducono a dare la preferenza a  certe
 tematiche  sociali  piuttosto  che  ad  altre,  ma  questo in se' non
 implica  ontologicamente  che  quell'intervento  o   quella   materia
 rappresentino,  ex  se'  un  "caso  straordinario  di necessita' e di
 urgenza".
    La prima esigenza  puo'  essere  affrontata  nei  modi  piu'  vari
 (cercando  ad es. una corsia preferenziale in Parlamento), ma solo la
 seconda giustifica la decretazione d'urgenza.
    L'interprete  potrebbe  ipotizzare  che  i  casi  straordinari  di
 necessita'  e  di urgenza possano attenere allo stato delle attivita'
 economiche e produttive cui accenna il prologo del decreto-legge,  ma
 anche  cosi' non si progredisce di tanto, sorgendo anzi il dubbio che
 le situazioni sulle quali si voglia incidere  siano  i  provvedimenti
 repressivi  (come  sequestri  e  ordinanze di sospensione dei lavori)
 adottati dalle varie autorita' preposte alla  tutela  del  territorio
 (con  il  paradosso  che  interventi  legittimi emessi a tutela della
 legalita' costituirebbero  "casi  straordinari  di  necessita'  e  di
 urgenza");  che,  viceversa,  sotto  altro versante e taglio visuale,
 l'attivita' edilizia abusiva  esistente  e  gia'  disvelata  dimostra
 abbondantemente  che  non occorre alcun incentivo in tal direzione (e
 caso mai occorre un freno piu' efficace).
    Se  poi  invece  e'  l'attivita'  edilizia  lecita  che  si  vuole
 incentivare,  non  si vede che cosa il condono di quella illecita (ed
 in particolare di quella illecita sostanzialmente) abbia con la prima
 a che vedere.
    Il d.l. n. 551/1994 reitera, con modifiche, il  precedente  d.-l.
 26 luglio 1994, n. 468, decaduto.
    La  reiterazione  dei  decreti  legge scaduti e' prassi frequente;
 che, di fatto,  prolunga  surrettiziamente  ed  indeterminatamente  i
 termini  di decadenza di sessanta giorni previsti dalla Costituzione,
 con il non secondario effetto di impedire al Parlamento di esercitare
 la potesta' legislativa che gli compete.
    Ed ancora, lo strumento del decreto-legge, adottato per il condono
 del 1994 e',  ad  avviso  del  remittente,  fortemente  sospetto  per
 violazione  dei  criteri  di  ragionevolezza  che debbono ispirare le
 leggi (anche i decreti-leggi) e del criterio di  eguaglianza  sancito
 dalla Costituzione.
    In  materia  penale  l'uso  del  decreto-legge incontra dei limiti
 insiti alla natura stessa del mezzo in relazione alla elevatezza  dei
 valori in gioco, ma anche laddove il decreto-legge non contenga norme
 incriminatrici  occorre  tuttavia  che  la  sua incidenza sulle norme
 penali stesse sia compatibile e conforme ai dettami costituzionali.
    L'assenza di certezza del diritto, in  vario  modo  connessa  alla
 precarieta'  del  decreto-legge, puo' creare situazioni di disparita'
 irragionevole fra i cittadini.  Occorre riflettere sulla  circostanza
 che   non   tutti  gli  abusi  edilizi  che  potrebbero  in  astratto
 beneficiare del condono sono stati scoperti.  E' quindi  indubitabile
 che  avanzando  domanda  di  concessione in sanatoria, l'autore di un
 abuso non ancora accertato si  espone  agli  eventuali  rigori  della
 legge  penale,  laddove  non  convertito  il decreto o convertito con
 modifiche per lui negative, non intervenisse in suo favore una  legge
 del  Parlamento.    L'alternativa  per  il  cittadino  interessato ai
 benefici del c.d.  condono edilizio, ma al tempo  stesso  preoccupato
 per  le  eventuali  conseguenze  dannose  di  una autodenuncia e' non
 avanzare alcuna domanda di sanatoria fin tanto che la legge  non  sia
 stata  convertita,  rischiando  pero',  in  tal  caso,  di  perdere i
 benefici sperati per intempestivita' della domanda (il termine per il
 pagamento dell'oblazione scade il 31 ottobre 1994 e quindi prima  dei
 sessanta giorni a far tempo dal 27 settembre 1994).
    Il  principio  costituzionale  dell'eguaglianza  dei  cittadini di
 fronte alla  legge  in  presenza  di  situazioni  identiche,  sancito
 dall'art.  3  della  Costituzione  appare  violato  sotto  molteplici
 profili: rispetto a chi ha usufruito della normativa emanata  con  la
 legge  (e non d.l.) n. 47/1985; nonche' per la casualita' secondo la
 quale alcuni soggetti potrebbero beneficiare del condono in virtu' di
 decreti legge non convertiti e di  cui  siano  stati  successivamente
 positivamente  regolati  gli effetti dal Parlamento ed altri non solo
 per  avere  prudentemente  aspettato,  ma  in  ipotesi   invano,   la
 conversione  del  decreto  in  legge, mancata; ed ancora, secondo cui
 alcuni vi potrebbero beneficiare (in ipotesi di  decreto  convertito)
 per  aver  osato  rischiare  ed  altri no, non avendo avuto la stessa
 determinazione (ed essendo nel frattempo e  prima  della  conversione
 scaduto  il  termine  per  il  pagamento  della oblazione); ovvero ed
 ancora avendo alcuni pagato alla stregua del d.l. 26 luglio 1994, n.
