IL PRETORE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento a carico di Di Manno Alberto Francesco, imputato del reato di cui all'art. 21 terzo comma della legge n. 319/1976 per aver effettuato scarichi "risultati non conformi alle tabelle di legge poiche' superavano i limiti della tabella A", in territorio di Perugia in data 2 aprile 1993; OSSERVA A) Sussiste l'ipotesi di non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 3 del d.l. 17 settembre 1994, n. 537 poiche' detto articolo modifica il terzo comma dell'art. 21 della legge n. 319/1976, nella specie oggetto di contestazione, prevedendo una manifesta disparita' di trattamento tra coloro che scaricando non osservano i limiti di accettabilita' previsti dalle tabelle, per la cui fattispecie la sanzione comminata dal legislatore e' penale soltando laddove lo scarico supera di oltre il 20% i limiti di accettabilita' delle tabelle stesse, rispetto a coloro che ai sensi del primo comma dell'art. 21 legge Merli scaricano in difetto di prescritta autorizzazione, fattispecie per la quale il legislatore ha previsto l'obbligatorieta' della sanzione penale. La norma citata si pone in contrasto con gli art. 3 e con l'art. 9 della Costituzione per manifesta disparita' di trattamento sanzionatorio che il legislatore ha previsto per fattispecie analoghe ed anzi di maggiore gravita' sostanziale per quanto in particolare concerne la modifica del comma 3 dell'art. 21 legge Merli come novellato dal decreto legge citato; in contrasto altresi' con l'art. 9 della Costituzione in relazione al secondo comma dell'articolo stesso in quanto la mancata applicazione della sanzione penale nella fattispecie prevista dall'art. 3 del d.l. citato appare insufficiente a tutelare il paesaggio nella eccezione piu' lata che recenti pronuncie delle Corti Supreme hanno dato alla nozione del paesaggio; infine la norma in questione appare in contrasto altresi' con l'art. 10 della Costituzione che impone allo Stato italiano di conformarsi alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute laddove omette la sostanziale applicazione ed attuazione delle direttive CEE in materia di inquinamento ambientale. B) La prospettata questione appare altresi' rilevante, nel caso in esame, poiche' l'imputato ha ritualmente e tempestivamente avanzato richiesta di applicazione ai sensi dell'art. 444 del c.p.p. della pena dell'ammenda prevista per il reato contestato dal citato art. 3 d.l. n. 537/1994 ed il presente giudizio, pertanto, non puo' definirsi in modo indipendente dalla risoluzione della prospettata questione di legittimita' costituzionale. Circa i presupposti di diritto in ordine alla non manifesta infondatezza si rileva quanto segue. Va premesso che la legge 10 maggio 1976, n. 319 e succ. mod. (cosiddetta "legge-Merli") costituisce la norma-base in materia di tutela del territorio e delle acque dall'inquinamento idrico, e nel suo contesto sanzionatorio il reato piu' grave e signiticativo in senso assoluto e' stato sempre considerato quello previsto dal terzo comma dell'art. 21 posto che punisce la condotta sostanziale, immediatamente incidente sull'ambiente naturale, di coloro che "inquinano" materialmente nel senso logico-previsionale della legge stessa e cioe' superando nello scarico i limiti di accettabilita' previsti dalla legge stessa come parametri massimi formalmente tollerabili per ciascuna sostanza riversata su quello che viene definito il corpo ricettore (e che in realta' e' in massima parte il patrimonio idrico e poi anche territoriale del nostro Paese). Accanto ad altri reati satellite, si evidenzia altro reato, per cosi' dire preventivo e burocratico, previsto dal primo e secondo comma del citato art. 21 che punisce chi opera uno scarico senza aver ottenuto l'autorizzazione amministrativa allo stesso. Di conseguenza, il reato di cui al terzo comma citato riporta la pena piu' grave (arresto due mesi a due anni oltre la pena accessoria dell'incapacita' di contrattare con la pubblica amministrazione), mentre nel caso dei reati previsti dagli altri commi o dagli altri articoli si prevedono pene piu' lievi, laddove peraltro la pena detentiva e' alternativa