IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA Ha pronunciato la seguente ordinanza. Sciogliendo la riserva di decidere espressa all'udienza del 13 ottobre 1994 nel procedimento di sorveglianza promosso da Corrao Antonino, nato a Palermo il 27 gennaio 1964, ivi residente in via Alagna Giacomo, 2/d, con istanze dirette ad ottenere il rinvio obbligatorio o il rinvio facoltativo dell'esecuzione della pena, ai sensi degli artt. 146 e 147 c.p. RITENUTO IN FATTO I Corrao, affetto da A.I.D.S. conclamata (cfr. documentazione sanitaria in atti), deve espiare le pene di anno 1 e mesi 10, anni 2 e mese 1 e anni 4 e mesi 2 di reclusione di cui alle sentenze 3 marzo 1986, 8 ottobre 1987 e 30 giugno 1989 dalla corte d'appello di Palermo, per violazioni della legge sugli stupefacenti, nonche' la pena di anni 2 di reclusione di cui alla sentenza 14 luglio 1994 del g.i.p. c/o il tribunale di Palermo, per il reato di rapina aggravata, pene la cui esecuzione e' in atto provvisoriamente sospesa in forza di provvedimenti interinali del magistrato di sorveglianza di Palermo del 30 luglio 1994 e del 10 ottobre 1994 adottati ai sensi dell'art. 684 c.p.p. Il predetto Corrao, in ragione del riscontrato stato di A.I.D.S. conclamata, ha ottenuto con ordinanza del 22 luglio 1993 del tribunale di sorveglianza di Palermo il beneficio del rinvio dell'esecuzione della pena ai sensi dell'art. 146, primo comma n. 3 c.p., per il periodo di anno 1, e lo stesso soggetto, durante tale periodo di sospensione, si e' reso responsabile del reato di rapina aggravata in data 6 agosto 1993 (cfr. citata sentenza 14 luglio 1994 g.i.p. Palermo). Alla luce del grave e recidivante curriculum criminale del Corrao (lo stesso e' incorso negli specifici delitti di detenzione e spaccio di stupefacenti in data 10 novembre 1985, 8 ottobre 1987 e 14 settembre 1988 cfr. certificato penale e citate sentenze di condanna in atti), ed in particolare, in considerazione della recente ricaduta - nonostante lo stato di malattia ed il beneficio applicatogli - nel grave delitto di rapina sopraindicato, devesi formulare nei suoi confronti un giudizio di elevata pericolosita' sociale, il cui grado attuale esige, ai fini di un suo adeguato contenimento, l'applicazione di una misura detentiva: CONSIDERATO IN DIRITTO L'istanza di rinvio obbligatorio della pena ai sensi dell'art. 146, n. 3, c.p. deve essere trattata per prima, stante il suo carattere assorbente ed il suo rapporto di precedenza logico- giuridica, rispetto all'altra istanza di rinvio facoltativo ex art. 147, n. 2, c.p. Ai fini del presente giudizio, si appalesa rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 146, primo comma, n. 3, c.p., in relazione agli artt. 2, 3, 27, primo e terzo comma, e 32, della Costituzione. Si deve, anzitutto, considerare che la Corte costituzionale, con sentenze 21 febbraio-3 marzo 1994, n. 70, e 6-15 luglio 1994, n. 308, ha affermato che il bene tutelato dalla norma di cui all'art. 146, primo comma, n. 3, c.p. e' costituito dalla salute collettiva nello specifico contesto carcerario. La modalita' di tutela di tale bene prevista dall'art. 146 c.p. consiste nella decarcerizzazione del condannato affetto da A.I.D.S. conclamata o da grave immunodeficienza, attraverso il meccanismo della sospensione obbligatoria dell'esecuzione della pena detentiva. Se, quindi, il bene tutelato dall'art. 146, n. 3, c.p. non e' tanto la salute individuale del condannato, bensi' appunto la salute collettiva nel particolare consorzio carcerario e se la tutela di essa si realizza attraverso l'allontanamento del condannato dal carcere, cio' non puo' voler dire altro se non che la fonte di pericolo alla salute collettiva carceraria e' costituita proprio dal malato di A.I.D.S. e che tale pericolo non puo' che consistere nel rischio di contagio ai danni delle altre persone presenti nella sede carceraria, ossia, principalmente, il personale penitenziario e gli altri detenuti, che cosi' assurgono al rango di veri e propri beneficiari della denunziata norma. Alla luce di tali prime considerazioni, emerge gia' un profilo di irragionevolezza della norma in esame, giacche', se lo scopo di essa e' quello di tutelare la salute collettiva nelle