 468, un determinato importo a titolo di  oblazione  ed  altri,  nella
 medesima situazione, ma ai sensi del d.l. 27 settembre 1994, n. 551,
 un importo differente.  Ne' a scalfire l'irragionevolezza (in termini
 costituzionali)   di   tali   diversi   trattamenti  puo'  valere  la
 considerazione che si e' in presenza  di  comportamenti  volontari  e
 liberi  degli  interessati,  posto  che la legge deve offrire criteri
 applicativi  certi  nonche'  astratti  e  generali  ponendo  tutti  i
 cittadini  (che  si trovino in situazioni analoghe o identiche) nelle
 stesse condizioni. In particolare di fare scelte davvero libere e non
 condizionate  dal  giustificato  timore  delle  conseguenze  di   una
 autodenuncia di portata anche penale (o, per converso, dalla speranza
 di  lucrare  vantaggi  e  sconti  dalle  ulteriori  formulazioni  dei
 decreti-legge).  Queste e ed altre situazioni di irragionevolezza non
 si potrebbero  verificare  in  presenza  di  una  legge  emanata  dal
 Parlamento.
    4.  -  La normativa impugnata, ad avviso del remittente, confligge
 con l'art. 3, primo e secondo comma,  della  Costituzione  anche  per
 altri  profili.    Come e' noto il primo comma dell'art. 3 stabilisce
 che "tutti i cittadini hanno pari  dignita'  sociale  e  sono  eguali
 davanti  alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua,
 di religione,  di  opinioni  politiche,  di  condizioni  personali  e
 sociali" ed il secondo che "e' compito della Repubblica rimuovere gli
 ostacoli  di  ordine  economico e sociale che, limitando di fatto, la
 liberta' e l'eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno  sviluppo
 della  personalita'  umana  e  l'effettiva  partecipazione di tutti i
 lavoratori  all'organizzazione  politica  economica  e  sociale   del
 Paese".    Come e' noto le norme del condono edilizio di cui al d.l.
 n.    551/1994  non  fanno distinzione fra abusi sostanziali ed abusi
 formali.    Salve  alcune  esclusioni  e  limitazioni  (relative   al
 soprassuolo  boschivo  percorso  dal  fuoco che nel d.l. del 1994 e'
 escluso dal condono; nonche', ma non ai  fini  della  estinzione  del
 reato che e' anche in tali casi attingibile, cfr. art. 39 della legge
 n.  47/1985,  alla  esistenza  di  vincoli  o  alla  natura demaniale
 dell'area) anche gli abusi sostanziali possono  essere  sanati.    In
 altre  parole  anche  un'opera  in  contrasto con le previsioni degli
 strumenti urbanistici puo'  essere  condonata  (nel  senso  pieno  di
 concessione  in  sanatoria  ed  estinzione del reato).   E cosi', con
 riferimento alla fattispecie in giudizio, preso atto  che  il  perito
 del  giudice  accertava  che  la  cubatura  realizzata  dall'imputata
 contrastava insanabilmente con il p.r.g.  del  comune  di  Trevignano
 Romano  (che con un indice di 0,15 mc/mq consente, su quell'area, una
 cubatura massima di mc 220,5 in luogo dei 657,1 realizzati,  con  una
 differenza  in eccesso di mc 346,6) non v'e' dubbio che ciononostante
 la prevenuta possa, teoricamente, avanzare e ottenere la  concessione
 in sanatoria.
 In  tal  modo  il  soggetto  interessato puo', in base alle norme del
 condono edilizio, ottenere una serie di benefici e di vantaggi che ad
 altri cittadini che pur si  trovano  in  un'analoga  situazione  (che
 hanno  ad es. un terreno disponibile nella stessa area e delle stesse
 dimensioni) sono negati.   Si  pensi  a  concessioni  rilasciate  per
 depositi  e  magazzini  in  aree  agricole  dove  sono  invece  state
 costruiti manufatti per  civile  abitazione;  ad  altezze,  cubature,
 destinazioni  d'uso  non  consentite  e  via  dicendo.    Tali  opere
 potrebbero essere  realizzate  solo  in  virtu'  di  una  concessione
 illegittima ovvero di un comportamento abusivo, senza concessione.  A
 tale stregua pero' non vi sarebbe nessuna violazione del principio di
 eguaglianza,  essendo assolutamente evidente a tutti che il cittadino
 onesto, che si astiene dal realizzare opere abusive o con concessione
 illegittima, non viene arbitrariamente discriminato (almeno in  punto
 di  diritto)  dalle  altre cennate situazioni, le quali sono entrambe
 contra legem, con tutto cio' che questo implica.
    Viceversa, a seguito dell'applicazione  delle  norme  in  tema  di
 condono,  la discriminazione che si determina e' palese.  In punto di
 diritto  (se   si   escludono   questioni   attinenti   ai   rapporti
 interprivati,  di  diritto civile, indifferenti alla sanatoria ma che
 neppure sempre sussistono) il soggetto che ha sanato l'abuso si trova
 in una condizione di piena legittimita'  della  titolarita'  e  della
 disponibilita'  del  bene  (puo'  ottenere l'allaccio di utenze; puo'
 validamente alienarlo, etc.).   Vi sono motivazioni  ragionevoli  (in
 termini costituzionali) a sostegno dei trattamenti differenziati?  In
 prima  approssimazione  si  potrebbe opinare per la risposta positiva
 pensando che chi beneficia del condono paga un prezzo  (l'oblazione).
 Ma a ben pensarci non e' questa una differenza che possa escludere la
 sussistenza  di  una  irrazionale discriminazione.   Quanti cittadini
 onesti (che non hanno commesso abusi edilizi) sarebbero ben lieti  di
 acquistare a poche lire un terreno agricolo e costruirci una casa per
 civile  abitazione, pagando le somme corrispondenti all'oblazione? La
 risposta e' intuitiva.
    E perche' invece tali cittadini non possono  pagare  e  costruire?
