IL PRETORE Visti gli atti del procedimento penale n. 1979/1993 contro Andidero Natale, nato a Cataforio (Reggio Calabria) il 10 settembre 1941 ed imputato: a) del reato, p. e p. dall'art. 20 della legge n. 47/1985, per avere eseguito i lavori di costruzione di un manufatto in c.a. a tre piani f.t. (estesa mq 35 per piano) in assenza della concessione edilizia; b) del reato, p. e p. dagli artt. 17 e 20 della legge n. 64/1974, per avere iniziato la costruzione di cui al capo a) senza nulla osta del genio civile; c) del reato, p. e p. dagli artt. 18 e 20 della legge n. 64/1974, per avere effettuato la costruzione, di cui al capo a), senza direzione tecnica di un professionista autorizzato. Fatti commessi in Mosorrofa di Reggio Calabria il 3 febbraio 1993; Letta l'istanza presentata all'odierna udienza dal p.m. (dott. Giuseppe Creazzo) acche' sia sollevata questione di legittimita' costituzionale dagli artt. 1, 2 e 3 del d.-l. n. 551 del 27 settembre 1994 in relazione agli artt. 79 e 3 della Costituzione e sentito il difensore dell'imputato; Visto l'art. 23 della legge n. 87 dell'11 marzo 1953; Ritenuto che la prospettata questione appare rilevante e non manifestamente infondata per i motivi che seguono; MOTIVI DI RILEVANZA Il p.m. argomenta sul punto nel modo seguente: "la questione va dichiarata rilevante, poiche' deve essere disposta la sospensione del presente procedimento - tale sospensione discende obbligatoriamente dall'applicazione del combinato disposto dell'art. 1 del d.-l. n. 551/1994 e dell'art. 44 della legge n. 47/1985, posto che il reato risulta essere stato commesso entro il 31 dicembre 1993, termine ultimo previsto dall'art. 1, primo comma, del d.-l. n. 551/1994. La sospensione opera e deve essere disposta in tutti i procedimenti aventi ad oggetto i reati, di cui all'art. 20 della legge n. 47/1985 anche indipendentemente da una richiesta di parte e costituisce il primo atto dell'intera procedura prevista per addivenire alla declaratoria di estinzione del reato a seguito del pagamento della somma stabilita. Ne consegue che, come gia' statuito dalla Corte costituzionale in caso identico, afferente la disciplina di cui alla legge n. 47/1985, divengono rilevanti le questioni di costituzionalita' relative a tutte le disposizioni della legge (adesso integralmente fatta rivivere dal decreto-legge citato) che risultano intimamente collegate tra loro nell'unico fine di regolamentare il meccanismo procedimentale di sanatoria (sent. Corte costituzionale n. 369 del 23/31 marzo 1988). L'argomentazione del p.m. va senz'altro condivisa. Va, comunque, rilevato che, nel caso di specie, l'imputato ha avanzato un'esplicita richiesta di sospensione del proc. ex artt. 1 del d.-l. n. 551/1994 e 44 della legge n. 47/1985 e che la stessa, nell'attestare in maniera inequivocabile la volonta' dell'imputato medesimo di valersi dell'intera procedura di sanatoria e di fruire del condono edilizio, e' idonea a fugare a monte ed in maniera definitiva qualunque possibile riserva in ordine alla rilevanza dei vari articoli di legge disciplinanti la procedura di sanatoria. MOTIVI DI NON MANIFESTA INFONDATEZZA 1. - In ordine alla violazione dell'art. 79 della Costituzione il p.m. ha ritenuto che il provvedimento, di cui al d.-l. n. 551/1994, comportando la rinuncia da parte dello Stato a punire particolari reati e per un periodo di tempo definito, vada qualificato giuridicamente come istituto assimilabile, per quanto attiene alla valutazione del rispetto della Costituzione, a quello dell'amnistia e che, pertanto, lo stesso andava sottoposto alla disciplina costituzionale dell'art. 79 della Costituzione (che, dopo la modifica apportata dall'art. 1 della legge costituzionale 6 marzo 1992, n. 1, recita "l'amnistia e l'indulto sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale") e non poteva essere emesso nella forma del decreto-legge. Il p.m. ha altresi' rilevato che la disciplina costituzionale in materia di provvedimenti di clemenza e' regolata esclusivamente dal citato art. 79 della Costituzione e che, pertanto, e' ad esso che va fatto riferimento anche qualora si segua l'orientamento espresso dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 369 del 23/31 marzo 1988, emessa a seguito di questione di legittimita' costituzionale analoga, laddove la stessa affermava che il condono edilizio, pur non avendo natura di amnistia, andava pur sempre considerato come un provvedimento di clemenza atipico. Escludere l'applicabilita' dell'art. 79 della Costituzione ad un siffatto provvedimento di clemenza atipico finirebbe, secondo il p.m., con il rendere il precetto costituzionale facilmente aggirabile, a cio' bastando di volta in volta far ricorso ad analoghi "atipici" provvedimenti di clemenza. Sul punto si puo' aggiungere che l'esclusivo riferimento dell'art. 79 della Costituzione all'amnistia ed all'indulto e' soltanto la conseguenza della storica tipizzazione in questi due istituti dell'attivita', in cui si e' manifestata la potesta' di clemenza dello Stato con portata generale, e non vale, di certo, ad escludere l'operativita' del precetto costituzionale in ordine a quegli atti clemenziali atipici di portata generale ed espressione della medesima potesta' statuale. Tornando, comunque, al problema della qualificazione giuridica del condono edilizio, di cui al d.