a quella pecuniaria (con possibilita' di oblazione). L'art. 3 del decreto legge in esame, come e' stato sopra riportato, depenalizza in linea generale il terzo comma dell'art. 21 e relega in una ipotesi secondaria un residuo di sanzione penale applicabile a casi specifici e limitati, selettivamente individuati. Riguardo a quest'ultimo punto, si osserva che: la norma portante e di base diventa l'ipotesi depenalizzata, che trova applicazione nel grande contesto generale della disciplina degli scarichi; e con cio' si e' operata di fatto una diffusa e latente depenalizzazione del reato del terzo comma art. 21; l'ipotesi residua penale e' espressamente indicata come semplice "deroga" a questa regolamentazione di base ed e' ristretta ad alcuni casi specifici limitati; detta residua sanzione penale e', peraltro, estremamente piu' modesta rispetto alla sanzione originaria del terzo comma in questione giacche' prevede in un caso la sola ammenda ed in altro caso la pena dell'arresto alternativa con l'ammenda e dunque entrambi i casi sono soggetti all'oblazione; peraltro nel primo caso trattasi di oblazione "semplice" prevista dall'art. 162 del c.p. con la conseguente impossibilita' del giudice di negare l'oblazione stessa quando "permangano conseguenze pericolose o dannose del reato eliminabili da parte del contravventore" (art. 162/ bis c.p.); e, di fatto, il sistema sanzionatorio si traduce in una depenalizzazione potenziale indiretta, ben diversa dalla previsione originaria del terzo comma come sopra espressa; detta residua ipotesi di carattere penale appare poi scarsamente adattabile ai casi concreti in quanto la verifica del superamento della soglia del 20 per cento non e' immediatamente percepibile dagli organi di p.g. in loco in sede di accertamento dell'illecito e dunque un organo di p.g. non sa e non puo' sapere in quel momento se agisce come organo di polizia giudiziaria che accerta un reato (con tutti i poteri/doveri conferitigli dal codice di procedura penale) o come organo amministrativo che verifica un illecito amministrativo (con schemi operativi del tutto diversi); ne' e' data possibile questa verifica in quei casi di inquinamento oggettivo ai quali la giurisprudenza della Corte di cassazione ricollega un superamento automatico generale, anche se non quantificato, dei limiti tabellari in seguito a riversamento nel corpo ricettore di alcuni tipi di scarico (es. allevamenti) senza alcuna forma di depurazione e trattamento (come nel caso di specie ove il capo di imputazione prescinde dalle analisi e si basa su riscontro di comune scienza/esperienza per scarico senza trattamento, rendendo quindi di fatto impossibile il calcolo del superamento del 20 per cento su una analisi inesistente); detta residua ipotesi di carattere penale rende impossibile per l'organo di p.g. per le medesime ragioni, l'immediata percezione in loco in sede di accertamento dei limiti di accettabilita' inderogabili per i parametri di natura tossica, persistente e bioaccumulabile, di cui all'ultima parte dell'art. 3 del decreto in esame cosicche' anche in tal caso un organo di p.g. non sa e non puo' sapere in quel momento se agisce come organo di polizia giudiziaria che accerta un reato (con tutti i poteri/doveri conferitigli dal codice di procedura penale) o come organo amministrativo che verifica un illecito amministrativo (con schemi operativi del tutto diversi); la sinergia di dette previsioni amministrative/penali con labili ed incerti confini di immediata definizione e percezione in sede di accertamento di p.g. crea di fatto una incertezza operativa per gli organi di polizia giudiziaria che rischia di tradursi in una generale casistica di accertamenti mancati e/o inesatti per inevitabili errori ed incertezze interpretative e difficolta' attuative. Nel cosi' rinnovato e novellato testo generale della legge n. 319/1976, consegue peraltro che colui che viola il regime autorizzatorio (e quindi pone in essere una condotta illecita ben piu' modesta in via sostanziale rispetto a chi scarica inquinando) vede intatta la norma punitiva originaria che prevede, in linea teorica, anche l'arresto che addirittura