IL PRETORE Sentite le parti e visti gli atti; O S S E R V A 1. - Sulla rilevanza del rilievo, d'ufficio, della non manifesta infondatezza delle questioni di costituzionalita' della normativa del c.d. condono edilizio in ordine alla presente fattispecie. La questione si pone in primo luogo relativamente alla sospensione del procedimento penale in virtu' della norma dell'art. 44 della legge n. 47/1985 applicabile al giudizio attraverso il richiamo fattone dall'art. 1 del d.l. 27 settembre 1994, n. 551; nonche' in relazione a tutte le altre norme del d.l. n. 551/1994 che disciplinano la procedura del condono stesso. Il pretore, aderendo agli autorevoli principi giurisprudenziali formatisi in occasione dell'emanazione della legge n. 47/1985 (cfr. Corte costituzionale 31 marzo 1988, n. 369, in F.I. 1989, I, 3383 e segg.; Cass. 23 giugno 1987, Amici in F.I. Rep. voce "edilizia ed urbanistica" m. 818; Cass. 10 novembre 1987 D'Ambrosio, in F.I. Rep. 1989 voce cit. m. 846; Cass. 7 giugno 1988 Zingaro in F.I. Rep. 1989 voce cit. m. 850; Cass. 2 maggio 1988 Mascolo in F.I. Rep. 1989 voce cit. m. 853; Cass. 30 maggio 1988 Romagnoli in F.I. Rep. 1989 voce cit. m. 859) che non possono non valere stante l'analogia dei presupposti anche per l'attuale normativa, ritiene che l'iter corretto che il giudice penale deve adottare, dopo l'entrata in vigore del predetto decreto, ed in presenza di un processo penale per fatti di urbanistica, sia il seguente: accertamento relativo alla sussistenza o meno di cause di proscioglimento ai sensi dell'art. 129 del c.p.p. (cfr. in termini Cass. 9 dicembre 1989 Salvatore F.I. Rep. voce cit. m. 839); in caso negativo accertamento dei presupposti che astrattamente consentano l'applicazione della normativa di cui al d.l. (in particolare data di ultimazione delle opere, nell'accezione di cui all'art. 31, secondo comma, della legge n. 47/1985, che non deve essere successiva al 31 dicembre 1993, salvo che la mancata ultimazione sia dipesa da provvedimenti amministrativi o giurisdizionali; dimensioni delle opere in relazione a quanto prescritto dall'art. 1, primo comma, del d.l.; assenza di cause ostative all'applicazione del condono come nel caso di costruzioni abusive realizzate sopra e sotto il soprassuolo boschivo distrutto o danneggiato per cause naturali o atti volontari, cfr. art. 2, nono comma, del d.l. n. 551/1994); e solo nel caso di scrutinio positivo (sicche' le opere abusive potrebbero in astratto beneficiare delle procedure previste dal decreto, il che non equivale alla possibilita' di ottenere la concessione in sanatoria, cfr. art. 39 della legge n. 47/1985) sospensione del procedimento penale ai sensi dell'art. 44 della legge n. 47/1985 fino alla scadenza del termine utile per la presentazione della domanda di concessione in sanatoria. Dopo tale termine il mantenimento della sospensione del procedimento penale (art. 38 della legge n. 47/1985) e' condizionato da ulteriori fattori. Il procedimento penale dovra' infatti necessariamente riprendere il suo corso laddove non risulti la presentazione tempestiva della domanda di concessione in sanatoria, la legittimazione al conseguimento della sanatoria, il pagamento delle somme dovute a titolo di oblazione (e di contributi concessori? Cosi' sembrerebbe coordinando la norma dell'art. 38, primo comma, della legge n. 47/1985 con quella dell'art. 2, primo comma, del d.l. n. 551/1994), nella misura prevista, da versare nei tempi previsti dal decreto e la cui prova del versamento deve essere allegata alla domanda di sanatoria, la mancanza di omissioni e di inesattezze nella domanda che la facciano ritenere dolosamente infedele. Nel caso in esame, effettuati i riscontri necessari secondo il modulo procedimentale teste' ricordato, il pretore ritiene che non possa dubitarsi che il procedimento penale dovrebbe essere sospeso, in virtu' dell'art. 44 della legge n. 47/1985, essendo certo che le opere sono state ultimate, nella accezione di cui all'art. 31 della legge n. 47/1985, entro il 31 dicembre 1993 e che le stesse non impegnano una cubatura superiore a quella massima consentita dal decreto-legge. Si potrebbe obiettare che la dimostrata rilevanza della questione di costituzionalita' otterrebbe solo alla disciplina della sospensione del processo prevista dall'art. 44 della legge n. 47/1985, mentre non sarebbe dato allo stato affermarne la rilevanza in ordine alla intera (e sostanziale) disciplina contenuta nelle norme del c.d. condono edilizio, posto che l'imputato potrebbe anche non presentare la domanda di concessione in sanatoria (come pure potrebbero verificarsi le condizioni negative impeditive, alla stregua dei parametri suindicati, alla applicazione della sospensione ulteriore, quella ai sensi dell'art. 38 della legge n. 47/1985), con il conseguente obbligo della prosecuzione del giudizio penale e la irrilevanza delle questioni di costituzionalita' relative alla disciplina sostanziale dettata dal d.l. in questione. V'e' per contro da osservare che il ragionamento pecca per difetto. Ed invero se cosi' si opinasse, neppure dopo la presentazione della domanda di concessione in sanatoria (che produce una sospensione del procedimento penale di ben piu' ampio respiro) il giudice sarebbe abilitato a sollevare una questione di costituzionalita' posto che e' impossibile sapere ex ante quale siano gli esiti del procedimento amministrativo (ad es. l'interessato, in prosieguo, potrebbe non corrispondere gli ulteriori importi di oblazione dovuti). Cio' che ad avviso del remittente rileva e' che nel momento in cui il giudice e' tenuto ad applicare la sospensione del procedimento penale si e' gia' instaurata, in virtu' dell'applicazione delle norme del c.d. condono edilizio, una situazione processuale che (come accadra' nella maggior parte dei casi) non potra' che sfociare nella estinzione dei reati contestati all'imputato. In ogni caso, quest'ultima ha chiesto la sospensione del giudizio in relazione alla esistenza della normativa in esame producendo prova del pagamento dell'oblazione e tali circostanze sono sufficienti, come condivisibilmente riteneva la stessa Corte costituzionale con la sentenza 31 marzo 1988, n. 369, cit., a radicare la rilevanza delle sollevate questioni di costituzionalita' anche in relazione ad articoli diversi dall'art. 44 della legge n. 47/1985. 