-l. n. 551/1994, questo pretore ritiene che non sia necessario ricorrere ad una figura di atto clemenziale atipico, ma che lo stesso possa essere considerato a tutti gli effetti un atto di amnistia sospensivamente condizionata. Com'e' noto la sottoposizione dell'amnistia a condizioni e' espressamente prevista dall'art. 151, quarto comma, del c.p., mentre l'art. 672, quinto comma, del c.p.p. ne disciplina l'efficacia, prev- edendo la sospensione dell'applicazione del beneficio fino a che, entro il termine previsto, non sia realizzata la condizione sospensiva imposta. Va precisato che l'art. 151, quarto comma, del c.p. distingue esplicitamente le "condizioni" dagli "obblighi" e, pertanto, sarebbe del tutto non conforme al dettato legislativo la tesi che escludesse gia' da un punto di vista concettuale la sussistenza di una amnistia sottoposta a condizione ed ammettesse soltanto un'amnistia sottoposta ad obblighi. Non c'e' dubbio che la condizione puo' essere costituita da un fatto qualsiasi, anche dipendente in tutto ed in parte dalla volonta' dell'imputato, come ad esempio il pagamento di una determinata somma di denaro od il risarcimento del danno alla parte offesa nei reati contro la persona. Nulla, dunque, puo', da un punto di vista logico- giuridico, ostare al fatto che la condizione consista, come nel caso del condono edilizio, nell'espletamento ad iniziativa dell'imputato di un procedimento amministrativo, che si concluda con il pagamento di una somma, da determinarsi, peraltro, in base a parametri gia' definiti in via generale dal legislatore. Qualora poi si voglia sostenere che, il condizionare l'operativita' dell'amnistia ad esempio al pagamento di una somma di denaro non possa configurarsi come una condizione "in senso tecnico" (se cioe' paragonata all'istituto civilistico), (vedi sentenza Corte costituzionale n. 369 del 23/31 marzo 1988), non si vede per quale motivo l'amnistia medesima debba perdere per cio' solo tale sua natura. Quello che importa e' che una tale ipotesi di amnistia, operante cioe' solo in caso di avvenuto pagamento, possa giuridicamente sussistere. Ne consegue che la stessa va sottoposta alle medesime garanzie costituzionali di un'amnistia che operi immediatamente. Quanto detto per il pagamento della somma vale ovviamente per le altre condizioni prima menzionate, compresa quella dell'espletamento di una procedura amministrativa. A conforto di quanto fin qui sostenuto, va ricordato che il legislatore ha piu' volte emanato decreti di amnistia "condizionati" in materia di reati finanziari. In tali casi la concessione del beneficio e' stata sempre subordinata alla condizione del pagamento dei diritti o tributi evasi. Ad esempio gli artt. 1 e 2 del d.P.R. 9 agosto 1982, n. 525, intitolato concessione di amnistia per i reati tributari, nei limiti poi fissati dall'art. 1 del d.P.R. 22 febbraio 1983, n. 43, prevedevano: che l'amnistia per i reati tributari commessi sino al 30 giugno 1982 fosse subordinata alla condizione che il contribuente presentasse istanza ai competenti uffici tributari per la c.d. definizione "automatica" delle proprie pendenze, ai sensi della legge 7 agosto 1982, n. 576, e che i relativi procedimenti penali fossero sospesi fino a quando l'ufficio finanziario non avesse comunicato al giudice "gli elementi necessari per valutare la sussistenza delle condizioni richieste per l'applicazione dell'amnistia". Quindi anche nella ipotesi dell'amnistia condizionata per i reati tributari l'operativita' del beneficio postulava l'impulso (con relativi esborsi monetari) del contribuente interessato, che avviava una procedura amministrativa presso gli uffici finanziari con conseguente sospensione temporanea del procedimento penale sino all'esito di detti accertamenti amministrativi. Anche in detta fattispecie giuridica accade che la volonta' degli interessati e delle competenti autorita' amministrative diventino, per usare le stesse parole della sentenza della Corte costituzionale n. 369 del 1988, "fattori determinanti i previsti sviluppi delle vicende giuridiche sostanziali e processuali". Probabilmente se, invece, di intitolare il provvedimento come concessione di amnistia per i reati tributari, si fosse parlato di condono tributario si sarebbero posti problemi di qualificazione giuridica analoghi a quelli nati per il condono edilizio. E', infine, appena il caso di sottolineare che nel caso dell'amnistia per reati tributari, come in quello del condono edilizio, l'effetto estintivo del reato, non e' riconducibile all'oblazione, ma, analogamente a quanto avviene per una qualunque ipotesi d'amnistia condizionata, va dichiarato, dal giudice in applicazione di precise norme di legge, una volta che si dimostri l'avverarsi della condizione che funzionava da ostacolo paralizzante l'effetto estintivo medesimo. 