 Anche  qui  la  risposta, nella sua crudezza, e' ovvia: perche' viene
 valorizzato (se non si vuol dire premiato) l'atto illecito. E' l'atto
 illecito infatti che viene trasformato, merce' il pagamento di somme,
 in  situazione  secundum ius.   L'onesto rimane, ancora una volta, al
 palo ed in lui ardera' amaro e forte il sospetto  che  l'onesta'  non
 paghi.    Va  sottolineato  inoltre,  per quanto l'affermazione possa
 sembrare errata in prima approssimazione, che si puo'  conseguire  il
 condono  anche  senza  pagare  l'intera  somma  dovuta  a  titolo  di
 oblazione.   Cio' e' espressamente previsto  dal  d.l.  n.  551/1994
 nell'ultimo  periodo  del  nono  comma dell'art. 1, con un meccanismo
 automatico  che  attribuisce  all'interessato   la   concessione   in
 sanatoria  anche  a  prescindere dall'esatto pagamento di cio' che la
 legge prevedeva dovuto a titolo di  oblazione  (cfr.  pure  art.  35,
 dodicesimo  comma,  della  legge  n. 47/1985 e Cass. S.U. 19 dicembre
 1990 Landolfi in F.I.   1991, I,  363  e  segg.    Il  decreto,  poi,
 consente  di  beneficiare dei suoi effetti anche a soggetti che hanno
 gia' usufruito, per altre opere abusive, del condono del 1985.
    E' ad avviso del  remittente  difficile  immaginare,  nel  settore
 urbanistico   ed   ambientale,   discriminazione   piu'  bruciante  e
 stridente.    In  definitiva,  cio'  che  emerge  con  forza  e'   la
 irrazionalita'  del trattamento differenziato. Non si nega invero che
 le situazioni (fra chi ha commesso l'abuso e chi non  l'ha  commesso)
 siano   differenti:      cio'   e'   in   re   ipsa.  Quello  che  e'
 irragionevolmente discriminatorio e' il trattamento riservato  all'un
 soggetto  e  negato all'altro.  Si potrebbe obiettare che cio' che il
 pretore lamenta come discriminatorio e' all'incirca cio'  che  accade
 in  presenza  di  un'amnistia, ma l'eccezione non apparirebbe fondata
 sol che si pensi che l'amnistia e' prevista,  come  istituto  ad  hoc
 dalla  Costituzione italiana (oltre che dal codice penale), ed i suoi
 effetti diretti ed indiretti,  le  sue  conseguenze  ed  implicazioni
 individuali  e  sociali  sono  stati  preventivamente  ed  ab origine
 valutati e accettati dai padri costituenti.  E di cio' vi e'  riprova
 nel fatto che la legge concessiva dell'amnistia deve essere approvata
 dal  Parlamento  "a  maggioranza  dei  due  terzi  dei  componenti di
 ciascuna Camera in ogni  suo  articolo  e  nella  votazione  finale".
 L'amnistia,  proprio per i gravi effetti che comporta e' disciplinata
 espressamente dalla Costituzione che per essa prevede  una  procedura
 rigorosa ed una larga maggioranza in modo da ridurre quanto possibile
 gli  squilibri  che  l'istituto,  specialmente  se  usato  con troppa
 frequenza e disinvoltura, puo' comportare  nel  tessuto  sociale  del
 Paese.    Ora,  in conclusione, secondo la Corte costituzionale (cfr.
 sentenza n. 369/1988 citata) il  c.d.  condono  edilizio  non  e'  un
 amnistia  cosicche',  seguendo  tale  tesi, la discriminazione che il
 d.l. n. 551/1994  determina  e,  come  sopra  illustrata,  non  puo'
 neppure  essere giustificata nell'ottica del bilanciamento fra valori
 (e precetti) costituzionali che puo' valere per l'amnistia.
    5. - Il c.d. condono edilizio come atto di clemenza.
    Avuti ben chiari i limiti che deve  avere  la  presente  ordinanza
 (che  sono quelli di sottoporre al giudizio dell'organo competente la
 valutazione dei motivi di sospetta incostituzionalita' che  l'ufficio
 remittente  nutre)  occorre  partire proprio dagli insegnamenti della
 Corte costituzionale in  materia.  A  tale  proposito  si  deve  fare
 primario riferimento alla gia' citata sentenza 31 marzo 1988, n. 369.
 In  essa  la  Corte ha escluso che le norme del c.d. condono edilizio
 (quello, ovviamente, di cui alla legge n. 47/1985)  integrassero  una
 amnistia   e   che   quindi   la   legge   del  1985  potesse  essere
 incostituzionale  per  non essere stato il provvedimento adottato con
 le garanzie di cui all'art. 79 della  Costituzione.    Si  tratta  di
 operare  un  riesame  della  intera  questione alla luce degli atti e
 degli  avvenimenti  successivi  al  1985  che  potrebbe   portare   a
 conclusioni  diverse da quelle a suo tempo assunte dall'Alto Consesso
 in relazione al condono del  1985:  in  relazione  a  cio'  non  pare
 inutile   sollevare,   formalmente,   come   si   fa',  eccezione  di
 incostituzionalita' anche sotto il profilo della violazione dell'art.
 79 della Costituzione, a  maggiore  ragione  nell'attuale  testo  che
 manifesta,   con  la  qualificata  maggioranza  richiesta,  il  vasto
 consenso  sociale  (come  riflesso  dalle   opinioni   espresse   dai
 rappresentati   del   popolo   nel   Parlamento)   che   si   ritiene
 costituzionalmente  necessario  per  l'emanazione   dell'amnistia   e
 dell'indulto;  nonche'  dell'art.  3  e  112  della  Costituzione, in
 relazione al  vigente  principio  della  obbligatorieta'  dell'azione
 penale.
    Orbene,  escluso  che  nel c.d. condono possa essere ravvisata una
 forma particolare  di  oblazione  extraprocessuale  (per  il  che  si
 concorda  pienamente  con  quanto  espresso  nella citata sentenza n.