2. - Va precisato che le eccezioni di incostituzionalita' sono dirette nei confronti del condono edilizio di cui al d.l. n. 551/1994 (e precisamente nei confronti dell'art. 1 del medesimo) e nei confronti delle norme del condono edilizio della legge n. 47/1985 nella misura in cui dal d.l. n. 551/1994 si citano e si fanno proprie (espressamente o meno) le norme di cui alla legge n. 47/1985. 3. - Il primo dubbio di incostituzionalita' che questo pretore intende sollevare e' quello, articolato in molteplici profili, relativo allo strumento adottato per l'emanazione del c.d. condono edilizio, vale a dire il decreto-legge. Il disposto dell'art. 77, secondo comma, della Costituzione prevede, fra l'altro, che i provvedimenti provvisori con forza di legge sono adottati dal governo "in casi straordinari di necessita' e di urgenza"; e che i decreti perdono efficacia sin dall'inizio se non sono convertiti entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Ed invero, senza che possa valere in contrario la indubbia esistenza di una diffusa prassi di un sempre piu' ampio uso della decretazione di urgenza (sia sotto il profilo della emanazione di decreti legge avulsa dalla sussistenza dei presupposti della necessita' e della urgenza e sia sotto il profilo della reiterazione di decreti non presentati o non convertiti), ed infatti non si crede che una prassi contraria alla lettera ed allo spirito della Costituzione possa legittimare atti che su di essa si fondano, sta il fatto che, pur senza entrare nel merito della esistenza dei "casi straordinari di necessita' e di urgenza", cionondimeno appare innegabile affermare la necessita' della obbligatoria sussistenza di una coerenza interna fra le norme emanate dal Governo e le ragioni di urgenza e di necessita' dallo stesso Governo espresse, pena la diretta violazione dell'art. 77 anche sotto l'aspetto della irragionevolezza della normativa, viziata, mutuando una tipica formula del diritto amministrativo, da eccesso di potere per sviamento dalla causa. Invero, nel caso in esame, le ragioni a sostegno della ricorrenza di un caso di straordinaria necessita' e di urgenza per l'emanazione delle norme sul condono edilizio non sono neppure indicate dal Governo che afferma semplicemente di avere "la straordinaria necessita' ed urgenza di emanare disposizioni al fine di rilanciare le attivita' economiche e favorire la ripresa delle attivita' imprenditoriali, nonche' per la semplificazione dei procedimenti in materia urbanistico-edilizia". Ma avere, da parte di un soggetto, sia pure il Governo della Repubblica, l'impellente necessita' di fare qualche cosa non equivale sul piano logico alla sussistenza della necessita'. Si puo' avvertire, da parte del Governo, la legittima ed impellente necessita' di emanare una certa normativa in un determinato settore d'intervento perche' ad esempio ed in astratto il programma politico od altre specifiche ragioni lo inducono a dare la preferenza a certe tematiche sociali piuttosto che ad altre, ma questo in se' non implica ontologicamente che quell'intervento o quella materia rappresentino, ex se' un "caso straordinario di necessita' e di urgenza". La prima esigenza puo' essere affrontata nei modi piu' vari (cercando ad es. una corsia preferenziale in Parlamento), ma solo la seconda giustifica la decretazione d'urgenza. L'interprete potrebbe ipotizzare che i casi straordinari di necessita' e di urgenza possano attenere allo stato delle attivita' economiche e produttive cui accenna il prologo del decreto-legge, ma anche cosi' non si progredisce di tanto, sorgendo anzi il dubbio che le situazioni sulle quali si voglia incidere siano i provvedimenti repressivi (come sequestri e ordinanze di sospensione dei lavori) adottati dalle varie autorita' preposte alla tutela del territorio (con il paradosso che interventi legittimi emessi a tutela della legalita' costituirebbero "casi straordinari di necessita' e di urgenza"); che, viceversa, sotto altro versante e taglio visuale, l'attivita' edilizia abusiva esistente e gia' disvelata dimostra abbondantemente che non occorre alcun incentivo in tal direzione (e caso mai occorre un freno piu' efficace). Se poi invece e' l'attivita' edilizia lecita che si vuole incentivare, non si vede che cosa il condono di quella illecita (ed in particolare di quella illecita sostanzialmente) abbia con la prima a che vedere. Il d.l. n. 551/1994 reitera, con modifiche, il precedente d.-l. 26 luglio 1994, n. 468, decaduto. La reiterazione dei decreti legge scaduti e' prassi frequente; che, di fatto, prolunga surrettiziamente ed indeterminatamente i termini di decadenza di sessanta giorni previsti dalla Costituzione, con il non secondario effetto di impedire al Parlamento di esercitare la potesta' legislativa che gli compete. Ed ancora, lo strumento del decreto-legge, adottato per il condono del 1994 e', ad avviso del remittente, fortemente sospetto per violazione dei criteri di ragionevolezza che debbono ispirare le leggi (anche i decreti-leggi) e del criterio di eguaglianza sancito dalla Costituzione. In materia penale l'uso del decreto-legge incontra dei limiti insiti alla natura stessa del mezzo in relazione alla elevatezza dei valori in gioco, ma anche laddove il decreto-legge non contenga norme incriminatrici occorre tuttavia che la sua incidenza sulle norme penali stesse sia compatibile e conforme ai dettami costituzionali. L'assenza di certezza del diritto, in vario modo connessa alla precarieta' del decreto-legge, puo' creare situazioni di disparita' irragionevole fra i cittadini. Occorre riflettere sulla circostanza che non tutti gli abusi edilizi che potrebbero in astratto beneficiare del condono sono stati scoperti. E' quindi indubitabile che avanzando domanda di concessione in