ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 47, ultimo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Ordinamento penitenziario), promosso con ordinanza emessa il 2 dicembre 1993 dal Tribunale di sorveglianza di Brescia nel procedimento di sorveglianza nei confronti di Cervati Corrado, iscritta al n. 205 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell'anno 1994; Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nella camera di consiglio del 12 ottobre 1994 il Giudice relatore Renato Granata; Ritenuto che, con ordinanza del 2 dicembre 1993, il tribunale di sorveglianza di Brescia - chiamato a pronunziarsi sull'istanza di un condannato volta ad ottenere la dichiarazione di estinzione della pena, "anche pecuniaria" (comminatagli congiuntamente a quella detentiva), a seguito di positivo esito dell'affidamento in prova al servizio sociale, ai sensi dell'art. 47, ultimo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (ordinamento penitenziario) - ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata, "in riferimento all'art. 27 Cost. ed al principio di ragionevolezza", onde ha sollevato, questione incidentale di legittimita' della disposizione suddetta, ove interpretata nel senso che l'estinzione, ivi prevista, concerna la sola pena detentiva; che, nel giudizio innanzi a questa Corte, e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri per eccepire alternativamente l'inammissibilita' e l'infondatezza della impugnativa. Rilevato che, per altro, lo stesso tribunale rimettente, con diffusa argomentazione, preliminarmente sostiene che la retta esegesi della norma denunciata (anche alla stregua del canone di prevalenza della lettura conforme a Costituzione) gia' di per se' conduca a ritenere esteso alla pena pecuniaria l'effetto estintivo in parola. Ed espressamente poi ammette di sollevare la riferita questione unicamente al fine di evitare che la decisione, che egli andasse ad adottare in applicazione dell'art. 47 ord. pen. , in tal senso interpretato, possa essere, su prevedibile ricorso del P.G., in prosieguo annullata dalla Corte di Cassazione, che con precedente pronunzia (21 settembre 1993) ha mostrato di condividere l'opposta interpretazione, restrittiva, della norma in oggetto. Considerato che, pero', l'incidente cosi' sollevato e' sotto plurimi profili inammissibile; che infatti il giudice a quo contesta non una interpretazione (a suo avviso illegittima) consolidata in termini di "diritto vivente" ma, di fatto, un'unica pronuncia della Cassazione, che non gli preclude ove possibile - ed anzi gli impone in ogni caso come prioritaria - una "interpretazione adeguatrice" (cfr. 456/89; 121, 149, 255/94). Di talche', quando una esegesi siffatta sia praticabile - e sia stata anzi, come nella specie, in concreto positivamente verificata - vengono con cio' stesso meno i presupposti della denuncia di illegittimita'; che, inoltre - al di la' del radicale sbarramento, che si rinviene nel giudizio di costituzionalita', per questioni meramente interpretative (v. da ultimo sent. 271/91) - va sottolineato l'ulteriore limite (pure travalicato dal Tribunale a quo) inerente al dispiegarsi della funzione di nomofilachia della Corte di Cassazione, per cui non puo' chiedersi a questa Corte una sorta di "revisione in grado ulteriore" delle interpretazioni offerte da quell'organo (cfr. nn. 456/89 cit; 44/94); che, per di piu', anche il requisito della rilevanza non sarebbe ravvisabile in una questione, come quella in oggetto, sollevata non in funzione della decisione (che il tribunale gia' potrebbe adottare nel senso auspicato, in base all'interpretazione adeguatrice della norma, che a suo avviso e' anzi l'unica corretta), bensi' solo in prospettiva della eventualita' che la decisione stessa possa andare incontro ad un futuro annullamento in sede impugnatoria; che conclusivamente - e come gia' affermato in fattispecie analoga a quella odierna, con ordinanza 548/1988 - e' manifestamente inammissibile la questione di legittimita' quando con essa il Tribunale rimettente "censura in realta' solo una certa interpretazione che della disposizione impugnata da' la Corte di Cassazione e che egli esplicitamente, afferma di non condividere", in quanto appunto "compete al giudice a quo e non a questa Corte di interpretare la disposizione impugnata nel modo che lo stesso giudice ritiene corretto"; che identica declaratoria di manifesta inammissibilita' si impone quindi anche per l'odierna questione. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.