carceri, evitando il rischio di contagio, tale scopo dovevasi perseguire non soltanto con riferimento ai malati di A.I.D.S. conclamata, che costituiscono, tra l'altro una esigua minoranza, bensi' nei riguardi di tutti i condannati sieropositivi di numero assai maggiore, essendo evidente che e' dalla sieropositivita' che dipende il rischio del contagio del virus H.I.V. e non certo dallo stadio della malattia o dal numero dei linfociti. La disfunzionalita' della norma denunziata rispetto al fine perseguito acquista un particolare rilievo, ove si considerino gli altri interessi, costituzionalmente rilevanti, coinvolti e irragionevolmente sacrificati nella fattispecie disciplinata dall'art. 146, n. 3, c.p. Invero, nella vicenda dell'esecuzione della pena detentiva nei confronti dei condannati affetti da A.I.D.S. conclamata o da grave immunodeficienza, oltre al bene della salute collettiva carceraria tutelato dall'art. 146 (bene che non trova una privilegiata e specifica tutela costituzionale, onde la sua rilevanza costituzionale puo' ricavarsi soltanto dalla tutela del bene generale della salute collettiva previsto dall'art. 32 Cost., essendo, come e' ovvio, il consorzio carcerario parte integrante del generale consorzio civile), altri beni di elevatissimo rango costituzionale entrano in giuoco. Prima di individuare tali beni e di argomentare l'illegittimita' costituzionale del loro sacrificio nella previsione dell'art. 146, n. 3, c.p., occorre premettere alcune osservazioni di carattere generale. Secondo l'insegnamento della Corte costituzionale consacrato in numerose sentenze, il legislatore ordinario, nell'esercizio del suo potere discrezionale di dettare norme che incidono su interessi costituzionalmente rilevanti, tra loro in rapporto di concorrenza o di confliggenza, incontra limiti di ordine costituzionale. In via generale, il bilanciamento degli interessi coinvolti ed il sacrificio di alcuni di essi, in favore di altri, soggiacciono al limite della ragionevolezza della scelta legislativa, nel senso di una non arbitraria e non ingiustificata composizione dei valori in giuoco. Tale scrutinio di ragionevolezza deve essere tanto piu' penetrante quanto piu' rilevanti sono i beni coinvolti e quanto piu' intenso e' il sacrificio loro imposto dalla norma scrutinata. In particolare, la Corte costituzionale, con sentenza 13 maggio 1993 n. 1235, ha affermato che la tutela di un interesse non puo' essere assoluta e incondizionata, a totale scapito degli altri interessi, essendo necessario un loro bilanciamento. La stessa Corte, con sentenza 1 aprile 1992, n. 149, aveva affermato che, nel caso di due interessi costituzionalmente rilevanti in conflitto, la norma, per essere costituzionalmente legittima, non deve escludere, in ordine all'interesse postergato, la possibilita' della prova dell'inesistenza, nel caso concreto, delle condizioni che, secondo il bilanciamento sotteso alla norma stessa, giustifica la precedenza attribuita all'interesse antagonistico. Infine, con riferimento proprio alla normativa penitenziaria, con sentenza 11 giugno-8 luglio 1993, n. 306, la Consulta ha affermato l'importantissimo principio secondo cui, nell'ambito delle finalita' che la Costituzione assegna alla pena: quella di prevenzione generale e di difesa sociale, con i connessi caratteri di retributivita' e afflittivita', e quella di prevenzione speciale e di rieducazione, con il connesso carattere di una certa flessibilita' della pena in funzione risocializzatrice, il legislatore ordinario puo' - nei limiti della ragionevolezza - far tendenzialmente prevalere, di volta in volta, l'una o l'altra finalita', ma a patto che nessuna di esse ne risulti obliterata. Alla luce e nell'ambito di tali chiari e stringenti principi sanciti dalla Corte costituzionale, e' ora possibile procedere alla esposizione delle molteplici ragioni di incostituzionalita' della norma denunziata. Invero, nell'ipotesi prevista dall'art. 146, primo comma, n. 3 del c.p. puo' affermarsi che tutte le finalita' che la Costituzione assegna alla pena risultano obliterate. Cosi' e' totalmente obliterata la finalita' di prevenzione generale e di difesa sociale - finalita' la cui realizzazione dipende, come e' noto, non