 369/1988 della  Corte  costituzionale),  sembra  al  pretore  che  la
 questione del raffronto fra le ipotesi di amnistia condizionata (cfr.
 art.  151,  terzo  comma,  del c.p. e, fra i casi concreti, ad es. il
 d.P.R. 9 agosto 1982, n.  525  "concessione  di  amnistia  per  reati
 tributari") e le norme premiali del c.d. condono edilizio, vada posta
 tenendo  presente  un  aspetto  che  puo'  apparire  ovvio  ma che e'
 tuttavia fondamentale: le norme del c.d. condono sono  state  emanate
 con  decreto-legge  e  con  un  titolo  che nulla ha a che vedere con
 l'amnistia o l'indulto.   Si tratta pero' di  accertare,  al  di  la'
 della  nomenclatura  (non  basta  attribuire  a  qualcosa un nome per
 trasformarla in altro che, nella  sostanza,  non  e'),  quale  siano,
 realmente,  il  contenuto,  la  natura  e  la  finalita' delle norme.
 Quanto al contenuto delle norme pare difficilmente  contestabile  che
 un  titolo diverso (appunto di "amnistia ed indulto") che fosse stato
 attribuito alle norme impugnate non avrebbe affatto  sfigurato,  come
 suggerisce  ad  es.  il raffronto con il citato d.P.R. n. 525/1982 in
 tema di amnistia per i reati  tributati,  che  opera  con  meccanismi
 procedimentali  non  dissimili  da  quelli  contenuti nelle norme del
 condono edilizio.
    Questo perche'  in  entrambi  i  casi  (amnistia,  condizionata  -
 condono   edilizio)  l'effetto  estintivo  del  reato  dipende  nella
 sostanza,  oltre  che  dalla  sussistenza  di  determinati  requisiti
 oggettivi  e temporali, la cui sussistenza il giudice deve accertare,
 fondamentalmente  da  un  comportamento  positivo  e  volontario  del
 destinatario  delle  norme (che per il c.d. condono edilizio consiste
 nel pagamento di  tutte  le  somme  dovute  per  legge  a  titolo  di
 oblazione  ovvero dell'esplicarsi del meccanismo alternativo previsto
 dal dodicesimo comma dell'art. 35 della legge n. 47/1985).    D'altra
 parte  se  non  si  puo' negare che con la legge ordinaria si possano
 istituire nuove forme di  estinzione  del  reato  oltre  quelle  gia'
 previste  e  codificate  nel codice penale, vi e' pero' pur sempre un
 limite  assoluto  invalicabile  e  tale  limite  va  individuato  nel
 rispetto della Costituzione.
    La  Corte  costituzionale nella sentenza del 1988 affermava che il
 c.d.  condono  edilizio  "costituisce  senza  dubbio  'specie'  d'una
 generale  nozione  di  misura  di  clemenza".    Ed  allora, viene da
 riflettere, se si ammette che il c.d. condono  edilizio  opera  nello
 stesso  modo  in  cui operano (ed hanno in concreto operato o possono
 operare) le amnistie condizionate e se si ritiene che il c.d. condono
 edilizio e' senz'altro una forma di clemenza, quali sono  le  ragioni
 logiche per negare che necessariamente debbano valere, anche per tale
 mezzo,   le   procedure   garantistiche  di  cui  all'art.  79  della
 Costituzione.       La   considerazione,   espressa    dalla    Corte
 costituzionale,  che  determinati provvedimenti, come quelli del c.d.
 condono edilizio, sono adottati al fine di orientare i  comportamenti
 di  chi ha violato la legge in una determinata direzione, non sembra,
 in un tale contesto, con la sola valorizzazione delle motivazioni del
 provvedimento, poter autolegittimare e dare forza  giuridica  propria
 all'atto di condono ne poter mutare i termini della questione, almeno
 nella  misura  in  cui  sia  esatto  affermare  che anche una formale
 amnistia che  fosse  adottata  per  orientare  il  comportamento  dei
 soggetti   devianti  in  una  certa  direzione  dovrebbe  pur  sempre
 rispettare le regole e le garanzie di forma che la  Costituzione  per
 essa impone.
    Ma  v'e'  un  altro  ed  ulteriore  profilo  che  merita di essere
 affrontato.  La Corte costituzionale nella citata sentenza  31  marzo
 1988,  n.   369, affermava, fra l'altro, che "il legislatore del 1985
 nel tentativo di  porre  ordine  nell'intricata  farraginosa  materia
 dell'edilizia,  preso atto della illegalita' di massa in tale materia
 verificatasi ha inteso chiudere un passato illegale; ed  ha  ritenuto
 con  valutazioni insindacabili in questa sede di indurre autori e non
 di  violazioni  edilizie  a  chiedere  la  concessione  in  sanatoria
 relativa  ad opere realizzate abusivamente". Il legislatore ha usato,
 rileva condivisibilmente la  Corte,  della  "punibilita'  in  materia
 autonoma,   svincolata   dalle  relazioni  con  il  reato  commesso".
 Rilevava ancora la Corte che "tutte le volte che si  rompe  il  nesso
 costante  fra reato e punibilita' e quest'ultima viene usata per fini
 estranei a quelli relativi alla difesa dei beni  tutelati  attraverso
 la  incriminazione  penale,  tale uso puo' incidere negativamente sul
 principio di uguaglianza ex art. 3 della Costituzione e deve  trovare
 la  sua  giustificazione  nel  quadro costituzionale che determina il
 fondamento ed i limiti dell'intervento punitivo dello Stato".