puo' giungere fino a due anni; mentre chi riversa nell'ambiente naturale sostanze inquinanti in violazione di legge sara' soggetto, in linea generale, ad una semplice sanzione amministrativa (o, nel caso piu' teorico che pratico - a prova remota - della deroga residua penale sara' soggetto ad una blanda sanzione penale immediatamente oblazionabile e quindi di fatto potenzialmente ed indirettamente decriminalizzata); in detta situazione si puo' individuare, ad avviso dello scrivente pretore, una violazione dell'art. 3 della Costituzione in quanto si e' creata una ingiustificata disparita' di trattamento tra i cittadini soggetti alle sanzioni del primo/secondo e terzo comma art. 21 legge n. 319/1976. Nel contesto del citato principio di uguaglianza la Corte costituzionale (sentenza n. 7/1963) ha stabilito che appare legittimo per il legislatore emanare norme differenziate riguardo a situazioni obiettivamente diverse solo a condizione che tali norme rispondano all'esigenza che la disparita' di trattamento sia fondata su presupposti logici obiettivi, i quali razionalmente ne giustifichino l'adozione. In caso di trattamento sanzionatorio irrazionalmente differenziato la Corte costituzionale ha sempre dichiarato l'incostituzionalita' delle disposizioni relative (da ultimo, sentenza n. 341/1994 in materia di oltraggio con ridimensionamento della pena minima edittale). Il sistema sanzionatorio dell'art. 21 legge n. 319/1976, cosi' come modificato dall'art. 3 del decreto legge in esame, di fatto e in ogni caso crea un profondo ed oggettivo svuotamento deterrente e punitivo in ordine a quello che puo' essere definito non uno qualsiasi dei reati in materia ambientale ma senz'altro il piu' grave o comunque uno tra i piu' gravi reati in assoluto in questo settore, e cioe' l'inquinamento in senso stretto del patrimonio idrico nazionale e del territorio in linea generale. Va sottolineato al riguardo che, nonostante il titolo del decreto ("Modifiche alla disciplina degli scarichi delle pubbliche fognature e degli insediamenti civili che non recapitano in pubbliche fognature"), in realta' la modifica del terzo comma dell'art. 21 in questione va ad incidere in via diretta e totale sulla regolamentazione sanzionatoria anche degli scarichi da insediamenti produttivi, ivi compresi i grandi complessi industriali. Dunque anche i grandi casi di inquinamento chimico di origine industriale rientrano in detta modifica. Il ridurre le relative sanzioni, che possono dunque riguardare anche casi socialmente gravissimi sotto il profilo biologico/ambientale, ad una sanzione amministrativa o, tutt'al piu', ad una improbabile e difficilmente raggiungibile sanzione penale di minima e trascurabile ed oblazionabile entita', significa di fatto aver creato uno svuotamento improvviso ed ingiustificato del sistema sanzionatorio originario che era, invece, chiaro, facilmente interpretabile, facilmente attuabile e soprattutto riportava un effetto deterrente e punitivo di ben altra portata. Va peraltro osservato che sul modificato terzo comma dell'art. 21 legge n. 319/1976 si e' innestata una fiorente ed articolata giurisprudenza della Corte di cassazione che ha costruito principi inediti ed importanti ruotando intorno a detto sistema sanzionatorio; si pensi alle innovative sentenze sulla natura dei prelievi operabili anche da organi di p.g., alle problematiche sulle garanzie della difesa in sede di accertamento, alle nuove possibilita' operative offerte alla p.g. in diverse sedi di accertamento nel settore, alla individuazione di concetti-base come quello di insediamento produttivo e civile ed alle innumerevoli problematiche connesse risolte in sede di indagine e processuale, alle decisioni sulle competenze istituzionali, alla individuazione dei punti di scarico ed alle metodiche di prelievo e si potrebbe a lungo continuare; trattasi di una stratificazione, omogenea e per nulla disarticolata, di giurisprudenza che negli ultimi anni ha creato un vera e propria prassi interpretativa/applicativa di supporto e integrazione alla legge n. 319/1976 che ha costituito fino ad oggi l'ossatura portante delle indagini di p.g. e dei processi in