sanatoria, l'autore di un abuso non ancora accertato si espone agli eventuali rigori della legge penale, laddove non convertito il decreto o convertito con modifiche per lui negative, non intervenisse in suo favore una legge del Parlamento. L'alternativa per il cittadino interessato ai benefici del c.d. condono edilizio, ma al tempo stesso preoccupato per le eventuali conseguenze dannose di una autodenuncia e' non avanzare alcuna domanda di sanatoria fin tanto che la legge non sia stata convertita, rischiando pero', in tal caso, di perdere i benefici sperati per intempestivita' della domanda (il termine per il pagamento dell'oblazione scade il 31 ottobre 1994 e quindi prima dei sessanta giorni a far tempo dal 27 settembre 1994). Il principio costituzionale dell'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge in presenza di situazioni identiche, sancito dall'art. 3 della Costituzione appare violato sotto molteplici profili: rispetto a chi ha usufruito della normativa emanata con la legge (e non d.l.) n. 47/1985; nonche' per la casualita' secondo la quale alcuni soggetti potrebbero beneficiare del condono in virtu' di decreti legge non convertiti e di cui siano stati successivamente positivamente regolati gli effetti dal Parlamento ed altri non solo per avere prudentemente aspettato, ma in ipotesi invano, la conversione del decreto in legge, mancata; ed ancora, secondo cui alcuni vi potrebbero beneficiare (in ipotesi di decreto convertito) per aver osato rischiare ed altri no, non avendo avuto la stessa determinazione (ed essendo nel frattempo e prima della conversione scaduto il termine per il pagamento della oblazione); ovvero ed ancora avendo alcuni pagato alla stregua del d.l. 26 luglio 1994, n. 468, un determinato importo a titolo di oblazione ed altri, nella medesima situazione, ma ai sensi del d.l. 27 settembre 1994, n. 551, un importo differente. Ne' a scalfire l'irragionevolezza (in termini costituzionali) di tali diversi trattamenti puo' valere la considerazione che si e' in presenza di comportamenti volontari e liberi degli interessati, posto che la legge deve offrire criteri applicativi certi nonche' astratti e generali ponendo tutti i cittadini (che si trovino in situazioni analoghe o identiche) nelle stesse condizioni. In particolare di fare scelte davvero libere e non condizionate dal giustificato timore delle conseguenze di una autodenuncia di portata anche penale (o, per converso, dalla speranza di lucrare vantaggi e sconti dalle ulteriori formulazioni dei decreti-legge). Queste e ed altre situazioni di irragionevolezza non si potrebbero verificare in presenza di una legge emanata dal Parlamento. 4. - La normativa impugnata, ad avviso del remittente, confligge con l'art. 3, primo e secondo comma, della Costituzione anche per altri profili. Come e' noto il primo comma dell'art. 3 stabilisce che "tutti i cittadini hanno pari dignita' sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali" ed il secondo che "e' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto, la liberta' e l'eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della personalita' umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica economica e sociale del Paese". Come e' noto le norme del condono edilizio di cui al d.l. n. 551/1994 non fanno distinzione fra abusi sostanziali ed abusi formali. Salve alcune esclusioni e limitazioni (relative al soprassuolo boschivo percorso dal fuoco che nel d.l. del 1994 e' escluso dal condono; nonche', ma non ai fini della estinzione del reato che e' anche in tali casi attingibile, cfr. art. 39 della legge n. 47/1985, alla esistenza di vincoli o alla natura demaniale dell'area) anche gli abusi sostanziali possono essere sanati. In altre parole anche un'opera in contrasto con le previsioni degli strumenti urbanistici puo' essere condonata (nel senso pieno di concessione in sanatoria ed estinzione del reato). E cosi', con riferimento alla fattispecie in giudizio, preso atto che il perito del giudice accertava che la cubatura realizzata dall'imputata contrastava insanabilmente con il p.r.g. del comune di Trevignano Romano (che con un indice di 0,15 mc/mq consente, su quell'area, una cubatura massima di mc 220,5 in luogo dei 657,1 realizzati, con una differenza in eccesso di mc 346,6) non v'e' dubbio che ciononostante la prevenuta possa, teoricamente, avanzare e ottenere la concessione in sanatoria. In tal modo il soggetto interessato puo', in base alle norme del condono edilizio, ottenere una serie di benefici e di vantaggi che ad altri cittadini che pur si trovano in un'analoga situazione (che hanno ad es. un terreno disponibile nella stessa area e delle stesse dimensioni) sono negati. Si pensi a concessioni rilasciate per depositi e magazzini in aree agricole dove sono invece state costruiti manufatti per civile abitazione; ad altezze, cubature, destinazioni d'uso non consentite e via dicendo. Tali opere potrebbero essere realizzate solo in virtu' di una concessione illegittima ovvero di un comportamento abusivo, senza concessione. A tale stregua pero' non vi sarebbe nessuna violazione del principio di eguaglianza, essendo assolutamente evidente a tutti che il cittadino onesto, che si astiene dal realizzare opere abusive o con concessione illegittima, non viene arbitrariamente discriminato (almeno in punto di diritto) dalle altre cennate situazioni, le quali sono entrambe contra legem, con tutto cio' che questo implica. Viceversa, a seguito dell'applicazione delle norme in tema di condono, la discriminazione che si determina e' palese. In punto di diritto (se si escludono questioni attinenti ai rapporti interprivati, di diritto civile, indifferenti alla sanatoria ma che neppure sempre sussistono) il soggetto che ha sanato l'abuso si trova in una condizione di piena legittimita' della titolarita' e della disponibilita' del bene (puo' ottenere l'allaccio di utenze; puo' validamente alienarlo, etc.). Vi sono motivazioni ragionevoli (in termini costituzionali) a sostegno dei trattamenti differenziati? In prima approssimazione