    "La non punibilita' o la non procedibilita'  dovuta  a  situazioni
 successive  al  commesso  reato,  come nel caso del condono edilizio,
 deve comunque essere valutata in  funzione  delle  finalita'  proprie
 della   pena:  ove  l'estinzione  della  punibilita'  irrazionalmente
 contrastasse  con   tali   finalita',   ove   risultasse   variamente
 arbitraria,  tale, come e' stato esattamente sottolineato, da svilire
 il senso stesso della comminatoria edittale  e  della  punizione  non
 potrebbe   considerarsi  costituzionalmente  legittima".    Cio',  in
 particolare, osserva la  Corte  laddove  "l'effetto  estintivo  debba
 spiegarsi  nei confronti di reati che, direttamente o indirettamente,
 violano  precetti  costituzionalmente  sanciti,  posti  a  tutela  di
 fondamentali  esigenze della comunita'". "La non punibilita' e la non
 procedibilita' di  cui  ai  moderni  condoni  penali,  specie  quando
 cancellano reati lesivi di beni fondamentali della comunita' va usata
 negli   stretti   limiti   consentiti   dal  sistema  costituzionale;
 quest'ultimo precisa ed in maniera non generica fondamento, finalita'
 e   limiti   dell'intervento   punitivo   dello  Stato.  Contraddire,
 vanificare,  sia  pure  temporaneamente,  le  ragioni   prime   della
 punibilita',  attraverso l'esercizio arbitrario della non punibilita'
 equivale non soltanto a violare l'art. 3  della  Costituzione  ma  ad
 alterare  con  il  principio della obbligatorieta' dell'azione penale
 l'intero volto del sistema costituzionale in materia penale".
    Il  significato  di  quanto  afferma  la  sentenza   della   Corte
 ostituzionale,  in  questi  fondamentali  passi  riportati, e' di una
 chiarezza cristallina.
    L'estinzione  della  pena  deve   in   qualche   modo   e   misura
 giustificarsi  e  ricollegarsi  in  funzione  di tutela (e cio' anche
 nella materia del territorio e dell'ambiente, che sono  beni  che  la
 Costituzione  considera  e  valorizza  quali  patrimonio  di tutta la
 collettivita') all'oggetto delle norme sul cui precetto penale si  e'
 inciso.  Per quanto riguarda il condono edilizio del 1985 la Corte ha
 scrutinato,  sotto  tale  visuale, favorevolmente la legge n. 47/1985
 ritenendo che con la legge in questione il legislatore avesse "inteso
 chiudere un passato di illegalita' di massa alla  quale  aveva  anche
 contribuito  la  non  sempre  perfetta  efficienza  delle  competenti
 autorita'  amministrative  ed  avesse  mirato  a  porre  sicure  basi
 normative per la repressione futura di fatti che violano fondamentali
 esigenze  sottese  al  governo  del  territorio,  come  la  sicurezza
 dell'esercizio  dell'iniziativa  economica  e  privata,  la  funzione
 sociale  della  proprieta',  la tutela del paesaggio e del patrimonio
 storico ed artistico".
    Tali beni  il  legislatore  del  1985  riteneva  potessero  essere
 "difesi  validamente  per  il futuro solo attraverso la cancellazione
 del  notevole  ingombrante  carico  pendente  relativo  alle  passate
 illegalita'  di massa".  Orbene proprio alla luce di quanto insegnato
 dalla Corte costituzionale vanno svolte alcune  considerazioni.    Il
 punto  fermo,  l'a'ncora  di  costituzionalita'  delle  normative  di
 condono edilizio riposa dunque in una  qualche  forma  di  tutela  di
 ritorno  (del  territorio e dell'ambiente) che deve essere prodotta o
 favorita dalle normative stesse.   Invero vi e' da  dubitare  che  il
 bilancio definitivo di condoni edilizi siffatti possa essere attivo a
 favore  del  bene  protetto.    Ed  infatti,  anche in presenza di un
 qualche  effetto  positivo,  appare  assai   piu'   probabile,   come
 conseguenza  del  condono,  la conseguente caduta di credibilita' del
 precetto penale che assiste  la  normativa  urbanistica,  nonche'  il
 diffondersi  della  convinzione  (fondata,  come l'intera vicenda dei
 condoni edilizi citati esemplarmente dimostra) che ad un  condono  ne
 seguira'  un  altro  e che l'abuso nell'urbanistica, in definitiva ed
 alla lunga, paghi piu' dell'osservanza della legge.
    In ogni caso si puo' senz'altro opinare che la legge del 1985 (pur
 avendo delle non lievi ambiguita' e lacune, si pensi, per tutte, alla
 timida disciplina delle modifiche di destinazione  d'uso)  contenesse
 (specialmente per l'assetto normativo dell'epoca) una corpo di norme,
 non  soltanto  premiali,  che  rielaborando  e riordinando (almeno in
 parte)  la  materia  edilizia,  dettava  nuovi,  importanti  e  forti
 principi  di  tutela  del territorio.   Puo', a meno di dieci anni di
 distanza da quella legge, considerarsi costituzionale questo decreto,
 alla luce delle considerazioni fin  qui  svolte?    Affermare  questa
 volta  che  vi  e'  la  possibilita' di ancorare le norme impugnate a
 ragioni (anche)  di  tutela  ambientale  appare  francamente  impresa
 ardua.    Con  il  decreto  in questione si traccia una riga continua
 (almeno per quanto riguarda la sanzione penale  e  nei  limiti  delle
 cubature  previste)  su  tutti gli abusi edilizi, formali sostanziali
 (contrariamente a quanto il legislatore aveva promesso con l'art.  13
 della legge n. 47/1985 per il futuro), commessi ed ultimati dai tempi
 passati   ad  oggi.    Con  la  conseguenza  di  creare  le  migliori
 condizioni, soggettive ed oggettive, per la  realizzazione  di  altri
 abusi  e  altri  reati  (si  pensi, in una sorta di dejavu' di quanto
 accaduto in un passato non remoto, al prevedibile  e  gia'  da  molti
 sindaci  d'Italia  lamentato  aumento  dei  casi  di abusivismo; agli
 innumerevoli casi di atti notori falsi in cui si  assevereranno  come
 ultimate  entro  il  31 dicembre 1993 opere che, ultimate non erano a
 quella data; e  cio'  sulla  convinzione,  fondata  su  cio'  che  e'
 accaduto  con il precedente condono, che assai difficilmente i comuni
 saranno in grado di far fronte nel termine indicato dal decreto  alle
 incombenze  di  natura  burocratica,  ai  controlli  sul  campo  ed a
 quant'altro occorrerebbe per una effettiva seria  applicazione  delle
 norme.  E  di  cio',  per  il  passato, e' lapidaria testimonianza la
 procedura introdotta con il dodicesimo comma dell'art. 35 della legge
 n. 47/1985).