soltanto dalla minaccia legale della sanzione penale, ma anche e soprattutto dalla sua concreta esecuzione - giacche' una pena di cui e' stabilita l'obbligatoria ineseguibilita', in presenza di predeterminate e prevedibili condizioni tipiche, oggetto di automatico accertamento giudiziale, come nel caso della norma esaminata, non puo' svolgere alcuna funzione di intimidazione e dissuasione, rispetto a possibili futuri comportamenti criminosi, sia nei confronti del concreto destinatario di essa, sia nei confronti degli altri soggetti che si trovano nella medesima situazione prevista dall'art. 146, n. 3, c.p. Infatti, la minaccia di una pena - nei confronti di un soggetto che puo' prevedere, in termini di certezza o, comunque, di elevata probabilita', anche in considerazione dell'attuale carattere tendenzialmente permanente e irreversibile della malattia dell'AIDS, che la stessa pena non verra' eseguita - non ha una efficacia intimidativa diversa da quella delle celebri grida manzoniane. Puo', anzi, affermarsi che, a causa della norma denunziata, l'intero sistema penale perde la sua concreta efficacia deterrente, nei confronti di una intera categoria di soggetti legislativamente predeterminata, e smarrisce nei loro riguardi la sua irrinunziabile funzione di tutela dei beni giuridici fondamentali, perseguita attraverso la tipica tecnica dell'intimidazione penale. Invero la generalita' dei beni penalmente protetti risulta cosi' esposta alle possibili offese dei soggetti affetti da AIDS conclamata o da grave immunodeficienza, nei cui confronti l'ordinamento giuridico rinunzia sostanzialmente alla forza intimidativa e dissuasiva della pena. Nell'ipotesi dell'art. 146, n. 3, c.p. risulta, altresi', vanificata ogni dimensione retributiva-afflittiva della pena, giacche', come e' evidente, la rinunzia sine die all'esecuzione di essa lascia sostanzialmente impunito il reato commesso, in un'ottica di deresponsabilizzazione che contraddice il principio sancito dal primo comma dell'art. 27 della Costituzione. E', infine, totalmente obliterata la finalita' di prevenzione speciale di rieducazione della pena. Invero, la norma denunziata impone al tribunale di sorveglianza di accertare soltanto la ricorrenza dello stato di AIDS conclamata, certificato dalle autorita' sanitarie, o di grave immunodeficenza, con un numero di linfociti inferiori a 100, in base a due esami consecutivi a distanza quindicinale, escludendo ogni considerazione specialpreventiva e rieducativa riferibile al caso concreto. A differenza di altre ipotesi previste dal nostro ordinamento di rinunzia giudiziale, temporanea o definitiva, all'esecuzione della pena che sono subordinate ad una prognosi specialpreventiva favorevole (cosi' la sospensione condizionale della pena ed il perdono giudiziale, che presuppongono un giudizio predittivo nel senso che il colpevole si asterra' dal commettere ulteriori reati, cosi' il rinvio facoltativo dell'esecuzione della pena che, proprio nel carattere discrezionale della concessione del beneficio, pur in presenza di una grave infermita' fisica, offre lo spazio alle necessarie valutazioni specialpreventive del caso concreto), nell'ipotesi, invece, dell'art. 146, n. 3, c.p. le esigenze specialpreventive e rieducative del reo non hanno alcuna rilevanza giudiziale. Il tribunale di sorveglianza, in presenza delle condizioni patologiche prima indicate, deve obbligatoriamente sospendere l'esecuzione della pena detentiva, anche d'ufficio, indipendentemente da ogni considerazione specialpreventiva e rieducativa; deve sospenderla, ancorche' il condannato sia persona socialmente pericolosa, con conseguente vanificazione della funzione specialpreventiva in senso neutralizzativo della pena detentiva; deve sospenderla, ancorche' il condannato sia bisognevole di trattamento rieducativo penitenziario, con conseguente vanificazione della funzione rieducativa della pena detentiva; deve sospenderla, ancorche' il malato di AIDS sia bisognevole di trattamento sanitario in ambiente controllato, con conseguente pregiudizio alla sua stessa salute, come nell'ipotesi di un soggetto incapace di autogestione responsabile della sua situazione patologica in ambiente libero, nei cui confronti