2. - Quanto alla violazione dell'art. 3 della Costituzione il p.m. ha rilevato che e' proprio dalla citata sentenza della Corte costituzionale n. 369 del 1988 che possono ricavarsi le argomentazioni piu' pregnanti a sostegno della non conformita' alla Costituzione della normativa di cui al d.-l. n. 551/1994 sotto il duplice profilo dell'irragionevolezza e della violazione del principio di uguaglianza anche in relazione agli artt. 9, secondo comma, 41, secondo e terzo comma, 42, secondo comma, della Costituzione. La Corte costituzionale nella citata sentenza ha, infatti, da un lato, ribadito il carattere eccezionale degli atti di clemenza e la necessita' di contenere nei piu' ristretti limiti l'esercizio della relativa potesta' di clemenza, tanto piu' quando l'effetto estintivo debba spiegarsi nei confronti dei reati che, direttamente o indirettamente, violano precetti costituzionalmente sanciti e posti a tutela di fondamentali esigenze della comunita' e, dall'altro lato, ha ritenuto che nei confronti dei vari moderni condoni, in quanto moderne forme di esercizio della generale potesta' di clemenza dello Stato, va posto il problema dei limiti costituzionali all'esercizio di tale potesta'. In proposito la Corte continua dicendo che la non punibilita' o la non procedibilita' di cui ai moderni condoni penali, specie quando cancellano reati lesivi di beni fondamentali della comunita', va usato negli stretti limiti consentiti dal sistema costituzionale, il quale precisa fondamento, finalita' e limiti dell'intervento punitivo dello Stato. Contraddire vanificare sia pure temporaneamente le ragioni prime della punibilita' attraverso l'esercizio arbitrario della "non punibilita'" equivale non soltanto a violare l'art. 3 della Costituzione, ma ad alterare con il principio dell'obbligatorieta' della pena, l'intero volto del sistema costituzionale in materia penale. In ordine al condono edilizio del 1985 la Corte arrivo' a trovare una giustificazione sulla base della considerazione che il legislatore, con la legge citata, ha inteso chiudere un passato d'illegalita' di massa, alla quale aveva anche contribuito la non sempre perfetta efficienza delle competenti autorita' amministrative ed ha iniziato a porre "sicure" basi normative per la repressione futura di fatti che violano fondamentali esigenze sottese al governo del territorio, come la sicurezza dell'esercizio dell'iniziativa economica privata, il suo coordinamento a fini sociali (art. 41, secondo e terzo comma, della Costituzione) la funzione sociale della proprieta' (art. 42, secondo comma, della Costituzione) la tutela del paesaggio e del patrimonio storico artistico (art. 9, secondo comma, della Costituzione), ecc. E questi beni, secondo la discrezionale, ed incensurabile in questa sede, valutazione del legislatore del 1985, non potevano essere validamente difesi per il futuro se non attraverso la "cancellazione" del notevole, ingombrante "carico pendente" relativo alle passate illegalita' di massa. Analoghe considerazioni non possono di certo essere riesumate per giustificare oggi, a distanza di nove anni dall'emanazione del primo condono edilizio, un successivo provvedimento che arrivi a statuire, addirittura, la "riapertura dei termini" dell'altro. Ne' d'altro canto puo' bastare ad assicurare una ragionevole compatibilita' costituzionale del condono edilizio l'esigenza di perseguire le finalita' enunciate dal governo per giustificare la sussistenza del requisito di necessita' ed urgenza, e, precisamente, quella del rilancio economico ed occupazionale dei lavori pubblici e dell'edilizia privata, nonche' quella della semplificazione dei procedimenti in materia urbanistica edilizia. Non c'e' dubbio che la decisione della Corte costituzionale di respingere le censure di costituzionalita' del condono edilizio del 1985 fu fondamentalmente suggerita dall'eccezionalita' del provvedimento e dall'esigenza di chiudere con il passato in occasione dell'emanazione di una nuova organica disciplina legislativa. Un'analoga decisione della Corte oggi, nei confronti del condono edilizio, del 1994, non potendo avere a base ne' le citate ragioni ne' altri validi motivi, finirebbe con il riconoscere per il presente e per il futuro la facolta' di rompere a piacimento il nesso costante tra reato e punibilita', in modo da "svilire il senso stesso della comminatoria edittale e della punizione" e cio' con grave danno del principio costituzionale di eguaglianza e della stessa certezza del diritto.