    Il presente condono  e'  la  esatta  e  completa  negazione  della
 filosofia  attribuita  alla legge n. 47/1985. Con la legge n. 47/1985
 si affermava in modo che piu' chiaro non potrebbe che per  il  futuro
 abusi  sostanziali,  vale  a  dire violazioni edilizie contrarie alle
 previsioni degli strumenti urbanistici, non sarebbero stati mai  piu'
 perdonati    con   la   inesorabile   applicazione   delle   sanzioni
 amministrative e penali, come pure delle severe conseguenze  previste
 sul  piano  negoziale  dalla  legge.    Questo  e'  non  altro  e' il
 significato, spogliato del freddo tecnicismo giuridico, dell'art.  13
 della  legge  n. 47/1985.   In tale ottica il condono del 1985 poteva
 quindi avere  quella  giustificazione  costituzionale  indispensabile
 affinche'  non  fosse  non  vulnerato,  con  l'offesa al principio di
 eguaglianza  e  di  obbligatorieta'  della  legge  penale,  il   bene
 (territorio  ed ambiente) oggetto della norma penale urbanistica.  Il
 condono  del  1994  invece  va  in  senso   diametralmente   opposto:
 smentendo in modo clamoroso le promesse e gli impegni del legislatore
 del  1985  vengono  ammessi  a sanatoria abusi formali ma anche abusi
 sostanziali (fino al dicembre 1993) cosicche' viene a cadere  proprio
 il  salvifico sostegno costituzionale che la Corte con la sentenza n.
 369/1988 aveva individuato.
    Poche altre considerazioni da  esporre  sul  punto.    Qual'e'  la
 giustificazione   (nei   termini   costituzionali  cui  si  e'  fatto
 riferimento, posto che  se  risultasse,  come  non  appare  peregrino
 ritenere,  che  l'unica  ragione e' reperire fondi per le casse dello
 Stato, non vi sarebbero molte altre parole  da  aggiungere  circa  la
 incostituzionalita' del decreto) di questo nuovo condono?  Vi sono di
 nuovo  "illegalita'  di  massa"  da chiudere?   E pur ipotizzando una
 risposta  positiva  e'  accettabile,  alla  stregua  dello  scrutinio
 costituzionale  richiesto dalla Corte nei termini sopra ricordati, un
 nuovo condono e piu' specificamente quello contenuto del  decreto  n.
 551/1994?
    A  tale domanda solo la Corte costituzionale puo' dare adeguata ed
 autorevole risposta.  Il remittente puo' solo  esporre  alcuni  dubbi
 relativi  alle  norme  impugnate.   Forse che puo' essere considerato
 utile bilanciamento della esclusa punibilita'  la  prevista,  per  il
 futuro,  sospensione  indeterminata  del  giudizio  penale ad libitum
 degli interessati in relazione alla pendenza di un  giudizio,  quello
 amministrativo,  che  e'  disponibile  come  quello  civile  e quindi
 rinviabile ad oltranza, di cui all'art. 8, decimo comma, del  decreto
 (la  questione  di  costituzionalita'  di  tale norma, per violazione
 dell'art. 3 e 112 della Costituzione in relazione al principio  della
 obbligatorieta'  della  legge penale e per la smaccata contraddizione
 alla intera filosofia, in tema di pregiudizialita', del nuovo  codice
 di  procedura  penale, che contiene; dell'art. 101 della Costituzione
 secondo cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge  e  dell'art.
 25  della  Costituzione  secondo cui nessuno puo' essere distolto dal
 giudice naturale precostituito per legge, non si  solleva  in  questa
 sede solo per difetto di rilevanza)?
    Ed  ancora,  premesso  che,  qualora si ritenga che vi siano abusi
 edilizi da condonare cio' evidentemente e' connesso alla  sussistenza
 di  abusi edilizi concretamente accertati dagli organi competenti, va
 evidenziato che uno dei punti dolenti del controllo di  legalita'  in
 materia  urbanistica  riguarda  il  difficile  progredire  (oltre  il
 livello  dell'accertamento  e)  nella  direzione  della  repressione,
 dell'azione  di  controllo di legalita' degli organi amministrativi e
 penali.
    E' convinzione diffusa che l'affidamento del potere di demolizione
 (che e' lo strumento legale cardine della tutela del territorio dagli
 abusi edilizi gravi) ai sindaci, organi elettivi, non si e'  rivelato
 soddisfacente al raggiungimento del fine.  E la norma che attribuisce
 il  potere  di  ordinare  la  demolizione  al giudice penale e' stata
 svuotata di significato dalla prevalente giurisprudenza che  nega  un
 potere del giudice di eseguire materialmente la demolizione.
    Non  dovrebbe sfuggire a chi abbia conoscenza della materia di che
 trattasi che i tempi della  tutela  del  territorio,  sia  a  livello
 amministrativo   che   penale,   non   possono   che   essere  lunghi
 nell'ordinamento giuridico italiano, caratterizzato dalla presenza di
 forti ed articolate procedure garantistiche.  Quand'anche il  sindaco
 fosse  munito  delle  migliori  intenzioni,  non  puo' negarsi che in
 presenza (ed in pendenza) di un doppio giudizio pendente (davanti  al
 giudice  amministrativo  e  davanti  al pretore penale) il rischio di
 vedersi  esposto  in  futuro  (a  seguito  di  un  sempre   possibile
 annullamento  della ordinanza di demolizione o di una assoluzione) ad
 azioni risarcitorie lo induce a sospendere (quando non sia  stato  il
 giudice    amministrativo   a   farne   obbligo)   l'esecuzione   dei
 provvedimenti  repressivi.    E  poiche'  la  durata   dei   processi
 amministrativi  e  penali e' quella a tutti nota, non puo' e non deve
 destare sorpresa che a distanza di anni  dalla  legge  del  1985  una
 certa  quantita'  di  abusi  accertati  non siano stati in alcun modo
 definiti.