e' preferibile o necessario, ai fini di una adeguata assistenza sanitaria, un trattamento istituzionale. In altri termini, il tribunale di sorveglianza deve sospendere l'esecuzione della pena detentiva, in base ad un rigido automatismo giudiziale, non importa se tale sospensione sia socialmente utile o dannosa, se il condannato sia un soggetto socialmente pericoloso o meno, se sia un pluriomicida o un emissore di assegni a vuoto, se debba espiare l'ergastolo o la pena dell'arresto, se sia un soggetto rieducato e risocializzato o meno, se l'alternativa al carcere sia una adeguata assistenza sanitaria e un effettivo reinserimento familiare e sociale ovvero il degrado e l'abbandono. La pena, nella disciplina dell'art. 146, n. 3, c.p., smarrisce cosi' i suoi essenziali criteri di personalita', individualizzazione e adeguatezza alle necessita' specialpreventive, rieducative e risocializzative del reo, in contraddizione con il volto costituzionale della pena configurato dal primo e dal terzo comma dell'art. 27 della Costituzione. Di tale drastico abbattimento della dimensione specialpreventiva della pena puo' non accorgersi soltanto chi coltiva una concezione pseudo-umanitaria, costituzionalmente inaccettabile, che vede nella condizione detentiva sempre e soltanto un momento repressivo e antieducativo e nella condizione libera sempre e comunque un momento rieducativo e risocializzativo. L'obliterazione della dimensione specialpreventiva della pena non trova, peraltro, un adeguato correttivo nella bonta', esaustivita' e ragionevolezza della valutazione legale tipica - come puo' invece affermarsi con riferimento alla diversa ipotesi di rinvio obbligatorio prevista dai nn. 1 e 2 dell'art. 146 - giacche' all'ipotesi del n. 3 e' riconducibile una varieta' e molteplicita' di situazioni patologiche, personologiche e criminologiche, tra loro profondamente differenti, meritevoli di diverso trattamento (cosi', a titolo esemplificativo, dal malato terminale ospedalizzato e ridotto all'innocuita' dal tipo di malattia opportunistica insediatasi, al soggetto affetto da AIDS conclamata cui, invece, la malattia non impedisce la commissione di reati, come nel caso che ha originato il giudizio de quo, al soggetto che, addirittura, usa il suo male come arma di minaccia, all'immunodepresso asintomatico che, al di la' di valori linfocitari bassi, magari in continua oscillazione, non presenta altri segni patologici o invalidanti etc.). Si aggiunga che la violazione del personalismo e finalismo rieducativo della pena e' tanto piu' grave nella disciplina dell'art. 146, n. 3, c.p., ove si consideri che il bene tutelato da tale norma - che si e' visto essere la salute collettiva carceraria - e' un bene estraneo o, comunque, non precipuo rispetto alle finalita' costituzionali della pena, con la conseguente sostanziale strumentalizzazione del reo e della sanzione penale per finalita' eteronome, in evidente contrasto con l'art. 27, primo e terzo comma, Cost. Si osservi, ancora, che la vanificazione, ad opera della norma denunziata, delle finalita' generalpreventiva della pena detentiva non trova de iure condito, ne' puo' trovare de iure condendo, adeguati meccanismi compensatori in altri misure coercitive o in altri presidi di sicurezza, specialmente nei confronti dei soggetti la cui elevata pericolosita' sociale, come nel caso di specie, non puo' essere infrenata se non con l'applicazione di misure detentive. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 70 ed, in particolar modo, con quella n. 308 del '94, ha riconosciuto la sussistenza di esigenze di tutela collettiva nei confronti dei malati di AIDS socialmente pericolosi, con particolare riferimento all'applicazione delle misure di sicurezza detentive, invocando il pronto intervento del legislatore nel quadro di un doveroso bilanciamento dei valori in giuoco. Ora, nel caso dei malati di AIDS conclamata, socialmente pericolosi e condannati a pena detentiva, perdurando la vigenza della disciplina di cui all'art. 146, n. 3, c.p., nessun altro presidio normativo e nessun altra misura possono adeguatamente surrogare la riscontrata vanificazione delle funzioni essenziali della pena detentiva. Non le misure coercitive processuali, sia