si potrebbe opinare per la risposta positiva pensando che chi beneficia del condono paga un prezzo (l'oblazione). Ma a ben pensarci non e' questa una differenza che possa escludere la sussistenza di una irrazionale discriminazione. Quanti cittadini onesti (che non hanno commesso abusi edilizi) sarebbero ben lieti di acquistare a poche lire un terreno agricolo e costruirci una casa per civile abitazione, pagando le somme corrispondenti all'oblazione? La risposta e' intuitiva. E perche' invece tali cittadini non possono pagare e costruire? Anche qui la risposta, nella sua crudezza, e' ovvia: perche' viene valorizzato (se non si vuol dire premiato) l'atto illecito. E' l'atto illecito infatti che viene trasformato, merce' il pagamento di somme, in situazione secundum ius. L'onesto rimane, ancora una volta, al palo ed in lui ardera' amaro e forte il sospetto che l'onesta' non paghi. Va sottolineato inoltre, per quanto l'affermazione possa sembrare errata in prima approssimazione, che si puo' conseguire il condono anche senza pagare l'intera somma dovuta a titolo di oblazione. Cio' e' espressamente previsto dal d.l. n. 551/1994 nell'ultimo periodo del nono comma dell'art. 1, con un meccanismo automatico che attribuisce all'interessato la concessione in sanatoria anche a prescindere dall'esatto pagamento di cio' che la legge prevedeva dovuto a titolo di oblazione (cfr. pure art. 35, dodicesimo comma, della legge n. 47/1985 e Cass. S.U. 19 dicembre 1990 Landolfi in F.I. 1991, I, 363 e segg. Il decreto, poi, consente di beneficiare dei suoi effetti anche a soggetti che hanno gia' usufruito, per altre opere abusive, del condono del 1985. E' ad avviso del remittente difficile immaginare, nel settore urbanistico ed ambientale, discriminazione piu' bruciante e stridente. In definitiva, cio' che emerge con forza e' la irrazionalita' del trattamento differenziato. Non si nega invero che le situazioni (fra chi ha commesso l'abuso e chi non l'ha commesso) siano differenti: cio' e' in re ipsa. Quello che e' irragionevolmente discriminatorio e' il trattamento riservato all'un soggetto e negato all'altro. Si potrebbe obiettare che cio' che il pretore lamenta come discriminatorio e' all'incirca cio' che accade in presenza di un'amnistia, ma l'eccezione non apparirebbe fondata sol che si pensi che l'amnistia e' prevista, come istituto ad hoc dalla Costituzione italiana (oltre che dal codice penale), ed i suoi effetti diretti ed indiretti, le sue conseguenze ed implicazioni individuali e sociali sono stati preventivamente ed ab origine valutati e accettati dai padri costituenti. E di cio' vi e' riprova nel fatto che la legge concessiva dell'amnistia deve essere approvata dal Parlamento "a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera in ogni suo articolo e nella votazione finale". L'amnistia, proprio per i gravi effetti che comporta e' disciplinata espressamente dalla Costituzione che per essa prevede una procedura rigorosa ed una larga maggioranza in modo da ridurre quanto possibile gli squilibri che l'istituto, specialmente se usato con troppa frequenza e disinvoltura, puo' comportare nel tessuto sociale del Paese. Ora, in conclusione, secondo la Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 369/1988 citata) il c.d. condono edilizio non e' un amnistia cosicche', seguendo tale tesi, la discriminazione che il d.l. n. 551/1994 determina e, come sopra illustrata, non puo' neppure essere giustificata nell'ottica del bilanciamento fra valori (e precetti) costituzionali che puo' valere per l'amnistia. 5. - Il c.d. condono edilizio come atto di clemenza. Avuti ben chiari i limiti che deve avere la presente ordinanza (che sono quelli di sottoporre al giudizio dell'organo competente la valutazione dei motivi di sospetta incostituzionalita' che l'ufficio remittente nutre) occorre partire proprio dagli insegnamenti della Corte costituzionale in materia. A tale proposito si deve fare primario riferimento alla gia' citata sentenza 31 marzo 1988, n. 369. In essa la Corte ha escluso che le norme del c.d. condono edilizio (quello, ovviamente, di cui alla legge n. 47/1985) integrassero una amnistia e che quindi la legge del 1985 potesse essere incostituzionale per non essere stato il provvedimento adottato con le garanzie di cui all'art. 79 della Costituzione. Si tratta di operare un riesame della intera questione alla luce degli atti e degli avvenimenti successivi al 1985 che potrebbe portare a conclusioni diverse da quelle a suo tempo assunte dall'Alto Consesso in relazione al condono del 1985: in relazione a cio' non pare inutile sollevare, formalmente, come si fa', eccezione di incostituzionalita' anche sotto il profilo della violazione dell'art. 79 della Costituzione, a maggiore ragione nell'attuale testo che manifesta, con la qualificata maggioranza richiesta, il vasto consenso sociale (come riflesso dalle opinioni espresse dai rappresentati del popolo nel Parlamento) che si ritiene costituzionalmente necessario per l'emanazione dell'amnistia e dell'indulto; nonche' dell'art. 3 e 112 della Costituzione, in relazione al vigente principio della obbligatorieta' dell'azione penale. Orbene, escluso che nel c.d. condono possa essere ravvisata una forma particolare di oblazione extraprocessuale (per il che si concorda pienamente con quanto espresso nella citata sentenza n. 369/1988 della Corte costituzionale), sembra al pretore che la questione del raffronto fra le ipotesi di amnistia condizionata (cfr. art. 151, terzo comma, del c.p. e, fra i casi concreti, ad es. il d.P.R. 9 agosto 1982, n. 525 "concessione di amnistia per reati tributari") e le norme premiali del c.d. condono edilizio, vada posta tenendo presente un aspetto che puo' apparire ovvio ma che e' tuttavia fondamentale: le norme del c.d. condono sono state emanate con decreto-legge e con un titolo che nulla ha a che vedere con l'amnistia o l'indulto. Si tratta pero' di accertare, al di la' della nomenclatura (non basta attribuire a qualcosa un nome per trasformarla in altro che, nella sostanza, non e'), quale