    In tale contesto, che rappresenta un quadro di tutela lenta ma non
 di tutela assente, il condono impedisce inesorabilmente  (mentre  non
 sembra  offrire,  a  bilanciamento e per il futuro, alcun correlativo
 rimedio) la definizione dei processi e l'attivazione, spesso ad  essa
 di  fatto  o  di diritto connessa, delle varie forme di tutela che la
 legge  del  1985  appresta  in  molteplici  forme,  oltre  a   quella
 demolitoria  (si  pensi  ad  esempio  alla  sanzione  di nullita' che
 colpisce i trasferimenti di proprieta'  delle  opere  abusive  ovvero
 all'acquisizione  del  bene al patrimonio del comune).  D'altra parte
 le norme (del decreto) tese alla semplificazione dei procedimenti  in
 materia urbanistico-edilizia sono dirette alla regolamentazione delle
 attivita'  edilizie lecite, mentre e' assai vago ed indimostrabile un
 qualche collegamento fra tali misure e gli abusi sostanziali.
    Relativamente ai quali l'estinzione del reato,  quale  conseguenza
 del  condono,  appare  a  chi  scrive vieppiu' sguarnita di qualsiasi
 sostegno costituzionale e contraria al principio di cui all'art.  112
 della  Costituzione.    Va  da  ultimo  rilevato  che la possibilita'
 concreta di provvedere adeguatamente per il futuro,  specialmente  da
 parte  dei  comuni  piu'  piccoli,  alla  gestione ed alla tutela del
 territorio e' ipotecata dalla  necessita'  di  smaltire  le  notevoli
 incombenze   burocratiche,   di  effettuare  gli  accertamenti  ed  i
 controlli e di compiere  quant'altro  connesso  all'applicazione  del
 condono  (si  pensi  alle  zone  vincolate ed alle aree demaniali ove
 l'esito del condono e' condizionato  da  pareri  e  da  attivita'  di
 organi  diversi  dal  comune;  dai  ricorsi  in  sede giurisdizionale
 avverso gli atti del comune in tema di condono e  cosi'  via):  anche
 sotto tale punto di vista (e' noto che non sono state ancora smaltite
 tutte  le pratiche del precedente condono³) appare quanto meno dubbio
 che possa rinvenirsi  nelle  norme  premiali  impugnate  una  qualche
 tutela di ritorno futura per il territorio.
    7. - La violazione delle autonomie locali.
    Gli  artt.  117  e  118  della Costituzione prevedono che lo Stato
 detta  in  materia  urbanistica  principi  fondamentali   mentre   la
 normazione  diretta  e primaria compete alla regione, che esercita le
 funzioni  amministrative   in   questa   materia   direttamente   e/o
 delegandole  ai  comuni.    I  comuni  (come  le province) "sono enti
 autonomi nell'ambito dei principi fissati  da  leggi  generali  della
 Repubblica   che   ne   determinano  le  funzioni"  (art.  128  della
 Costituzione).  Nella materia urbanistica con il d.P.R.  n.  616/1977
 sono  state delegate alle regioni le relative funzioni amministrative
 dello Stato e degli enti pubblici, salve le eccezioni di cui all'art.
 80.  Ad avviso del remittente e' forte il sospetto che il condono del
 1994 violi tali norme laddove, in presenza di abusi  sostanziali,  ne
 consente  egualmente  la sanatoria.  In primo luogo va evidenziata la
 rilevanza della questione.   Gli  abusi  consistenti  nella  mancanza
 della  concessione,  nella  totale  difformita'  e  nelle  variazioni
 essenziali comportano le conseguenze previste dall'art. 7 della legge
 n. 47/1985.
    L'abuso contestato all'imputata, e' per la ragione supra spiegata,
 di carattere sostanziale.
    Si tratta  cioe'  di  violazione  urbanistica  ordinariamente  non
 sanabile,  nel  senso  che  gli  strumenti  urbanistici del comune in
 questione non consentono in nessun modo ed a  nessuna  condizione  la
 realizzazione  di  un'opera  siffatta  che  se esistente non puo' che
 essere e rimanere abusiva ed esposta  alle  sanzioni  previste  dalla
 legge (art. 7 della legge n. 47/1985).
    Le  ragioni  di  cio' sono evidenti: il governo del territorio, se
 non vuole essere una parola priva di senso,  presuppone  la  presenza
 (ed  il  rispetto) di precise programmazioni dell'uso del territorio,
 il rispetto di standars (cfr. sul punto il fondamentale d.m. 2 aprile
 1968), la sussistenza o la previsione di infrastrutture  adeguate  al
 tipo di insediamenti (opere di urbanizzazione primaria e secondaria),
 etc.   Con la sanatoria degli abusi sostanziali si impongono da parte
 dello  Stato  all'ente  territoriale  scelte  altrui  (in   tema   di
 zonizzazione,  di  cubature,  di  standards etc.) confliggenti con le
 regole  autodettate  dal  comune  stesso  in  tema  di  governo   del
 territorio.
    Non si tratta, in questo caso, di principi fondamentali in materia
 urbanistica,  per  i  quali  lo  Stato avrebbe competenza, poiche' e'
 invece l'esatto contrario. Con il condono  si  impone  al  comune  di
 accettare   e   di  inserire  nella  programmazione  futura  del  suo
 territorio la piu' irrazionale casualita' edilizia di  opere  abusive
 di ogni genere e collocazione.
    E  cosi'  ad es. una zona che era stata destinata all'agricoltura,
 la legge dello Stato, mediante il condono  dei  manufatti  di  civile
 abitazione  realizzati illecitamente sul quell'area, destina ad altro
 e diverso uso.