in considerazione dei limiti funzionali e temporali derivanti della loro finalita' endoprocessuale, sia in considerazione del fatto che il legislatore ha coerentemente previsto all'art. 286- bis c.p.p., con norma parallela all'art. 146 c.p., il divieto di custodia cautelare in carcere, nei medesimi casi e nei confronti dei medesimi soggetti, con la conseguenza che anche le altre misure cautelari, come gli arresti domiciliari, perdono ogni concreta efficacia coercitiva, non essendo le violazioni delle relative prescrizioni sanzionabili mediante la conversione in detenzione cautelare in carcere. Non le misure di sicurezza personali, giacche' la loro esecuzione e' prevista dall'art. 211 c.p. successivamente all'integrale espiazione o estinzione della pena detentiva, sicche' sospesa l'esecuzione di quest'ultima ex art. 146 c.p., neppure le misure di sicurezza, sia detentive, sia non detentive, possono trovare applicazione. Il che determina, tra l'altro, per effetto della denunziata norma, una ingiustificata e grave disparita' di trattamemto tra i malati di AIDS socialmente pericolosi, i quali, dovendo espiare in tutto o in parte la pena detentiva e potendo beneficiare dell'art. 146, n. 3, c.p., non possono essere sottoposti alla misura di sicurezza detentiva, consecutivamente prevista al termine della pena, ed i malati di AIDS socialmente pericolosi, i quali, avendo gia' integralmente scontato la pena, possono invece, soggiacervi, non essendo prevista nel nostro sistema normativo la sospensione della misura di sicurezza per motivi di salute. Non le misure di prevenzione, giacche' il nostro ordinamento non prevede misure di prevenzione di tipo detentivo, ne' altre misure preventive adeguate ai soggetti in esame. Non il trattamento sanitario obbligatorio, sia perche' non previsto nei confronti dei malati di AIDS, sia perche', comunque, il presupposto di tale trattamento non puo' che essere la pericolosita' sanitaria del malato e non certo la sua pericolosita' sociale, laddove invece, per le caratteristiche epidemiologiche e sociologiche dell'AIDS, la prima e' strettamente connessa alla seconda. Se tale e' lo stato dell'attuale normativa, puo' verificarsi il caso - che si cita solo a titolo esemplificativo - di una persona affetta da AIDS conclamata, che in odio al mondo, commetta un omicidio, la quale, non potendo essere detenuta in custodia cautelare in carcere per il divieto sancito dall'art. 286- bis c.p.p., puo' al piu' essere posta agli arresti domiciliari, evadendo dai quali, commetta un altro omicidio e, non potendo essere neppure allora condotta in carcere, venga nuovamente riaccompagnata nella sua abitazione e, nuovamente, evada e commetta un altro reato, e cosi' via, teoricamente all'infinito. Tale persona, una volta condannata con sentenze regiudicate per gli omicidi ed i reati commessi - non importa se uno, dieci o cento - non dovra' espiare alcuna delle pene inflittegli - non importa se uno, dieci o cento ergastoli - beneficiando del rinvio obbligatorio ex art. 146, n. 3, c.p. e, come si e' visto, nei suoi confronti non sara' neppure applicabile una misura di sicurezza. Tale e', al di la', del caso estremo ma non impossibile teste' citato, la potenzialita' eversiva e distruttiva dell'ordinamento giuridico e delle basi stesse della convivenza civile, insita in una norma come quella denunziata. Una norma che prevede un beneficio che, stante la sua automatica, obbligatoria e indiscriminata concedibilita', puo' equivalere in pratica ad una licenza irrevocabile di delinquere| Si osservi, comunque, che, anche se il legislatore introducesse, in costanza della disciplina di cui all'art. 146, n. 3, c.p., altre misure coercitive applicabili ai condannati affetti da AIDS conclamata - che con riferimento ai soggetti di elevata pericolosita' non potrebbero che essere di tipo detentivo - la legge entrerebbe in contraddizione con se stessa, giacche' non avrebbe alcun senso sospendere, da un lato, l'esecuzione della pena detentiva ed applicare, dall'altro lato, una diversa misura detentiva, in una sorta di giuoco delle etichette, in cui la finalita' di una norma e' vanificata da un'altra norma. Infatti, se il fine e' quello di tutelare la salute collettiva