siano, realmente, il contenuto, la natura e la finalita' delle norme. Quanto al contenuto delle norme pare difficilmente contestabile che un titolo diverso (appunto di "amnistia ed indulto") che fosse stato attribuito alle norme impugnate non avrebbe affatto sfigurato, come suggerisce ad es. il raffronto con il citato d.P.R. n. 525/1982 in tema di amnistia per i reati tributati, che opera con meccanismi procedimentali non dissimili da quelli contenuti nelle norme del condono edilizio. Questo perche' in entrambi i casi (amnistia, condizionata - condono edilizio) l'effetto estintivo del reato dipende nella sostanza, oltre che dalla sussistenza di determinati requisiti oggettivi e temporali, la cui sussistenza il giudice deve accertare, fondamentalmente da un comportamento positivo e volontario del destinatario delle norme (che per il c.d. condono edilizio consiste nel pagamento di tutte le somme dovute per legge a titolo di oblazione ovvero dell'esplicarsi del meccanismo alternativo previsto dal dodicesimo comma dell'art. 35 della legge n. 47/1985). D'altra parte se non si puo' negare che con la legge ordinaria si possano istituire nuove forme di estinzione del reato oltre quelle gia' previste e codificate nel codice penale, vi e' pero' pur sempre un limite assoluto invalicabile e tale limite va individuato nel rispetto della Costituzione. La Corte costituzionale nella sentenza del 1988 affermava che il c.d. condono edilizio "costituisce senza dubbio 'specie' d'una generale nozione di misura di clemenza". Ed allora, viene da riflettere, se si ammette che il c.d. condono edilizio opera nello stesso modo in cui operano (ed hanno in concreto operato o possono operare) le amnistie condizionate e se si ritiene che il c.d. condono edilizio e' senz'altro una forma di clemenza, quali sono le ragioni logiche per negare che necessariamente debbano valere, anche per tale mezzo, le procedure garantistiche di cui all'art. 79 della Costituzione. La considerazione, espressa dalla Corte costituzionale, che determinati provvedimenti, come quelli del c.d. condono edilizio, sono adottati al fine di orientare i comportamenti di chi ha violato la legge in una determinata direzione, non sembra, in un tale contesto, con la sola valorizzazione delle motivazioni del provvedimento, poter autolegittimare e dare forza giuridica propria all'atto di condono ne poter mutare i termini della questione, almeno nella misura in cui sia esatto affermare che anche una formale amnistia che fosse adottata per orientare il comportamento dei soggetti devianti in una certa direzione dovrebbe pur sempre rispettare le regole e le garanzie di forma che la Costituzione per essa impone. Ma v'e' un altro ed ulteriore profilo che merita di essere affrontato. La Corte costituzionale nella citata sentenza 31 marzo 1988, n. 369, affermava, fra l'altro, che "il legislatore del 1985 nel tentativo di porre ordine nell'intricata farraginosa materia dell'edilizia, preso atto della illegalita' di massa in tale materia verificatasi ha inteso chiudere un passato illegale; ed ha ritenuto con valutazioni insindacabili in questa sede di indurre autori e non di violazioni edilizie a chiedere la concessione in sanatoria relativa ad opere realizzate abusivamente". Il legislatore ha usato, rileva condivisibilmente la Corte, della "punibilita' in materia autonoma, svincolata dalle relazioni con il reato commesso". Rilevava ancora la Corte che "tutte le volte che si rompe il nesso costante fra reato e punibilita' e quest'ultima viene usata per fini estranei a quelli relativi alla difesa dei beni tutelati attraverso la incriminazione penale, tale uso puo' incidere negativamente sul principio di uguaglianza ex art. 3 della Costituzione e deve trovare la sua giustificazione nel quadro costituzionale che determina il fondamento ed i limiti dell'intervento punitivo dello Stato". "La non punibilita' o la non procedibilita' dovuta a situazioni successive al commesso reato, come nel caso del condono edilizio, deve comunque essere valutata in funzione delle finalita' proprie della pena: ove l'estinzione della punibilita' irrazionalmente contrastasse con tali finalita', ove risultasse variamente arbitraria, tale, come e' stato esattamente sottolineato, da svilire il senso stesso della comminatoria edittale e della punizione non potrebbe considerarsi costituzionalmente legittima". Cio', in particolare, osserva la Corte laddove "l'effetto estintivo debba spiegarsi nei confronti di reati che, direttamente o indirettamente, violano precetti costituzionalmente sanciti, posti a tutela di fondamentali esigenze della comunita'". "La non punibilita' e la non procedibilita' di cui ai moderni condoni penali, specie quando cancellano reati lesivi di beni fondamentali della comunita' va usata negli stretti limiti consentiti dal sistema costituzionale; quest'ultimo precisa ed in maniera non generica fondamento, finalita' e limiti dell'intervento punitivo dello Stato. Contraddire, vanificare, sia pure temporaneamente, le ragioni prime della punibilita', attraverso l'esercizio arbitrario della non punibilita' equivale non soltanto a violare l'art. 3 della Costituzione ma ad alterare con il principio della obbligatorieta' dell'azione penale l'intero volto del sistema costituzionale in materia penale". Il significato di quanto afferma la sentenza della Corte ostituzionale, in questi fondamentali passi riportati, e' di una chiarezza cristallina. L'estinzione della pena deve in qualche modo e misura giustificarsi e ricollegarsi in funzione di tutela (e cio' anche nella materia del territorio e dell'ambiente, che sono beni che la Costituzione considera e valorizza quali patrimonio di tutta la collettivita') all'oggetto delle norme sul cui precetto penale si e' inciso. Per quanto riguarda il condono edilizio del 1985 la Corte ha scrutinato, sotto tale visuale, favorevolmente la legge n. 47/1985 ritenendo che con la legge in questione il legislatore avesse "inteso chiudere un passato di illegalita' di massa alla quale aveva anche contribuito la