materia; il decreto in esame, intaccando alla radice il sistema sanzionatorio su cui si e' basato l'intervento della suprema Corte, ha azzerato di fatto questa preziosa costruzione giurisprudenziale che appare in larga parte non piu' pertinente. In detto svuotamento sanzionatorio di uno dei reati piu' importanti in materia di tutela ambientale (forse il reato piu' importante in assoluto in materia di inquinamenti) si profila ad avviso dello scrivente pretore, una violazione del disposto dell'art. 9/secondo comma della Costituzione, laddove la tutela del paesaggio, inteso secondo le piu' recenti pronunce della Corte di cassazione e della Corte costituzionale, non deve essere inteso solo come bellezza estetica da cartolina ma come ambiente naturale in senso lato, quindi comprensivo anche degli inevitabili ed inscindibili aspetti bionaturalistici. Il decreto-legge prevede come sostanze pericolose esclusivamente quelle contenute nella delibera del 30 dicembre 1980, ma successivamente a tale data le tabelle allegate alla legge n. 319/1976 sono state modificate inserendo anche altre sostanze notevolmente pericolose come i policlorobifenili ed i pesticidi differenti da quelli clorurati e fosforati; nel momento in cui invece si fa riferimento esclusivamente a quelle contenute nella delibera vengono fatte salve queste sostanze che, pur se pericolose, non vengono ad essere considerate tra quelle soggette alle sanzioni previste per le altre sostanze pericolose (ad es. atrazina). Inoltre si deve evidenziare come la legge n. 319/1976 non prevede che non vengano scaricate esclusivamente le sostanze contenute nella tabella A, ma prevede anche che non vengano scaricate senza autorizzazione tutte le sostanze possibili tossiche e nocive che possono essere presenti in uno scarico, talche' quando pretende l'autorizzazione all'art. 13 prevede che si chieda l'autorizzazione anche per tutte le sostanze inquinanti rendendo appunto necessaria la dichiarazione delle caratteristiche qualitative e quantitive dello scarico ma non limitatamente a quelle previste dalle tabelle. Questo precetto comporta che se un soggetto scarica nella acque uno sostanza tipo la diossina, non essendo la diossina stessa prevista tra i limiti tabellari l'autorita' competente che rilascia l'autorizzazione potra' e dovra' certamente prescrivere un limite per la diossina; nel momento in cui, pero', viene ad essere prescritto questo limite, non essendo la diossina annoverata dai limiti tabellari con l'attuale dizione presente nel decreto-legge in esame, abbiamo che pur in presenza di detto scarico che riguarda una delle sostanze piu' tossiche, non e' applicabile la stessa sanzione che e' irrogabile ad esempio per il mercurio; e quanto esposto per la diossina vale per molte altre sostanze tossiche come ad esempio l'argento. Va inoltre tenuto presente che le sostanze tossiche contenute nella delibera del 31 dicembre 1980, cosiddette inderogabili, sono solo una piccolissima parte di quelle che invece sono da considerare tossiche e nocive, perche' solo una piccola parte di queste sostanze possono essere ricondotte alle 129 sostanze previste dalla direttiva C.E.E. madre per quanto riguarda l'inquinamento e quindi andare ad applicare delle sanzioni penali esclusivamente a queste sostanze pericolose e' del tutto limitativo e non rispetta quanto previsto dalla direttiva C.E.E. Per gli stessi motivi esposti in relazione all'art. 9 della Costituzione, si ritiene che la norma in esame si ponga in contrasto anche con l'art. 32 della carta costituzionale. Infatti nel concetto di tutela della salute come principio costituzionalmente garantito deve, per forza di cose, ricomprendersi il piu' vasto concetto della salute pubblica nel senso della salubrita' dell'ambiente naturale ed urbano ove ciascun cittadino vive. Il diritto alla salute inteso anche come diritto all'ambiente salubre e' stato ormai ripetutamente accertato in giurisprudenza (si veda per tutte la famosa sentenza delle sezioni unite n. 517 del 6 ottobre 1979, nonche' la Corte costituzionale in data 31 dicembre 1987, n. 641 ed in data 16 marzo 1990 n. 17). E' fuor dubbio che la diminuita, ed anzi