    Puo' tale normativa trovare giustificazione costituzionale in  una
 (piu' o meno vera) inerzia del comune nell'adozione dei provvedimenti
 tesi  al  rispetto della legalita'?  L'assunto, la cui rispondenza al
 vero (specialmente in termini quantitativi) e' tutta  da  dimostrare,
 come  pure  da  dimostrare  e'  la sua rilevanza ai fini di parare la
 eccezione di incostituzionalita', non ha comunque  pregio  posto  che
 neanche la dimostrata concreta esistenza di una positiva attivita' di
 controllo e di repressione dell'abusivismo da parte del comune serve,
 secondo  la  legge,  ad  impedire la sanatoria (cfr. art. 43, primo e
 quinto comma, della legge n. 47/1985).
    8. - L'ultimo profilo di incostituzionalita'  che  questo  pretore
 intende   sollevare   attiene   alla  violazione  del  diritto  della
 proprieta' pubblica  dei  comuni  (art.  42  della  Costituzione)  in
 relazione  agli  artt.  3,  42 e 128 della Costituzione; nonche' alla
 violazione dell'art.  3  della  Costituzione  sotto  l'aspetto  della
 contraddittorieta'  ed  irrazionalita'  della normativa impugnata che
 consente ad un soggetto non titolare del diritto  di  farlo  tuttavia
 valere  contro chi ne e' invece il titolare.  L'art. 7 della legge n.
 47/1985,  quanto  alle  ipotesi  di  opere  eseguite  in  assenza  di
 concessione  edilizia,  in  totale  difformita' ovvero con variazioni
 essenziali, stabilisce che il sindaco debba emettere un'ordinanza  di
 demolizione.   Se   il  responsabile  dell'abuso  non  provvede  alla
 demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi  nel  termine  di
 novanta  giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonche'
 quella necessaria, secondo le vigenti disposizioni alla realizzazione
 di opere  analoghe  a  quelle  abusive,  sono  acquisiti  di  diritto
 gratuitamente al patrimonio comunale.
    Secondo  la giurisprudenza amministrativa (cfr. Consiglio di Stato
 cfr. sezione quinta 23 gennaio 1991, n. 66, in Giust. civ.  1991,  I,
 1599;  t.a.r. Abruzzo 15 gennaio 1990, n. 19, in F.I. 1991, III, 101)
 l'acquisizione gratuita al patrimonio pubblico comunale  delle  opere
 abusive  si  verifica, senza che occorrano altri requisiti oggettivi,
 quando sia decorso il termine fissato dalla legge dalla notificazione
 dell'ordinanza sindacale di ripristino dello stato dei luoghi.
    Secondo altra tesi invece (che  ha  trovato  recente  eco  in  una
 pronuncia   della   Cassazione   penale)   l'effetto   traslativo  si
 verificherebbe  solo  con  l'accertamento  dell'inottemperanza   alla
 ingiunzione   a   demolire  e  con  l'immissione  in  possesso  e  la
 trascrizione  nei  registri  immobiliari  (di  cui  al  quarto  comma
 dell'art.  7  della legge n. 47/1985).  Se si condivide la prima tesi
 (che appare del tutto conforme alla lettera dell'art. 7 e alle regole
 del diritto  civile  possesso  e  trascrizione  non  sono  di  regola
 funzionali  all'acquisto della proprieta' se non casi eccezionali, ad
 es. per una particolare specie di usucapione), si deve convenire  che
 e'  il comune il proprietario dell'immobile oggetto della ingiunzione
 in tutti i casi in cui il provvedimento amministrativo  abbia  potuto
 validamente  esplicare  i  suoi  effetti  (non  sia  stato  sospeso o
 annullato dal giudice amministrativo).
    L'art. 43 della legge  n.  47/1985  prevede  che  "l'esistenza  di
 provvedimenti   sanzionatori   non  ancora  eseguiti,  ovvero  ancora
 impugnabili o nei cui confronti pende l'impugnazione non impedisce il
 conseguimento della sanatoria".
    Il  senso  della  norma  e'  che  quand'anche   un   provvedimento
 sanzionatorio   sia   divenuto   definitivo  il  conseguimento  della
 sanatoria  e'  ancora  possibile  sol  che   esso   non   sia   stato
 materialmente  eseguito.   Poiche' un provvedimento sanzionatorio per
 eccellenza e' quello con il quale il comune  ordina  al  responsabile
 dell'abuso  la  demolizione  puo' ritenersi che la norma in esame, in
 relazione ad una siffatta situazione (ordinanza di demolizione per la
 quale e' decorso il termine di novanta giorni dall'ingiunzione e  che
 e'  divenuta  definitiva),  consenta  che  il responsabile dell'abuso
 possa conseguire la sanatoria.
   Ma il responsabile dell'abuso non e'  piu'  proprietario  del  bene
 comune  che  potrebbe  fra l'altro averne nel frattempo disposto alle
 condizioni previste dalla legge per  suoi  scopi)  sicche'  ogni  sua
 attivita'  (come  la  domanda  di  concessione di sanatoria) relativa
 all'immobile in questione  avviene  a  non  domino.    La  norma  che
 consente cionondimeno ad un soggetto non legittimato il conseguimento
 della  sanatoria appare (almeno alla stregua di tale interpretazione)
 un monstrum giuridico, confliggente con le norme costituzionali sopra
 indicate, ed incoerente con gli stessi presupposti  in  via  generale
 previsti  dalla  legge  n.  47/1985  (in tema di soggetti abilitati a
 proporre la domanda, cfr. art. 31, primo comma), cui e' arduo trovare
 spiegazioni costituzionali.
    La questione e' nel processo de quo rilevante posto che in data 28
 marzo 1992 alla Luciani veniva notificata ingiunzione a demolire  dal
 sindaco di Trevignano e il provvedimento e' definitivo non risultando
 avverso il medesimo promossa azione di annullamento presso il giudice
 amministrativo  (ne'  quindi  risultando  emesso  alcun provvedimento
 sospensivo).