non sempre perfetta efficienza delle competenti autorita' amministrative ed avesse mirato a porre sicure basi normative per la repressione futura di fatti che violano fondamentali esigenze sottese al governo del territorio, come la sicurezza dell'esercizio dell'iniziativa economica e privata, la funzione sociale della proprieta', la tutela del paesaggio e del patrimonio storico ed artistico". Tali beni il legislatore del 1985 riteneva potessero essere "difesi validamente per il futuro solo attraverso la cancellazione del notevole ingombrante carico pendente relativo alle passate illegalita' di massa". Orbene proprio alla luce di quanto insegnato dalla Corte costituzionale vanno svolte alcune considerazioni. Il punto fermo, l'a'ncora di costituzionalita' delle normative di condono edilizio riposa dunque in una qualche forma di tutela di ritorno (del territorio e dell'ambiente) che deve essere prodotta o favorita dalle normative stesse. Invero vi e' da dubitare che il bilancio definitivo di condoni edilizi siffatti possa essere attivo a favore del bene protetto. Ed infatti, anche in presenza di un qualche effetto positivo, appare assai piu' probabile, come conseguenza del condono, la conseguente caduta di credibilita' del precetto penale che assiste la normativa urbanistica, nonche' il diffondersi della convinzione (fondata, come l'intera vicenda dei condoni edilizi citati esemplarmente dimostra) che ad un condono ne seguira' un altro e che l'abuso nell'urbanistica, in definitiva ed alla lunga, paghi piu' dell'osservanza della legge. In ogni caso si puo' senz'altro opinare che la legge del 1985 (pur avendo delle non lievi ambiguita' e lacune, si pensi, per tutte, alla timida disciplina delle modifiche di destinazione d'uso) contenesse (specialmente per l'assetto normativo dell'epoca) una corpo di norme, non soltanto premiali, che rielaborando e riordinando (almeno in parte) la materia edilizia, dettava nuovi, importanti e forti principi di tutela del territorio. Puo', a meno di dieci anni di distanza da quella legge, considerarsi costituzionale questo decreto, alla luce delle considerazioni fin qui svolte? Affermare questa volta che vi e' la possibilita' di ancorare le norme impugnate a ragioni (anche) di tutela ambientale appare francamente impresa ardua. Con il decreto in questione si traccia una riga continua (almeno per quanto riguarda la sanzione penale e nei limiti delle cubature previste) su tutti gli abusi edilizi, formali sostanziali (contrariamente a quanto il legislatore aveva promesso con l'art. 13 della legge n. 47/1985 per il futuro), commessi ed ultimati dai tempi passati ad oggi. Con la conseguenza di creare le migliori condizioni, soggettive ed oggettive, per la realizzazione di altri abusi e altri reati (si pensi, in una sorta di dejavu' di quanto accaduto in un passato non remoto, al prevedibile e gia' da molti sindaci d'Italia lamentato aumento dei casi di abusivismo; agli innumerevoli casi di atti notori falsi in cui si assevereranno come ultimate entro il 31 dicembre 1993 opere che, ultimate non erano a quella data; e cio' sulla convinzione, fondata su cio' che e' accaduto con il precedente condono, che assai difficilmente i comuni saranno in grado di far fronte nel termine indicato dal decreto alle incombenze di natura burocratica, ai controlli sul campo ed a quant'altro occorrerebbe per una effettiva seria applicazione delle norme. E di cio', per il passato, e' lapidaria testimonianza la procedura introdotta con il dodicesimo comma dell'art. 35 della legge n. 47/1985). Il presente condono e' la esatta e completa negazione della filosofia attribuita alla legge n. 47/1985. Con la legge n. 47/1985 si affermava in modo che piu' chiaro non potrebbe che per il futuro abusi sostanziali, vale a dire violazioni edilizie contrarie alle previsioni degli strumenti urbanistici, non sarebbero stati mai piu' perdonati con la inesorabile applicazione delle sanzioni amministrative e penali, come pure delle severe conseguenze previste sul piano negoziale dalla legge. Questo e' non altro e' il significato, spogliato del freddo tecnicismo giuridico, dell'art. 13 della legge n. 47/1985. In tale ottica il condono del 1985 poteva quindi avere quella giustificazione costituzionale indispensabile affinche' non fosse non vulnerato, con l'offesa al principio di eguaglianza e di obbligatorieta' della legge penale, il bene (territorio ed ambiente) oggetto della norma penale urbanistica. Il condono del 1994 invece va in senso diametralmente opposto: smentendo in modo clamoroso le promesse e gli impegni del legislatore del 1985 vengono ammessi a sanatoria abusi formali ma anche abusi sostanziali (fino al dicembre 1993) cosicche' viene a cadere proprio il salvifico sostegno costituzionale che la Corte con la sentenza n. 369/1988 aveva individuato. Poche altre considerazioni da esporre sul punto. Qual'e' la giustificazione (nei termini costituzionali cui si e' fatto riferimento, posto che se risultasse, come non appare peregrino ritenere, che l'unica ragione e' reperire fondi per le casse dello Stato, non vi sarebbero molte altre parole da aggiungere circa la incostituzionalita' del decreto) di questo nuovo condono? Vi sono di nuovo "illegalita' di massa" da chiudere? E pur ipotizzando una risposta positiva e' accettabile, alla stregua dello scrutinio costituzionale richiesto dalla Corte nei termini sopra ricordati, un nuovo condono e piu' specificamente quello contenuto del decreto n. 551/1994? A tale domanda solo la Corte costituzionale puo' dare adeguata ed autorevole risposta. Il remittente puo' solo esporre alcuni dubbi relativi alle norme impugnate. Forse che puo' essere considerato utile bilanciamento della esclusa punibilita' la prevista, per il futuro, sospensione indeterminata del giudizio penale ad libitum degli interessati in relazione alla pendenza di un giudizio, quello amministrativo, che e' disponibile come quello civile e quindi rinviabile ad oltranza, di cui all'art. 8, decimo comma, del decreto (la questione di costituzionalita' di tale