per certi versi di fatto del tutto caducata, possibilita' di intervento deterrente/punitivo in sede di illeciti da inquinamento idrico crea i presupposti per una evoluzione incontrollata del fenomeno, incoraggiata dall'abbassamento della guardia in sede di controlli di p.g. e possibilita' di intervento processuale; e tutto questo si traduce in via diretta in un danno per la salute e salubrita' pubblica in un ambiente che resta cosi' maggiormente ed incontrollatamente esposto al degrado inquinante. Va ancora rilevato che la norma in esame pare porsi in totale contrasto con gli obblighi che derivano al nostro Paese per l'appartenenza all'unione europea. Gia' due volte la Corte europea di giustizia ha condannato il nostro Paese per il contrasto tra la "legge-Merli" e le direttive comunitarie, tra l'altro anche per la permissivita' del sistema autorizzatorio previsto e per la "insufficienza" delle sanzioni penali previste dall'art. 22 in relazione alla inosservanza delle prescrizioni dell'autorizzazione (Corte di giustizia 28 febbraio 1991 e 13 dicembre 1990 - pubblicate integralmente in "Amendola, inquinamento e industria", - Milano 1992 - pag. 69 e segg.). La sopra esposta generale regressione sanzionatoria creata dal decreto legge in esame concretizza di conseguenza una ulteriore evoluzione del grado di inadempienza italiana verso le direttive C.E.E. e verso le sentenze della Corte europea. Peraltro il decreto stesso, eliminando limiti certi per gli scarichi da pubbliche fognature si pone in evidente contrasto con la direttiva C.E.E. n. 271 del 21 maggio 1991 sul trattamento delle acque reflue urbane, che lo Stato italiano avrebbe dovuto gia' recepire entro lo scorso giugno 1993 e che fissa obblighi e limiti ben precisi, con ben pochi margini di discrezionalita' specie per le "aeree sensibili". E del resto il contrasto e' apparso evidentemente gia' in sede di redazione del testo in esame se il decreto specifica espressamente nell'art. 1 comma terzo che "le disposizioni del presente decreto si applicano in attesa dell'attuazione della direttiva 91/271/C.E.E. del 21 maggio 1991". Dunque da un lato l'Italia non ha recepito la direttiva C.E.E. nei termini stabiliti e dall'altro ha adottato un decreto legge in antitesi ai principi della direttiva stessa, con una mora temporale applicativa illogica. Ove il decreto n. 537 dovesse essere convertito in legge, le sue prescrizioni si applicheranno dunque finche' non si sara' data attuazione alla citata direttiva; evoluzione che dovrebbe avvenire, secondo la legge comunitaria 1993 n. 146 del 22 febbraio 1994, entro il marzo 1995, e cioe' entro pochissimi mesi; e, peraltro, con rigidi principi di attuazione predeterminati dal Parlamento (art. 37, primo comma) in evidente contrasto con la elasticita' e genericita' del decreto in esame. Il che provochera' ulteriore confusione ed incertezza del diritto. Ed in ogni caso va sottolineato che, secondo la citata legge comunitaria, il Governo dovrebbe dare attuazione a questa direttiva provvedendo all'"adeguamento della normativa vigente alla disciplina comunitaria, apportando alla prima ogni necessaria modifica ed integrazione allo scopo di definire un quadro omogeneo ed organico delle disposizioni di settore" (art. 36 lett. c). Dato il carattere regressivo in sede sanzionatoria del decreto 537, ritiene lo scrivente che si appalesa un contrasto con l'art. 10 della Costituzione per mancata conformazione alle citate norme del diritto internazionale. Si rileva inoltre che la regressione sanzionatoria in esame si pone in evidente contrasto con il principio "chi inquina paga", oggi chiaramente presupposta da diverse decisioni della Corte di cassazione (tra le altre, cass. pen. sez. III, 2 febbraio 1994, n. 2525 e cass. pen. sez. III, 6 aprile 1993, n. 3148). La norma denunciata infatti favorisce apertamente chi ha violato la legge e penalizza, invece, anche sul piano della concorrenza tra imprese, proprio le aziende che hanno affrontato rilevanti investimenti per adeguare i propri impianti alle esigenze di tutela ambientale; e cio' appalesa, ad avviso dello scrivente, un contrasto con l'art. 41 della Costituzione.