nelle strutture penitenziarie, poco importa se il soggetto malato di AIDS sia detenuto in espiazione di una pena o in applicazione di altra misura detentiva diversa dalla pena. Alla stregua di tutte le considerazioni suesposte, e' evidente come il fondamentale principio sancito dalla Corte costituzionale con sentenza n. 306 del '93 risulta violato nella fattispecie prevista dall'art. 146, n. 3, c.p. Tale violazione e' tanto piu' grave, ove si consideri che non una - il che sarebbe gia' sufficiente per tacciare di incostituzionalita' la norma - bensi' tutte le finalita' essenziali della pena risultano sacrificate e ove si consideri, ancora, che tale sacrificio si consuma per la tutela di un bene - la salute collettiva carceraria - di rango quantitativamente, se non qualitativamente, inferiore rispetto alla generalita' dei beni correlati alle funzioni costituzionali della pena, tutela che avrebbe dovuto e potuto perseguirsi, non in modo assoluto, incondizionato e indiscriminato, bensi' in modo compatibile e non confliggente con i fondamentali interessi protetti dal sistema penale e, invece, irragionevolmente socrificati nella disciplina di cui all'art. 146, n. 3, c.p. Cosi' per evitare che il condannato malato di AIDS rechi danno alla salute collettiva carceraria, invece di adeguare le strutture sanitarie e penitenziarie al fine di realizzare una gestione "sicura" di tali soggetti, si e' adotatta una soluzione normativa, il cui effetto sostanziale e' quello di esporre a grave pericolo tutti gli altri fondamentali beni della collettivita' e dei singoli cittadini, beni assistiti dalla garanzia di inviolabilita' sancita dall'art. 2 della Costituzione: dalla vita, all'incolumita', al patrimonio, alla stesa salute individuale e collettiva. Invero, lo stesso art. 32 Cost. che fonda la rilevanza costituzionale del bene tutelato dall'art. 146, n. 3, c.p. puo' essere invocato per sancire l'incostituzionalita' di tale norma, sotto il profilo che il legislatore, trasferendo il malato di AIDS dal carcere all'ambiente libero e salvaguardando cosi' il bene della salute collettiva carceraria, ha esposto a grave e maggior pericolo il bene della salute collettiva extracarceraria, ossia un bene quantitativamente maggiore, essendo riferibile ad un numero enormemente piu' elevato di soggetti. In tale trasferimento dal carcere all'ambiente libero, il legislatore ha, per giunta, aggravato l'entita' del pericolo della salute collettiva, essendo evidente che un conto e' il controllo di tale pericolo nei confronti di una persona detenuta, in statu subiectionis e come tale coercibile con varie misure precauzionali tra cui, ad esempio, l'isolamento per ragioni sanitarie previsto dall'art. 33 dell'ordin. penit., altro conto e' realizzare tale controllo nei confronti di una persona libera e, come si e' visto prima, non coercibile. Si aggiunga che l'irragionevolezza della norma denunziata risalta ancor di piu', ove si consideri che, sia le esigenze umanitarie nei confronti del condannato, sia le esigenze di salvaguardia della sa- lute collettiva carceraria, trovavano gia', nella disciplina previgente all'introduzione dell'art. 146, n. 3, c.p., adeguata ed equilibrata tutela, in particolare, negli istituti del rinvio facoltativo dell'esecuzione della pena detentiva ex art. 147, n. 2, c.p. e del ricovero in luoghi esterni di cura previsto dall'art. 11 ordin. penit. Si aggiunga, infine, un profilo secondario di incostituzionalita' della norma denunziata, ampiamente assorbito dai profili precedentemente illustrati, ossia la mancata previsione - in violazione del principio generale sancito con sentenza 1 aprile 1992, n. 149, della Corte costituzionale - della possibilita' della verifica giurisdizionale dell'inesistenza, nel caso concreto, delle condizioni che dovrebbero giustificare il sacrificio degli interessi postergati e la precedenza accordata all'interesse tutelato dalla norma, come nell'ipotesi di pena detentiva che devesi concretamente espiare in un carcere adeguatamente attrezzato, con strutture sanitarie e logistiche interne e con collegamenti con strutture esterne, tali da rendere pienamente tutelati i beni della salute del singolo condannato e della collettivita' carceraria.