norma, per violazione dell'art. 3 e 112 della Costituzione in relazione al principio della obbligatorieta' della legge penale e per la smaccata contraddizione alla intera filosofia, in tema di pregiudizialita', del nuovo codice di procedura penale, che contiene; dell'art. 101 della Costituzione secondo cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge e dell'art. 25 della Costituzione secondo cui nessuno puo' essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge, non si solleva in questa sede solo per difetto di rilevanza)? Ed ancora, premesso che, qualora si ritenga che vi siano abusi edilizi da condonare cio' evidentemente e' connesso alla sussistenza di abusi edilizi concretamente accertati dagli organi competenti, va evidenziato che uno dei punti dolenti del controllo di legalita' in materia urbanistica riguarda il difficile progredire (oltre il livello dell'accertamento e) nella direzione della repressione, dell'azione di controllo di legalita' degli organi amministrativi e penali. E' convinzione diffusa che l'affidamento del potere di demolizione (che e' lo strumento legale cardine della tutela del territorio dagli abusi edilizi gravi) ai sindaci, organi elettivi, non si e' rivelato soddisfacente al raggiungimento del fine. E la norma che attribuisce il potere di ordinare la demolizione al giudice penale e' stata svuotata di significato dalla prevalente giurisprudenza che nega un potere del giudice di eseguire materialmente la demolizione. Non dovrebbe sfuggire a chi abbia conoscenza della materia di che trattasi che i tempi della tutela del territorio, sia a livello amministrativo che penale, non possono che essere lunghi nell'ordinamento giuridico italiano, caratterizzato dalla presenza di forti ed articolate procedure garantistiche. Quand'anche il sindaco fosse munito delle migliori intenzioni, non puo' negarsi che in presenza (ed in pendenza) di un doppio giudizio pendente (davanti al giudice amministrativo e davanti al pretore penale) il rischio di vedersi esposto in futuro (a seguito di un sempre possibile annullamento della ordinanza di demolizione o di una assoluzione) ad azioni risarcitorie lo induce a sospendere (quando non sia stato il giudice amministrativo a farne obbligo) l'esecuzione dei provvedimenti repressivi. E poiche' la durata dei processi amministrativi e penali e' quella a tutti nota, non puo' e non deve destare sorpresa che a distanza di anni dalla legge del 1985 una certa quantita' di abusi accertati non siano stati in alcun modo definiti. In tale contesto, che rappresenta un quadro di tutela lenta ma non di tutela assente, il condono impedisce inesorabilmente (mentre non sembra offrire, a bilanciamento e per il futuro, alcun correlativo rimedio) la definizione dei processi e l'attivazione, spesso ad essa di fatto o di diritto connessa, delle varie forme di tutela che la legge del 1985 appresta in molteplici forme, oltre a quella demolitoria (si pensi ad esempio alla sanzione di nullita' che colpisce i trasferimenti di proprieta' delle opere abusive ovvero all'acquisizione del bene al patrimonio del comune). D'altra parte le norme (del decreto) tese alla semplificazione dei procedimenti in materia urbanistico-edilizia sono dirette alla regolamentazione delle attivita' edilizie lecite, mentre e' assai vago ed indimostrabile un qualche collegamento fra tali misure e gli abusi sostanziali. Relativamente ai quali l'estinzione del reato, quale conseguenza del condono, appare a chi scrive vieppiu' sguarnita di qualsiasi sostegno costituzionale e contraria al principio di cui all'art. 112 della Costituzione. Va da ultimo rilevato che la possibilita' concreta di provvedere adeguatamente per il futuro, specialmente da parte dei comuni piu' piccoli, alla gestione ed alla tutela del territorio e' ipotecata dalla necessita' di smaltire le notevoli incombenze burocratiche, di effettuare gli accertamenti ed i controlli e di compiere quant'altro connesso all'applicazione del condono (si pensi alle zone vincolate ed alle aree demaniali ove l'esito del condono e' condizionato da pareri e da attivita' di organi diversi dal comune; dai ricorsi in sede giurisdizionale avverso gli atti del comune in tema di condono e cosi' via): anche sotto tale punto di vista (e' noto che non sono state ancora smaltite tutte le pratiche del precedente condono³) appare quanto meno dubbio che possa rinvenirsi nelle norme premiali impugnate una qualche tutela di ritorno futura per il territorio. 7. - La violazione delle autonomie locali. Gli artt. 117 e 118 della Costituzione prevedono che lo Stato detta in materia urbanistica principi fondamentali mentre la normazione diretta e primaria compete alla regione, che esercita le funzioni amministrative in questa materia direttamente e/o delegandole ai comuni. I comuni (come le province) "sono enti autonomi nell'ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica che ne determinano le funzioni" (art. 128 della Costituzione). Nella materia urbanistica con il d.P.R. n. 616/1977 sono state delegate alle regioni le relative funzioni amministrative dello Stato e degli enti pubblici, salve le eccezioni di cui all'art. 80. Ad avviso del remittente e' forte il sospetto che il condono del 1994 violi tali norme laddove, in presenza di abusi sostanziali, ne consente egualmente la sanatoria. In primo luogo va evidenziata la rilevanza della questione. Gli abusi consistenti nella mancanza della concessione, nella totale difformita' e nelle variazioni essenziali comportano le conseguenze previste dall'art. 7 della legge n. 47/1985. L'abuso contestato all'imputata, e' per la ragione supra spiegata, di carattere sostanziale. Si tratta cioe' di violazione urbanistica ordinariamente non sanabile, nel senso che gli strumenti urbanistici del comune in questione non consentono in nessun modo ed a nessuna condizione la realizzazione di un'opera siffatta che se esistente non puo' che essere e rimanere abusiva ed esposta alle sanzioni previste dalla legge (art. 7 della legge n. 47/1985). Le ragioni di cio' sono evidenti: il governo del territorio, se non vuole essere una parola priva di senso, presuppone la presenza (ed il rispetto) di precise programmazioni dell'uso del territorio, il rispetto di standars (cfr. sul punto il fondamentale d.m. 2 aprile 1968), la sussistenza o la previsione di infrastrutture adeguate al tipo di insediamenti (opere di urbanizzazione primaria e secondaria), etc. Con la sanatoria degli abusi sostanziali si impongono da parte dello Stato all'ente territoriale scelte altrui (in tema di zonizzazione, di cubature, di standards etc.) confliggenti con le regole autodettate dal comune stesso in tema di governo del territorio. Non si tratta, in questo caso, di principi fondamentali in materia urbanistica, per i quali lo Stato avrebbe competenza, poiche' e' invece l'esatto contrario. Con il condono si impone al comune di accettare e di inserire nella programmazione futura del suo territorio la piu' irrazionale casualita' edilizia di opere abusive di ogni genere e collocazione. E cosi' ad es. una zona che era stata destinata all'agricoltura, la legge dello Stato, mediante il condono dei manufatti di civile abitazione realizzati illecitamente sul quell'area, destina ad altro e diverso uso. Puo' tale normativa trovare giustificazione costituzionale in una (piu' o meno vera) inerzia del comune nell'adozione dei provvedimenti tesi al rispetto della legalita'? L'assunto, la cui rispondenza al vero (specialmente in termini quantitativi) e' tutta da dimostrare, come pure da dimostrare e' la sua rilevanza ai fini di parare la eccezione di incostituzionalita', non ha comunque pregio posto che neanche la dimostrata concreta esistenza di una positiva attivita' di controllo e di repressione dell'abusivismo da parte del comune serve, secondo la legge, ad impedire la sanatoria (cfr. art. 43, primo e quinto comma, della legge n. 47/1985). 8. - L'ultimo profilo di incostituzionalita' che questo pretore intende sollevare attiene alla violazione del diritto della proprieta' pubblica dei comuni (art. 42 della Costituzione) in relazione agli artt. 3, 42 e 128 della Costituzione; nonche' alla violazione dell'art. 3 della Costituzione sotto l'aspetto della contraddittorieta' ed irrazionalita' della normativa impugnata che consente ad un soggetto non titolare del diritto di farlo tuttavia valere contro chi ne e' invece il titolare. L'art. 7 della legge n. 47/1985, quanto alle ipotesi di opere eseguite in assenza di concessione edilizia, in totale difformita' ovvero con variazioni essenziali, stabilisce che il sindaco debba emettere un'ordinanza di demolizione. Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonche' quella necessaria, secondo le vigenti disposizioni alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio comunale. Secondo la giurisprudenza amministrativa (cfr. Consiglio di Stato cfr. sezione quinta 23 gennaio 1991, n. 66, in Giust. civ. 1991, I, 1599; t.a.r. Abruzzo 15 gennaio 1990, n. 19, in F.I. 1991, III, 101) l'acquisizione gratuita al patrimonio pubblico comunale delle opere abusive si verifica, senza che occorrano altri requisiti oggettivi, quando sia decorso il termine fissato dalla legge dalla notificazione dell'ordinanza sindacale di ripristino dello stato dei luoghi. Secondo altra tesi invece (che ha trovato recente eco in una pronuncia della Cassazione penale) l'effetto traslativo si verificherebbe solo con l'accertamento dell'inottemperanza alla ingiunzione a demolire e con l'immissione in possesso e la trascrizione nei registri immobiliari (di cui al quarto comma dell'art. 7 della legge n. 47/1985). Se si condivide la prima tesi (che appare del tutto conforme alla lettera dell'art. 7 e alle regole del diritto civile possesso e trascrizione non sono di regola funzionali all'acquisto della proprieta' se non casi eccezionali, ad es. per una particolare specie di usucapione), si deve convenire che e' il comune il proprietario dell'immobile oggetto della ingiunzione in tutti i casi in cui il provvedimento amministrativo abbia potuto validamente esplicare i suoi effetti (non sia stato sospeso o annullato dal giudice amministrativo). L'art. 43 della legge n. 47/1985 prevede che "l'esistenza di provvedimenti sanzionatori non ancora eseguiti, ovvero ancora impugnabili o nei cui confronti pende l'impugnazione non impedisce il conseguimento della sanatoria". Il senso della norma e' che quand'anche un provvedimento sanzionatorio sia divenuto definitivo il conseguimento della sanatoria e' ancora possibile sol che esso non sia stato materialmente eseguito. Poiche' un provvedimento sanzionatorio per eccellenza e' quello con il quale il comune ordina al responsabile dell'abuso la demolizione puo' ritenersi che la norma in esame, in relazione ad una siffatta situazione (ordinanza di demolizione per la quale e' decorso il termine di novanta giorni dall'ingiunzione e che e' divenuta definitiva), consenta che il responsabile dell'abuso possa conseguire la sanatoria. Ma il responsabile dell'abuso non e' piu' proprietario del bene comune che potrebbe fra l'altro averne nel frattempo disposto alle condizioni previste dalla legge per suoi scopi) sicche' ogni sua attivita' (come la domanda di concessione di sanatoria) relativa all'immobile in questione avviene a non domino. La norma che consente cionondimeno ad un soggetto non legittimato il conseguimento della sanatoria appare (almeno alla stregua di tale interpretazione) un monstrum giuridico, confliggente con le norme costituzionali sopra indicate, ed incoerente con gli stessi presupposti in via generale previsti dalla legge n. 47/1985 (in tema di soggetti abilitati a proporre la domanda, cfr. art. 31, primo comma), cui e' arduo trovare spiegazioni costituzionali. La questione e' nel processo de quo rilevante posto che in data 28 marzo 1992 alla Luciani veniva notificata ingiunzione a demolire dal sindaco di Trevignano e il provvedimento e' definitivo non risultando avverso il medesimo promossa azione di annullamento presso il giudice amministrativo (ne' quindi risultando emesso alcun provvedimento sospensivo).